Modifica dell’imputazione in sentenza: quali sono i limiti?

L’obbligo di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modifica rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato, e ciò accade laddove tale mutamento avvenga a sorpresa e rappresenti uno sviluppo decisorio assolutamente inaspettato, determinando conseguenze negative per l’imputato che si trovi per la prima volta di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4169, depositata il 28 gennaio 2015. Il caso. Il gup presso il Tribunale di Cremona affermava la penale responsabilità di S.R. per il reato di lesioni aggravate. La Corte di appello di Brescia riformava parzialmente la statuizione di prime cure ma solo con riguardo al trattamento sanzionatorio, confermando nel resto la sentenza. Avverso la decisione della Corte territoriale l’imputata ricorreva per cassazione deducendo, tra gli altri, i seguenti motivi di gravame. In primis , vizio di motivazione e violazione di legge processuale con riferimento all’intervenuta illegittima modifica del capo di imputazione in sede di pronuncia di primo grado, nonché per difformità tra quanto risultante nel capo di imputazione e quanto deciso in sentenza, poiché la diversa qualificazione giuridica del reato di maltrattamenti in quello di lesioni aggravate avrebbe comportato una modifica dei fatti dell’imputazione, incidendo negativamente sul diritto di difesa di essa ricorrente. In secundis , S.R. lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva ovvero, nello specifico, di un elaborato peritale eccepisce, infine, la mancata concessione delle attenuanti generiche. La sez. V Penale della Corte di Cassazione, nel rigettare tutti i motivi di gravame, ha avuto modo di riprendere e precisare alcuni importanti principi di diritto processuale. La modifica della imputazione. I Supremi Giudici hanno chiarito come allorquando la diversa qualificazione giuridica appare uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio – stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all’esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all’imputato l’effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta inevitabilmente l’applicazione dell’altra – l’intervenuta modificazione della imputazione non corrisponde ad una sostanziale mutazione del fatto che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile. Infatti, proprio in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quali si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione stessa da cui scaturisca un reale pregiudizio del diritto di difesa. Donde, l’obbligo di correlazione de quo non può ritenersi violato da qualsiasi modifica rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato, e ciò accade laddove tale mutamento avvenga a sorpresa, determinando conseguenze negative per l’imputato che si trovi per la prima volta di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto cioè da imporre una diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo rispetto a quanto illo tempore contestato, in punto di fatto e di diritto, nell’imputazione originaria, di cui deve rappresentare uno sviluppo assolutamente inaspettato. La mancata assunzione della perizia. Fermo restando che il presente motivo di ricorso è stato ritenuto inammissibile in quanto la relativa censura non era stata formulata nei motivi di appello, la Corte Regolatrice ha comunque voluto chiarire come, per giurisprudenza consolidata, la perizia, proprio per il suo carattere neutro, in quanto sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, non solo non può costituire oggetto del diritto delle parti alla prova ex art. 190 c.p.p., ma non può neppure farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, con l’inevitabile conseguenza che il relativo eventuale provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d c.p.p., in quanto giudizio di fatto che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità. La mancata concessione delle attenuanti generiche. Secondo il Supremo Consesso, la Corte di appello ha adeguatamente motivato il diniego delle attenuanti generiche, prendendo in considerazione tutti gli elementi favorevoli e sfavorevoli dedotti dalle parti e rilevabili dagli atti nonostante, per giurisprudenza pacifica, sia sufficiente fare riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti ai fini della mancata concessione, rimanendo tutti gli altri superati da tale valutazione.