La compensazione dell’Iva a credito, per l’anno tributario in corso, con debiti tributari diversi è reato

La nozione di credito tributario maturato ma non esigibile, attraverso la cui compensazione è possibile integrare il reato di omesso versamento di imposta, deve riferirsi a quei crediti certi nella loro esistenza ed ammontare, ma non ancora utilizzabili in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti tra contribuente e fisco.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 3367/15, depositata il 26 gennaio. Il caso. In qualità di legale rappresentante di una Srl, il ricorrente veniva condannato dalla Corte d’appello di Genova per aver omesso di versare all’erario imposte e contributi previdenziali, attraverso la compensazione dell’Iva maturata a suo credito nel medesimo anno d’imposta e dunque esigibile solo l’anno successivo. Il giudice di merito riteneva inconferente il fatto che la condotta dell’imputato fosse giustificata dall’affidamento al consiglio del proprio consulente fiscale, ritenendo che egli dovesse comunque rispondere di eventuali suggerimenti errati del collaboratore. La sentenza d’appello viene impugnata in Cassazione, deducendo l’impossibilità di assimilare l’inesigibilità del credito alla sua non spettanza e dunque l’irrilevanza penale della condotta, nonché l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, avendo l’imputato seguito le indicazioni del proprio consulente fiscale. La fattispecie incriminatrice richiede il dolo generico. In relazione all’individuazione dell’elemento soggettivo del reato, la cui sussistenza viene contestata dal ricorrente, la Cassazione afferma l’infondatezza delle pretese in quanto la norma penale rilevante richiede, ai fini della sussistenza del reato, il dolo generico, integrato dalla mera consapevolezza di utilizzare, ai fini della compensazione, crediti tributari inesigibili o inesistenti. Nel caso concreto dunque, il rilievo circa l’affidamento del ricorrente alle indicazioni fornitegli dal consulente fiscale è irrilevante ai fini della negazione di una sua responsabilità penale. La natura squisitamente personale degli obblighi fiscali comporta la necessità di vincolare il contribuente ad uno specifico obbligo di diligenza, il quale ha pregnanza ancora maggiore ove il soggetto agisca in qualità di rappresentante legale di un’attività commerciale, come nel caso di specie. La nozione di credito tributario non spettante o inesistente. Il ricorrente lamenta inoltre l’irrilevanza penale della propria condotta che sarebbe stata invece ritenuta sussistente dai giudici di merito, assimilando il concetto di credito inesistente o non spettante a quello di credito maturato ma non ancora esigibile. La difesa così prospettata si basa su presupposti erronei. La Cassazione afferma che, nonostante la differenza di percezione del concetto di credito inesistente e di credito non spettante,quest’ultimo non può essere ricondotto al credito di non spettanza esclusivamente oggettiva. Deve invece ritenersi che la nozione di credito non spettante o inesistente, rilevante per la configurazione del reato contestato, debba correttamente riferirsi a quel credito tributario certo nella sua esistenza ed ammontare, ma non ancora utilizzabile nelle operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti tra contribuente e fisco. La situazione che si presenta nel caso concreto è dunque pienamente riconducibile al principio affermato dalla Cassazione che, per questi motivi, rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 26 giugno 2014 – 26 gennaio 2015, n. 3367 Presidente Fiale – Relatore Gentili Ritenuto in fatto Riformando integralmente la precedente sentenza emessa dal Tribunale di Genova, la competente Corte di appello ha condannato, con sentenza del 3 luglio 2013, N.G. , in qualità di legale rappresentante della GECAN Sri, in relazione alla imputazione concernente l'art. 10-quater del dlgs n. 74 del 2000 per avere egli omesso di versare all'erario, relativamente all'anno di imposta 2006, imposte e contributi previdenziali per un importo di oltre 109.000,00 Euro attraverso la compensazione operata con l'Iva a suo credito che sarebbe stata però esigibile solo l'anno successivo. Mentre il giudice di prime cure aveva ritenuto non colpevole il prevenuto sulla base della duplice considerazione che, avendo egli portato a compensazione un credito esistente, seppure non ancora compensabile, non vi era stata alcuna lesione per l'erario e che, comunque, l'illecito era stato realizzato dal consulente fiscale e non dal N. , il giudice di appello, oltre a ritenere che il contribuente risponde delle eventuali scelte sbagliate del proprio consulente, ha affermato che il credito non ancora esigibile rientrava nel genere dei crediti non spettanti, per cui il reato contestato era integrato anche attraverso le modalità contestate al N. , che, pertanto, condannava alla pena di giustizia, concessa comunque la sospensione condizionale della medesima. Proponeva ricorso per cassazione il N. deducendo la erronea applicazione della norma incriminatrice, sostenendo in sostanza la non equiparabilità della inesigibilità del credito con la sua non spettanza e quindi, anche sulla scorta della sentenza n. 37350 del 2013 di questa Corte, la irrilevanza penale della sua condotta. Come secondo motivo di ricorso, sempre sotto il profilo della violazione di legge, egli ha ribadito la assenza dell'elemento soggettivo del reato avendo egli seguito le indicazioni che gli erano state impartite dal suo consulente fiscale. Considerato in diritto Il ricorso, risultato infondato, non è, pertanto, meritevole di accoglimento. Per meglio comprendere le ragioni del rigetto è opportuno riepilogare, brevemente, i termini della attuale vicenda. Il N. , in qualità di legale rappresentante della GECAN Srl, nel presentare, relativamente all'anno di imposta 2007, la dichiarazione IVA, portava in detrazione anche il credito per IVA maturato nel medesimo anno di imposta e che, pertanto, sarebbe stata detraibile, ai sensi dell'art. 30, comma 2, dPR n. 633 