Made in Italy? Il prodotto è interamente realizzato sul territorio italiano

L’art. 16 del d.l. n. 135/2009, convertito nella l. n. 166/2009, ha imposto criteri stringenti al fine di rendere ancora più rigorosa la tutela dei consumatori stabilendo che, diciture quali made in Italy”, 100% Italia” e simili possono essere apposte su un prodotto esclusivamente qualora lo stesso sia stato interamente realizzato sul territorio italiano.

Così si è espressa la Corte di cassazione nella sentenza n. 3789, depositata il 27 gennaio 2015. Il fatto. Il Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, aveva assolto per insussistenza del fatto i due imputati in ordine al reato di cui agli artt. 4, comma 49 della l. n. 350/2003 e 517 c.p. vendita di prodotti industriali con segni mendaci , perché in qualità di legali rappresentanti di una ditta aveva importato dalla Romania, ai fini di commercializzazione, 106 paia di scarpe, che, pur non essendo originarie dall’Italia recavano la stampigliatura Made in Italy. Il Tribunale sosteneva che la mera delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione non valeva ad alterare l’origine nazionale del prodotto. La Corte di Cassazione annullava tale sentenza e rinviava la causa alla Corte d’appello di Trieste, la quale riconosceva la responsabilità penale degli imputati e li condannava alla pena di euro 4.000,00 di multa ciascuno. Contro tale decisione entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione. La delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione. Il Collegio ha ritenuto tale motivo infondato. Infatti, ritiene che con logico e corretto ragionamento la sentenza impugnata abbia considerato la fase della lavorazione compiuta all’estero ossia la cucitura della suola alla tomaia un segmento del ciclo produttivo di non trascurabile rilievo. Tale cucitura costituisce quella fase della lavorazione specificamente destinata ad assicurare la robustezza della scarpa e a preservarne la durata, incidendo così su qualità ritenute essenziali in relazione al tipo di prodotto in esame. L’acquirente è indotto in errore. Grazie all’apposizione della scritta made in Italy , l’acquirente è indotto a ritenere che la scarpa sia interamente concepita e fabbricata in Italia, pertanto, l’applicazione di tale scritta sulle scarpe deve considerarsi effettivamente tale da indurre in errore l’acquirente circa l’origine, la provenienza e la qualità del prodotto. Tutela dei consumatori sempre più rigorosa. La Corte territoriale ha correttamente sottolineato, altresì, come il legislatore di recente abbia reso ancora più rigorosa la tutela apprestata ai consumatori, imponendo, con l’art. 16 del d.l. n. 135/2009 convertito nella l. n. 166/2009, il vigore di criteri ancora più stringenti di quelli previsti dal Codice Doganale Comunitario, stabilendo che diciture quali made in Italy , 100% Italia e simili possono essere apposte su un prodotto esclusivamente qualora lo stesso sia stato interamente realizzato sul territorio italiano . Alla luce di tali argomentazioni, la S.C. ha rigettato il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 ottobre 2014 – 27 gennaio 2015, n. 3789 Presidente Zecca – Relatore Dell’Utri Ritenuto in fatto 1. Con sentenza resa in data 24/2/2010, il Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, ha assolto per insussistenza del fatto M.A. e B.C. dall'imputazione di cui agli artt. 4, comma 49, L. n. 350/2003 e 517 cod. pen., perché, in qualità di legali rappresentanti della ditta M.A. di M.A. & amp C. s.n.c. avevano importato dalla Romania, a fini di commercializzazione, 106 paia di scarpe, che, pur non essendo originarie dall'Italia, ai sensi della normativa Europea sull'origine art. 24 del regolamento CE 2913/1992 , recavano la stampigliatura Made in Italy fatto accertato il omissis . È stato accertato, in punto di fatto, che le paia di scarpe di cui all'imputazione, provenienti dalla Romania, erano prodotte dal tomaificio M.A. di M.A. & amp C. s.n.c. in base a regolare licenza del marchio Versace. Una fase della lavorazione - e precisamente l'assemblaggio delle varie parti della scarpa, che venivano progettate e prodotte in Italia - era stata affidata alla ditta Linea Blu S.r.l. di Cluj-Napoca, avente sede in . Dopo tale operazione, le calzature venivano reimportate in Italia per le finiture, il confezionamento e la commercializzazione. Secondo il tribunale udinese, il mero processo di delocalizzazione, ovvero il trasferimento all'estero, di alcune fasi della lavorazione, non era valso di per sé ad alterare l'origine nazionale del prodotto, si da configurare la fattispecie penale di cui all'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, atteso che il bene era stato progettato e realizzato in via prevalente in Italia ed ivi aveva avuto la sua origine imprenditoriale un orientamento interpretativo che aveva ricevuto una sostanziale conferma dalle modificazioni apportate alla materia dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, convcrtito in L. 20 novembre 2009, n. 166, che prevede come fattispecie di reato la condotta consistente nell'uso fallace di un'indicazione che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quali 100% made in Italy , 