Un figlio (anche se adottivo) a tutti i costi: di fronte al desiderio di genitorialità c’è qualcuno che se ne approfitta…

La condotta di chi, vantando un’amicizia con i giudici minorili, si faccia dare denaro al fine di influenzare e velocizzare le pratiche volte all’adozione di un bambino, configura il delitto di millantato credito.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4288, depositata il 29 gennaio 2015. Il caso. Una donna veniva imputata e condannata per aver fatto molto di più che la mediatrice e la consulente ad una coppia di coniugi che desiderava adottare un bambino. Si accertava, infatti, che la donna aveva preteso ed ottenuto dagli aspiranti genitori adottivi una somma di denaro, pagata a mezzo assegni e contanti, per sostenere” la domanda di adozione presso i giudici del Tribunale per i minorenni di Catanzaro. Non solo. Per suffragare la messa in scena di una paventata capacità di influire sull’attività dei giudici e di fare garantire in tempi rapidi l’adozione, l’imputata organizzava altresì un incontro informale con un giudice del predetto Tribunale, del tutto ignaro della manovra. Di qui l’accusa di truffa e, soprattutto, di millantato credito. I giudici di merito riconoscevano la colpevolezza dell’imputata e, riconosciuta la continuazione tra i due reati, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e alla recidiva reiterata, condannavano l’imputata alla reclusione e alla multa, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita. I provvedimenti dei giudici di merito variavano unicamente rispetto alla dichiarazione di estinzione per decorso del tempo di prescrizione relativamente al reato di truffa, sicché le pene venivano semplicemente rideterminate dal punto di vista quantitativo. Configurabile il concorso tra truffa e millantato credito. Costituisce ius receptum la possibilità che entrambi i reati siano contestati in concorso, trattandosi di delitti che si differenziano quanto all’oggetto della tutela penale il patrimonio nel delitto di truffa e il prestigio della Pubblica Amministrazione nel delitto di millantato credito. Un’unica azione, pertanto, può integrare due reati – naturalmente avvinti dal vincolo della continuazione – quando l’azione si caratterizzi a un tempo da vantata capacità di ingerenza e pressione nei confronti di un pubblico ufficiale perciò presentato come corruttibile e da artifici e raggiri idonei ad ingenerare maggiore affidamento nella vittima. Ben oltre la mediazione e la consulenza. La persona offesa, le cui dichiarazioni sono state ritenute attendibili e suffragate da elementi di riscontro, aveva testimoniato in merito all’approccio con cui l’imputata si era esposta nei suoi confronti. Benché in sede difensiva l’imputata abbia offerto la tesi della mera opera di mediazione e di cura della pratica di adozione dei coniugi, e anzi, di un’attività lecita consistente nell’ausilio per l’espletamento delle pratiche di adozione e per il rimborso delle spese e, pertanto, secondo tale impostazione, semplicemente” retribuita in quanto tale, dall’istruttoria emergevano segni del tutto contrari. Inoltre, emergeva che la donna si era dichiarata membro di associazione benefica e in grado di intervenire efficacemente e in tempi rapidi ed è noto che i tempi tradizionali sono tutt’altro che brevi per l’ottenimento dell’adozione di un minore. Le dichiarazioni accusatorie erano riscontrate dal marito dell’aspirante mamma, nonché di una conoscente comune che aveva presentato l’imputata alla coppia e di un altro individuo che assisteva alla consegna del denaro dalla vittima al figlio dell’imputata e che era edotto delle ragioni di tale consegna, vale a dire il desiderio della coppia di ottenere l’adozione di un bimbo. Infine, gli assegni costituivano prova documentale. Insomma, nessuna attività professionale. Se è ben vero che, in effetti, i coniugi ottenevano il decreto di adottabilità, vale a dire il decreto con cui il Tribunale per i minorenni dichiara i coniugi idonei all’adozione, in concreto era da escludere la riconducibilità delle richieste e delle dazioni di denaro ad una attività professionale dell’imputata. Quest’ultima, infatti, non aveva posto in essere alcuna iniziativa o intervento funzionale all’ottenimento dell’affidamento del minore, a parte la messa in scena del colloquio con un magistrato che era frutto, appunto, di un artificio, di una falsa rappresentazione della realtà strumentale a convincere gli aspiranti adottanti a versare le somme richieste. Millantata amicizia = millantato credito. Per accreditare la propria figura e per rappresentare platealmente alle vittime quanto asseriva, la mediatrice” accompagnava i coniugi ad un colloquio con un magistrato del Tribunale per i Minorenni, colloquio che, in realtà, era un artificio diretto ad avvalorare la vantata amicizia della donna con i giudici minorili e la pretesa sua capacità di influenzare le decisioni dei magistrati, addirittura, facendo credere alle vittime di poter ottenere l’affidamento di un neonato che si trovava presso un ospedale della zona, nato da madre che non intendeva riconoscerlo. Da evitare il mercimonio di funzione pubblica. La condotta sanzionata dalla norma incriminatrice, come noto, è quella di scongiurare che la funzione pubblica sia oggetto di – presunto o reale – mercimonio da parte di chi vanti una vicinanza con il pubblico ufficiale. L’interpretazione più evoluta della norma è nel senso che ad essere punita è quella condotta che raffigura i pubblici impiegati come soggetti inclini ai favoritismi. È, in definitiva, sufficiente ad integrare il reato la semplice vanteria relativa all’influenza che l’agente asserisca avere sul pubblico ufficiale è in ciò che si deve cogliere il profilo di offensività all’immagine della Pubblica Amministrazione, e ciò a prescindere dal profilo ulteriore – ma eventuale – che tale condotta configuri altresì un inganno o raggiro nel qual caso sarà integrato anche il delitto di truffa .