del 1972, solamente nell'anno successivo a quello di maturazione in tale senso si veda Corte di cassazione, Sezione V civile, 23 luglio 2007, n. 16257 , realizzando in tale modo un risparmio di imposta, il cui versamento era difatti omesso, pari ad Euro 109.422,00, A fronte di tale condotta, sulla cui materialità non vi è alcuna contestazione, il N. era dapprima tratto a giudizio e dopo che il Tribunale di Genova lo aveva mandato assolto in primo grado con la formula perché il fatto non costituisce reato - successivamente condannato dalla Corte di appello ligure alla pena di giustizia, essendo egli stato riconosciuto responsabile del reato di cui all'art. 10-quater del dlgs n. 74 del 2000, per avere utilizzato in compensazione, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge n. 241 del 1997, crediti IVA definiti non spettanti o inesistenti. Cosi ricostruita la vicenda sottostante, rileva in via preliminare il Collegio la assoluta estraneità rispetto alla presente fattispecie dei principi di cui è espressione l'art. 6 CEDI , così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, in tema di reformatio in pejus da parte del giudice di appello rispetto alla sentenza assolutoria del giudice di prime cure. Nel caso in esame, infatti, il giudice del gravame è pervenuto ad una decisione del caso diversa da quella assunta dal giudice di primo grado non in base ad un giudizio critico sulla attendibilità delle prove testimoniali assunte in sede dibattimentale, ma sulla base di una diversa valutazione in ordine alla rilevanza giuridica dei fatti come pacificamente acquisiti in atti. Tanto considerato osserva la Corte che non risultano fondate le censure formulate dal ricorrente avverso la sentenza della Corte territoriale ligure. Quanto alla seconda di esse - esaminata per prima per speditezza argomentativa - riferita alla carenza dell'elemento soggettivo in capo al prevenuto, rileva, brevemente, la Corte che il reato de quo è caratterizzato dal dolo generico consistente nella mera consapevolezza di utilizzare in compensazione crediti tributari non spettanti o inesistenti. Né può ritenersi che detta consapevolezza possa dirsi esclusa dalla fiducia che il contribuente abbia fatto sulla correttezza dell'operato del proprio commercialista. Invero, stante la natura eminentemente personale dell'adempimento degli obblighi fiscali, il contribuente, il quale è tenuto, tanto più laddove svolga in maniera professionale un'attività commerciale, ad uno specifico obbligo di diligenza nella compilazione degli atti tributari, non può, in assenza di una specifica delega conferita all'interno della stessa impresa commerciale a personale idoneo, essere liberato dalla eventuale responsabilità, anche penale, derivante dallo scorretto adempimento degli obblighi tributari, allegando l'avvenuto affidamento dell'incarico di cura degli affari in questione ad uno studio professionale privato. Quanto al primo motivo di ricorso, avente ad oggetto la estraneità della fattispecie in questione alla violazione dell'art. 10-quater del dlgs n. 74 del 2000, stante la inconferenza rispetto alla norma citata del credito di imposta esistente ma solamente non esigibile nell'anno di imposta cui si riferisce la dichiarazione in cui esso è stato portato in compensazione, rileva il Collegio che la impostazione da cui parte il ricorrente è erronea. Come detto la norma incriminatrice punisce la condotta di chi utilizzi in compensazione nelle dichiarazioni di imposta, crediti non spettanti ovvero inesistenti, per un ammontare superiore, per ogni periodo di imposta, ad Euro 50.000,00. Ritiene la Corte che, mentre il concetto di credito inesistente sia di facile ed intuibile identificazione essendo chiaramente tale il credito del quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi , la nozione di credito non spettante, non può essere ricondotta, come invece ritenuto dal ricorrente, al concetto di mera non spettanza soggettiva essendo evidente che il portare, eventualmente, in detrazione un credito tributario, pur astrattamente esistente ma riferito ad altro soggetto, integra gli estremi della compensazione con un credito inesistente o, meglio, inesistente relativamente alla posizione del soggetto che operi la compensazione ovvero alla pendenza di una condizione al cui avveramento sia subordinata l'esistenza del credito infatti, anche in questo caso, laddove si tratti di condizione sospensiva, fintanto che essa sia pendente, il credito, trattandosi di fattispecie e formazione progressiva, ancora non è sorto - esso è, pertanto, inesistente -, mentre, se si trattasse di condizione risolutiva, una volta verificatasi quest'ultima, il credito stesso sarebbe definitivamente venuto meno . Deve ritenersi che sia credito tributario non spettante, ai fini di cui all'art. 10-quater del dlgs n. 74 del 2000, quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile ovvero non più utilizzabile in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l'Erario. Tale ricostruzione, che si giustifica per evidenti ragioni di contabilità pubblica, non è smentita dal precedente giurisprudenziale riportato dal ricorrente infatti, con la richiamata sentenza di questa Corte, fu dichiarata la irrilevanza pena della condotta di chi, dopo avere portato in compensazione crediti ancora non esigibili, aveva provveduto, entro i termini previsti dalla legge, a sanare la irregolarità realizzata, versando l'imposta che, in prima battuta, era stata indebitamente compensata Corte di cassazione, Sezione III penale, 12 settembre 2013, n. 37350 . È chiaro che con la riferita decisione non si è inteso affermare la legittimità della operazione di compensazione, ma rilevare che, per effetto del ravvedimento attuoso, il contribuente aveva, entro i termini di legge, provveduto al versamento delle imposte da lui dovute, in tal modo elidendo, ancor prima dell'effettivo verificarsi dell'omissione tributaria che costituisce l'evento del reato in esame, la rilevanza penale della precedente condotta. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.