100% Italia , tutto italiano o altre idonee a ingenerare nel consumatore l'erronea convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto. Con sentenza n. 14958 del 10 marzo 2011, la terza sezione di questa Corte di cassazione ha annullato la sentenza del tribunale di Udine, evidenziando come nel caso in cui il prodotto non porti impresso soltanto il marchio del produttore italiano, ma anche la stampigliatura Made in Italy , trova applicazione l'art. 4, comma 49, l. n. 352/2003, in relazione all'art. 517 cod. pen., che punisce l'applicazione della stampigliatura Made in Italy su prodotti e merci non originari dell'Italia, ai sensi della normativa Europea sull'origine normativa contenuta nel regolamento CEE n. 2913 del 12/10/1992, istitutivo del Codice Doganale Comunitario, a mente del quale il paese di origine di un prodotto è quello nel quale è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale economicamente giustificata ed effettuata da un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione. Con sentenza in data 18/6/2013, la corte d'appello di Trieste, in funzione di giudice del rinvio, riconosciuta la responsabilità penale degli imputati in relazione al reato agli stessi ascritto, li ha condannati alla pena di Euro 4.000,00 di multa ciascuno. 2. Avverso la sentenza del giudice del rinvio, a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, censurando il provvedimento impugnato per vizio di motivazione, avendo la corte triestina erroneamente e illogicamente escluso l'integrale creazione e produzione in Italia delle scarpe oggetto d'esame, atteso che la fase produttiva delocalizzata all'estero si era esaurita in una banalissima e insignificante percentuale del processo di realizzazione dei prodotti consistita nella sola cucitura delle tomaie tale da non inficiare in alcun modo la relativa qualità e da escludere il ricorso di alcuna induzione in inganno del pubblico dei consumatori, con la conseguente mancata integrazione dei presupposti per la consumazione del reato di cui all'art. 517 cod. pen Considerato in diritto 3. Il ricorso è infondato. Con la sentenza impugnata in questa sede, la corte d'appello di Trieste, sulla base di una motivazione dotata di piena coerenza logica e consequenzialità argomentativa, vieppiù immune da vizi di natura giuridica e del tutto rispettosa dei principi di diritto stabiliti nella sentenza rescindente pronunciata da questa Corte, ha sottolineato come, con riguardo alle scarpe oggetto dell'odierno esame, mentre la lavorazione della tomaia era avvenuta in Italia, il definitivo assemblaggio delle stesse fosse viceversa avvenuto in , sul cui territorio si era provveduto alla cucitura della tomaia alla suola. Secondo il conseguente e logicamente corretto ragionamento articolato nella sentenza impugnata, la fase della lavorazione compiuta all'estero ossia la cucitura della suola alla tomaia non può essere considerata in nessun caso un segmento del ciclo produttivo di trascurabile rilievo, poiché detta cucitura costituisce quella fase della lavorazione specificamente destinata ad assicurare la robustezza della scarpa e a preservarne la durata, in tal modo incidendo in modo decisivo su qualità generalmente ritenute di carattere essenziale in relazione al tipo di prodotto in esame. L'applicazione su tali prodotti dell'etichetta made in Italy deve pertanto ritenersi effettivamente tale da indurre in errore l'acquirente circa l'origine, la provenienza e la qualità del prodotto infatti, grazie all'apposizione di quella scritta, l'acquirente della calzatura è inevitabilmente indotto a ritenere che la scarpa sia interamente concepita e fabbricata in Italia, e tanto a fortiori in considerazione della circostanza che l'impresa degli imputati realizzava quel manufatto su commissione del noto marchio Versace”, che gli stessi imputati da ultimo apponevano sul prodotto finito. Del tutto priva di rilievo deve ritenersi l'argomentazione ancora in questa sede illustrata dai ricorrenti con riguardo alla pretesa irrilevanza della delocalizzazione del ridetto segmento del processo produttivo, ritenuto asseritamente modesto, rispetto alla riconducibilità sostanziale” del prodotto all'iniziativa e alla responsabilità di un imprenditore italiano , avendo la corte territoriale correttamente sottolineato - in coerenza con la specifica indicazione sul punto fornita da questa corte di legittimità nella sentenza di annullamento della pronuncia di assoluzione degli imputati - come il legislatore abbia di recente reso ancor più rigorosa la tutela apprestata al pubblico dei consumatori, imponendo, con l'art. 16 del d.l. n. 135/2009, convertito nella legge n. 166/2009, il vigore di criteri ancora più stringenti di quelli previsti dal Codice Doganale Comunitario, stabilendo che diciture quali made in Italy , 100% Italia e simili possono essere apposte su un prodotto, esclusivamente qualora lo stesso sia stato interamente realizzato sul territorio italiano. 4. - Sulla base delle argomentazioni che precedono, dev'essere attestata l'integrale infondatezza delle doglianze in questa sede avanzate dagli odierni imputati, con il conseguente rigetto del relativo ricorso e la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.