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 ottobre 2014 – 28 gennaio 2015, n. 4169 Presidente Lombardi – Relatore Miccoli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 8 luglio 2013 la Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della pronunzia di primo grado del G.U.P. del Tribunale di Cremona, riduceva la pena inflitta a S.R. , confermando nel resto. La suddetta imputata era stata riconosciuta colpevole, in concorso con il marito SA.AS. , del reato di lesioni aggravate di cui agli artt. 582, 583 II comma, e 585, in relazione all'art. 577 n. 1 cod. pen., in danno della figlia di entrambi B. di anni due , così diversamente riqualificata l'originaria imputazione di maltrattamenti, formulata nei seguenti termini in concorso tra loro, maltrattavano la figlia minore B. , di anni due, percuotendola ripetutamente, mordendola con forza e procurandole numerose ecchimosi ed escoriazioni al volto e su gran parte del corpo torace, bacino, glutei, gambe ecc. e, ancora, afferrandola e scuotendola violentemente, cagionandole gravissime lesioni intracraniche con danni neurologici permanenti, nonché omettendo di portarla tempestivamente presso il più vicino ospedale, quando, a seguito dello scuotimento violento, perdeva conoscenza subendo gravissime lesioni cerebrali in particolare, per effetto del vigoroso scuotimento del capo, la minore riportava plurimi ematomi subdurali e diffuse alterazioni da danno ipossico - ischemico con aumento della pressione intracranica di entità tale da dover essere sottoposta ad intervento in urgenza di craniectomia decompressiva con resezione e successivo riposizionamento della teca cranica , venendo ridotta in uno stato semivegetativo, con compromissione permanente di numerose funzioni neurologiche la bambina è priva di coscienza, non riconosce le persone, non parla, non deambula, mantiene la posizione supina, non regge il capo, i movimenti degli occhi sono scoordinati, non sono presenti la fissazione e l'inseguimento visivo, viene alimentata con apposito sondino, ecc . In omissis il violento scuotimento causa delle lesioni gravissime si è verificato la sera del omissis . 2. Propone ricorso S.R. , deducendo i seguenti sei motivi. 2.1. Violazione di legge non essendosi il G.U.P. astenuto per incompatibilità ex art. 34 cod. proc. pen., avendo già valutato gli stessi fatti pronunziandosi in precedenza sull'istanza in sede cautelare relativa al coimputato SA.AS. . 2.2. Vizio di motivazione e violazione di legge processuale conseguente alla indeterminatezza e/o all'intervenuta illegittima modifica del capo di imputazione in sede di pronuncia della sentenza di primo grado, nonché per difformità tra quanto risulta dal capo di imputazione e quanto deciso. La diversa qualificazione giuridica del reato di maltrattamenti in reato di lesioni aggravate avrebbe comportato una modifica dei fatti dell'imputazione, soprattutto con riferimento al ruolo della S. . 2.3. Proprio in ordine a quest'ultimo profilo viene dedotto l'ulteriore motivo di censura per violazione di legge e, in particolare, per la violazione del principio della responsabilità personale in sede penale. I giudici di merito hanno accertato che l'autore del comportamento lesivo in danno della minore è stato il coimputato SA.AS. , mentre il ruolo dell'odierna ricorrente sarebbe stato quello di non aver impedito al marito di percuotere la figlia. Anche con riferimento a tale ricostruzione, però, l'imputata lamenta carenza di elementi probatori a suo carico. 2.4 Viene dedotta anche la mancata assunzione di una prova decisiva e, in particolare, una perizia finalizzata ad accertare quanto ritenuto in sentenza ovvero la sussistenza di postumi permanenti quali conseguenza delle lesioni subite dalla minore. 2.5. Con il quinto motivo si deduce la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione nella valutazione delle risultanze in tema di prova. 2.6 Con l'ultimo motivo si censura la mancata concessione delle attenuanti generiche. Considerato in diritto Il ricorso non può essere accolto, essendo alcuni dei motivi dedotti infondati ed altri inammissibili. 1. Nessuna violazione ex art. 34 cod. proc. pen. si è verificata per la mancata astensione del G.U.P., avendo questi già valutato gli stessi fatti pronunziandosi sull'istanza in sede cautelare relativa al coimputato SA.AS. . Va detto che tale motivo non è stato dedotto in appello dalla S.R. , essendo stato proposto invece dal coimputato, tanto che la Corte territoriale ha sviluppato in ordine a tale profilo ampie e condivisibili valutazioni. Comunque, la questione come posta in questa sede è manifestamente infondata. Nell'ipotesi prospettata dalla ricorrente la decisione del G.U.P. in thema de libertate nei confronti del coimputato è intervenuta dopo la chiusura della fase delle indagini preliminari e l'emissione del decreto di fissazione dell'udienza per la trattazione del processo con il rito abbreviato richiesto dopo il decreto di giudizio immediato . Quindi, il provvedimento de libertate del G.U.P. non può affatto considerarsi, come sostiene la ricorrente, espressione delle funzioni di G.I.P. né può ritenersi, come sembra implicitamente sostenere la ricorrente, che i provvedimenti de libertate siano propri della funzione del giudice delle indagini preliminari, essendo di contro in generale riservati alla competenza del giudice che procede art. 279 cod. proc. pen. e dovendosi considerare, pertanto, normalmente propri anche delle funzioni del G.U.P., del giudice del dibattimento e del giudice di appello. Ciò esclude la possibilità di