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 13 maggio 2014 – 29 gennaio 2015, n. 4288 Presidente Di Virginio – Relatore Paoloni Fatto e diritto 1. Con sentenza emessa il 16.2.2009 dal Tribunale di Salerno, procedente ai sensi dell'art. 11 c.p.p., Vita L. è stata riconosciuta colpevole dei connessi reti di millantato credito art. 346 co. 1 c.p. e di truffa realizzati a Cosenza nel maggio 2003 in pregiudizio dei coniugi G.P. e G.M Condotta integrata dall'aver richiesto ai due coniugi, privi di figli e determinati ad effettuare l'adozione di un bambino, somme di denaro, in concreto ricevute per gli importi di euro 2.000 in contanti ed euro 1.980 in assegni, come prezzo della propria mediazione presso giudici del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro dove, tra l'altro, conduceva la P. per un generico incontro con l'ignaro giudice Orazio Ciampa per favorire la loro pratica di adozione nazionale o internazionale di un minore. Per l'effetto il Tribunale, unificati i due reati sotto il vincolo della continuazione e concesse le attenuanti generiche stimate equivalenti ad aggravanti e recidiva reiterata, ha condannato la L. alla pena di un anno e sei mesi di reclusione ed euro 1.500 di multa ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile G.P 2. Adita dall'impugnazione della L., la Corte di Appello di Salerno, con l'indicata sentenza in data 15.1.2013, ha confermato in punto di responsabilità la decisione di primo grado, dichiarando tuttavia estinto per prescrizione il reato di truffa e rideterminando la pena inflitta all'imputata in un anno e tre mesi di reclusione ed euro 1.200 di multa con conferma delle statuizioni civili. I giudici di appello hanno disatteso la tesi difensiva prospettata dalla L., escludendo che la stessa si sia limitata a svolgere una lecita opera di mediazione e di cura della pratica di adozione dei coniugi P.-M., avuto riguardo alla piena attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa G.P La L., presentatale dalla conoscente F.P. e dichiaratasi membro di un'associazione benefica, si è esplicitamente detta in grado di intervenire in modo efficace e in tempi rapidi per far ottenere a lei e al coniuge l'adozione di un minore. Per avvalorare tale assunto ha vantato la sua amicizia con giudici minorili di Catanzaro, accompagnandola presso un magistrato del Tribunale per i Minorenni per un colloquio, di cui non ha compreso le ragioni e poi rivelatosi pretestuoso e diretto ad avvalorare la pretesa capacità di influenza della stessa L., giunta a farle credere possibile l'affidamento di un bambino appena nato presso l'ospedale di Cosenza da madre che non intendeva riconoscerlo. Dichiarazioni della P. che, per i giudici di appello, hanno trovato piena conferma nella oggettiva individuazione degli assegni emessi dalla donna all'ordine della L. nonché nelle concordi dichiarazioni, oltre che dell'altra persona offesa G.M. marito della P. , dei testimoni Paletta e Spadafora il secondo assiste alla consegna di denaro dalla P. al figlio della L. ed è edotto dei motivi di tale consegna sottesi al desiderio della donna e del marito di ottenere l'adozione di un bambino . 3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore della L., formulando i due motivi di censura di seguito riassunti. 3.1. Erronea applicazione dell'art. 346 c.p. e difetto di motivazione. L'istruttoria dibattimentale non ha fatto emergere gli elementi costitutivi della contestata fattispecie nella condotta dell'imputata. II denaro che la stessa ha ricevuto dalle persone offese non è il corrispettivo per l'opera di mediazione se non corruzione presso un pubblico ufficiale, ma la retribuzione di attività lecita, frutto dell'ausilio dispiegato dalla L. per l'espletamento delle pratiche di adozione dei coniugi P. e M. e per il rimborso delle spese all'uopo sostenute. Ne è riprova il fatto che i due coniugi hanno regolarmente conseguito il decreto di adottabilità íd est decreto di idoneità all'adozione . 3.2. Violazione dell'art. 157 c.p. e omessa declaratoria di prescrizione del reato. La Corte territoriale non ha accolto la deduzione difensiva dell'intervenuta prescrizione del reato ascritto alla ricorrente, enunciando argomenti erronei. I giudici di appello hanno ritenuto applicabile al caso di specie il regime prescrizionale previgente alle novelle introdotte in materia dalla legge n. 251/2005, perché più favorevole all'imputata in virtù del consentito ed effettuato in primo grado bilanciamento tra le circostanze del reato, inclusa la recidiva reiterata contestata alla prevenuta. In realtà al reato ascritto alla ricorrente deve ritenersi applicabile il vigente regime della prescrizione che prevede termini più brevi per il formarsi della causa estintiva complessivi sette anni e sei mesi . 4. II ricorso non merita accoglimento. 4.1. II primo motivo di censura è generico e manifestamente infondato. Lo stesso riproduce, per altro in maniera sommaria, i medesimi rilievi formulati avverso la decisione di primo grado, che i giudici del gravame hanno puntualmente vagliato, giudicandoli privi di pregio sulla base di argomenti logici e giuridicamente corretti. Gli stessi rilievi sono altresì palesemente infondati, perché contraddetti in tutta evidenza dai dati storici e comportamentali passati in rassegna da entrambe le decisioni di merito. In particolare l'analisi delle dichiarazioni della persona offesa G.P., in uno ai plurimi riscontri documentali e testimoniali che le stesse hanno rinvenuto, consente di escludere la riconducibilità delle richieste e delle dazioni di denaro, formulate e ricevute dalla L., ad una sua ipotetica lecita attività professionale. E' emersa in modo palmare, infatti, l'insussistenza di qualsiasi iniziativa o intervento della prevenuta funzionale al proposito delle persone offese di ottenere l'affidamento adottivo di un minore, salva la deliberata fraudolenta messa in scena della donna, autoproclamatasi amica di giudici del Tribunale per i Minorenni, al solo scopo di indurre nelle persone offese una falsa rappresentazione della realtà, integrata dalla supposta possibilità di influenzare uno o più pubblici ufficiali, in modo da predisporli ad accedere alle richieste delle somme di denaro da essi versatele cfr. Sez. 6, n. 13479 del 17.3.2010, D'Alesio, Rv. 246734 Sez. 6, n. 45899 del 16.10.2013, Di Matteo, Rv. 257463 . 4.2. Infondato va ritenuto anche il secondo, subordinato, motivo di doglianza in punto di già maturata prescrizione del reato oggetto della regiudicanda. Ha ragione il difensore della ricorrente nel segnalare come erronea l'applicabilità nel caso in esame delle regole di prescrizione previgenti ipotizzata dai giudici di appello. In vero, proprio in ragione dell'avvenuto bilanciamento in termini di equivalenza delle circostanze del reato, quest'ultimo sarebbe scandito da un termine di prescrizione pari nel complesso a quindici anni, certamente superiore a quello emergente dall'applicazione della disciplina recata dai vigenti artt. 157 e ss. c.p. Nondimeno, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, il reato non era, né lo è tuttora, attinto da causa estintiva prescrizionale. Nel caso della L. il termine ordinario di prescrizione prorogabile in misura di un quarto di sei anni deve essere integrato dalla contestata e ritenuta recidiva reiterata ascritta all'imputata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale di cui tener conto per determinare il tempo necessario a prescrivere art. 157 co. 2 c.p. . Il giudice di primo grado ha, infatti, stimato le riconosciute attenuanti generiche equivalenti all'aggravante ex art. 61 n. 2 c.p. millanteria finalizzata alla commissione del reato di truffa dichiarato prescritto dalla sentenza di appello e alla recidiva reiterata cfr. Sez. 6, n. 25082 del 13.6.2011. Levacovich, Rv. 250434 . Di tal che all'indicato termine di sei anni deve cumularsi il termine di tre anni aumento della metà ex art. 99 co. 3 c.p. per la recidiva reiterata . Il risultante termine di nove anni è prorogato in misura di un quarto ai sensi dell'art. 161 co. 2 c.p., divenendo pari a undici anni e tre mesi. Con l'effetto, quindi, che la prescrizione del reato di millantato credito ex art. 346 co. 1 c.p. attribuito alla L. maturerà soltanto alla data dell'1.6.2014. Al rigetto dei ricorso segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.