ricondurre la concreta situazione dedotta dalla ricorrente all'ipotesi dell'art. 34, comma 2 bis, cod. proc. pen., che prevede un'incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni di giudice delle indagini preliminari diverse da quelle indicate nei successivi commi 2 ter e 2 quater e le funzioni di giudice della udienza preliminare o di giudice del dibattimento e del procedimento per decreto . Né può ritenersi che ricorra, comunque, un'ipotesi assimilabile a quella del secondo comma o del secondo comma bis del citato articolo 34 a causa delle valutazioni sulla presenza dei gravi indizi di colpevolezza che i provvedimenti de liberiate normalmente presuppongono. Non vi è dubbio che le predette disposizioni sono dettate dall'esigenza di impedire al giudice che si sia direttamente o indirettamente pronunciato sulla posizione dell'imputato in ordine alla sua responsabilità penale di deliberare nuovamente sulla medesima posizione. Ma esse si riferiscono solo ad ipotesi di attività compiute dallo stesso giudice in fasi differenti del medesimo processo o a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 371 del 1996 in altri processi nei confronti dello stesso o di altri soggetti. A queste ipotesi non sono affatto assimilabili quelle in cui l'atto, che si assume pregiudicante, sia stato compiuto nella medesima fase del procedimento dal giudice per essa competente nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali proprie di quella fase. Come ha chiarito, infatti, la Corte Costituzionale, il processo che è per sua natura costituito da una sequenza di atti, ciascuno dei quali può astrattamente implicare apprezzamenti su quanto risulti nel procedimento ed incidere sui suoi esiti, non può essere frammentato, isolando ogni atto che contenga una decisione idonea a manifestare un apprezzamento di merito, ma preordinata, accessoria o incidentale rispetto al giudizio del quale il giudice è già investito, per attribuire ogni singola decisione ad un giudice diverso, sino a rompere la necessaria unità del giudizio e la sua intrasferibilità cfr. sentenze Corte Cost. n. 131 del 1996 e n. 124 del 1992 ordinanza n. 24 del 1996 . Diversamente opinando, si giungerebbe all'irragionevole ed assurda conclusione che lo stesso giudice verrebbe spogliato di tale giudizio in ragione del compimento di un atto processuale cui è tenuto a seguito di istanza di una parte, con conseguente violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, dal quale l'imputato verrebbe o potrebbe chiedere di essere distolto. Il che, con più specifico riferimento alla posizione del giudice della udienza preliminare, implica che il compimento dei singoli atti di esercizio della giurisdizione da parte del GUP, legittimamente investito della cognizione dell'udienza preliminare, non può costituire causa dell'incompatibilità del medesimo giudice a proseguire e a definire l'udienza preliminare medesima. Considerazione, questa, che ha indotto la Corte Costituzionale, con riguardo alla pretesa incompatibilità del giudice del dibattimento che si sia pronunciato, negli atti preliminari al dibattimento, su misure cautelari personali nei confronti dell'imputato, a dichiarare la manifesta inammissibilità della questione di legittimità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. Corte Cost. ordinanza n. 443 del giorno 1.12.1999, in Giust. Pen., 2000, p. 112 si veda anche Corte Cost. ordinanza n. 123/2004, che ha affermato nuovamente che l'ipotesi di incompatibilità del giudice ricorre qualora le precedenti valutazioni, anche di merito, siano state compiute in fasi diverse del procedimento e non nel corso della medesima fase . 2. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto vizio di motivazione e violazione di legge processuale perché la diversa qualificazione giuridica del reato di maltrattamenti in reato di lesioni aggravate avrebbe comportato una modifica dei fatti dell'imputazione, soprattutto con riferimento al ruolo della S. . In ordine a tale profilo la Corte territoriale ha reso articolata ed esauriente motivazione, evidenziando che la diversa qualificazione giuridica dei fatti di lesioni volontarie gravissime, configurata nella sentenza di primo grado, non ha inciso in alcun modo sull'esercizio di difesa, giacché la condotta materiale di cui si è ritenuta la sussistenza era stata già minuziosamente descritta nel capo di imputazione originario, nel quale era stato contestato il più grave reato di maltrattamenti, e la stessa difesa, nel rassegnare le conclusioni, aveva in via subordinata avanzato richiesta di derubricazione del delitto ascritto in quello di lesioni. Si osserva al riguardo come da tempo nella giurisprudenza di legittimità è stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione ed oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione Sez. un., 19/06/1996, n. 16, Di Francesco . L'obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, pertanto, non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato la nozione strutturale di fatto contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata, infatti, con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata oggetto di un potere del pubblico ministero e decisione giurisdizionale oggetto del potere del giudice risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi Sez. 2, 16/09/2008, n. 38889, D. Sez. 5, 13/12/2007, n. 3161, P., rv. 238345 . Questo Collegio non ignora, peraltro, l'affermarsi di un orientamento all'interno della giurisprudenza di legittimità, in base al quale, in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia , secondo cui, ai sensi dell'art. 6, par. 3, lett. a e b della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo sul processo equo , la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio , è conforme al principio statuito dall'art. 111, comma 2, Cost. che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso, con la conseguenza che si impone al giudice nazionale una interpretazione dell'art. 521, comma 1, cod.proc.pen. adeguata al decisum del giudice Europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati Sez. 6, 12/11/2008, n. 45807, D., rv 241754 . Nel solco tracciato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo si sono inseriti alcuni arresti giurisprudenziali in cui si ribadisce che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 521 cod.proc.pen. impone di ritenere che il potere di attribuire alla condotta addebitata all'imputato una nuova e diversa qualificazione giuridica non possa essere esercitato a sorpresa , ma solo a condizione che vi sia stata una preventiva promozione, ad opera del giudice, del contraddittorio fra le parti sulla questio iuris relativa e ciò anche nel caso in cui la nuova e diversa qualificazione risulti più favorevole per il giudicabile, atteso che la difesa ben può diversamente atteggiarsi e modularsi in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltre tutto, le emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa e nuova rilevanza, dovendo la garanzia del contraddittorio in ordine alle questioni inerenti alla diversa qualificazione giuridica del fatto essere concretamente assicurata all'imputato sin dalla fase di merito in cui si verifica la modifica dell'imputazione Sez. 1, 29/04/2011, n. 18590, C Sez. 6, 19/02/2010, n. 20500, F., rv. 247371 . In effetti i principi affermati da tale giurisprudenza non si pongono in contrasto con l'orientamento in precedenza consolidatosi in sede di legittimità, che esclude la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, da intendersi sempre come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni. Fermo restando, dunque, l'incontestabile potere del giudice di attribuire in sentenza al fatto emergente dalle risultanze processuali una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, stante la chiara formulazione dell'art. 521 cod. proc. pen. e non potendo nessuna interpretazione costituzionalmente adeguata di tale disposizione normativa tradursi in una interpretazione abrogatrice della disposizione medesima , il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere assicurato all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice nell'esercizio del potere-dovere che gli è proprio, impone esclusivamente che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga a sorpresa , determinando conseguenze negative per l'imputato, che per la prima volta si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto tale, cioè, da imporre una diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo, rispetto a quanto contestato, in punto di fatto e di diritto, nell'imputazione, di cui rappresenta uno sviluppo inaspettato. Condizione che non si verifica in due occasioni. Da un lato, quando l'imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione. Dall'altro quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio di merito o di legittimità , stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all'esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all'imputato o al suo difensore l'effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l'eventuale esclusione dell'una comporta inevitabilmente l'applicazione dell'altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile Sez. 5, 24.9.2012, n. 7984, Jovanovic, rv. 254648 Sez. 5, n. 1697 del 25/09/2013 - dep. 16/01/2014, Cavallari, Rv. 258941 . Orbene, tali circostanze ricorrono entrambe nel caso in esame. Ed invero, la ricorrente ha avuto la possibilità di interloquire nella fase di merito in ordine alla diversa qualificazione giuridica del fatto originariamente contestato operata in sentenza dal giudice di primo grado, posto che, come si è già detto ed è stato evidenziato dalla Corte territoriale, è stata la stessa difesa a concludere chiedendo la diversa qualificazione giuridica nel reato di lesioni. Allo stesso modo appare evidente come la diversa qualificazione giuridica del delitto di maltrattamenti, originariamente contestato, in quello di lesioni volontarie gravissime deve ritenersi, a fronte di un fatto che rimane identico nei suoi elementi essenziali, un epilogo decisorio assolutamente prevedibile, proprio perché la condotta dell'imputata e del coniuge, come accertata sulla base delle risultanze processuali e peraltro puntualmente contestata nella originaria imputazione, non poteva che essere ricondotta al reato di cui agli artt. 582, 583, comma secondo, e 585, in relazione all'art. 577 n. 1 cod. pen 3. Quanto sopra osservato consente di ritenere infondato anche il terzo motivo dedotto dalla ricorrente, la quale lamenta la violazione del principio della responsabilità personale in sede penale. Sostiene che i giudici di merito, avendo ritenuta la sussistenza della condotta di lesioni ed avendo accertato che l'autore del comportamento lesivo in danno della minore è stato il coimputato SA.AS. , hanno affermato la sua penale responsabilità solo per non aver impedito al marito di percuotere la figlia. Il motivo in effetti è da ritenersi manifestamente infondato, perché per sostenerlo la ricorrente rappresenta una serie di censure di fatto e una diversa ricostruzione delle risultanze processuali, non valutabili in questa sede. Peraltro, la Corte territoriale ha motivato in maniera articolata ed esauriente sulla configurabilità del concorso della ricorrente con il marito nel reato di lesioni in danno della piccola B. , indicando in maniera precisa il ruolo avuto dalla donna nella commissione dei fatti. 4. La ricorrente ha dedotto anche la mancata assunzione di una prova decisiva e, in particolare, una perizia finalizzata ad accertare quanto ritenuto in sentenza ovvero la sussistenza di postumi permanenti quali conseguenza delle lesioni subite dalla minore. Il motivo è inammissibile, giacché la relativa censura non risulta essere stata formulata nell'atto di appello. Peraltro, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la perizia, per il suo carattere neutro , sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, non solo non possa costituire oggetto del diritto delle parti alla prova a mente dell'art. 190 cod.proc.pen., ma non possa neppure farsi rientrare nel concetto di prova decisiva con l'inevitabile conseguenza che il relativo eventuale provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d , cod. proc. pen., in quanto giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione così, tra le tante, Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013 - dep. 14/02/2013, Sciarra, Rv. 255152 Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012 - dep. 09/11/2012, Ritorto e altri, Rv. 253707 Sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007, Pastorelli, Rv. 236191 Sez. 4, n. 4981/04 del 05/12/2003, Rv. 229665 Sez. 2, n. 835/04 del 14/11/2003, Musumeci, Rv. 227859, Sez. 4, n. 34089 del 07/07/2003, Bombino, Rv, 226330 . 5. Con il quinto motivo è stata dedotta la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione nella valutazione delle risultanze in tema di prova. Anche tale motivo va dichiarato inammissibile, giacché a questa Corte non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell'art. 606, lettera e, cod. proc. pen. la modifica normativa di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46, infatti, ha lasciato inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l'indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa, si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione della sentenza impugnata. Tanto premesso, occorre rilevare nel caso in esame che i motivi dedotti dalla ricorrente sono del tutto generici le censure sono formulate senza alcuna considerazione degli elementi evidenziati e degli argomenti spesi nella sentenza impugnata e, peraltro, vengono rappresentati elementi di fatto non valutabili in questa sede. L'assenza di un collegamento concreto delle censure mosse con la motivazione della sentenza impedisce di ritenere rispettati i requisiti di forma e di contenuto minimo voluti per l'impugnazione di legittimità, che deve rivolgersi al provvedimento e non può invocare una mera rilettura dei fatti. Peraltro, l'esame del provvedimento impugnato consente di ritenere che la motivazione della Corte territoriale sia congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza. 6. Con l'ultimo motivo si censura la mancata concessione delle attenuanti generiche. Il motivo è infondato. Su specifico rilievo formulato con l'atto di appello, la Corte territoriale, oltre a condividere le ragioni già indicate dal giudice di primo grado, ha negato la concessione delle attenuanti generiche prendendo in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, sebbene fosse sufficiente fare riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014 - dep. 03/07/2014, Lule, Rv. 259899 Sez. 4, n. 23679 del 23/04/2013 - dep. 31/05/2013, Viale e altro, Rv. 256201 Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013 - dep. 29/05/2013, Banic e altri, Rv. 256172 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.