Quale il discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente?

Ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l’agente, pur non mirando direttamente alla causazione di un determinato evento, si è rappresentato la concreta possibilità che esso accada comunque come conseguenza del proprio comportamento, ed ha agito accettando il rischio di verificazione dell’evento, e quindi con volizione sia pure indiretta o eventuale di esso si versa, invece, nella colpa con previsione quando l’agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l’evento ma agisce con il sicuro convincimento di poterlo evitare.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 52530, depositata il 18 dicembre 2014. Il caso. La Corte di Assise di La Spezia condannava A.M. alla pena di anni 30 di reclusione per i reati di incendio, omicidio e lesioni gravi. L’imputato, a seguito di un litigio con la fidanzata, avrebbe dato alle fiamme la camera da letto dell’appartamento in cui viveva con la stessa e avrebbe, inoltre, aperto le manopole dell’impianto a gas della cucina, per poi allontanarsi dall’edificio, contattare il 113 e confessare il tutto. L’incendio si propagò anche all’appartamento del piano sovrastante, all’interno del quale abitavano C.M., G.A. e G.R. il primo, per salvarsi dalle fiamme, si lanciò dal balcone e, a causa della caduta, riportò gravi lesioni e deficit motori permanenti le altre due, invece, morirono a causa della inalazione dei fumi e dei gas tossici prodotti dalla combustione. La Corte di Assise di Appello di Genova riformava parzialmente la statuizione di prime cure con riferimento al trattamento sanzionatorio, rideterminando la pena in anni 28 di reclusione. Avverso tale sentenza l’imputato ricorreva per cassazione deducendo in primis , violazione di legge e mancanza di motivazione circa la ritenuta sussistenza della capacità di intendere e di volere dell’imputato, sussistendo un vizio totale o parziale di mente in secundis , inosservanza di norme processuali previste a pena di inutilizzabilità relativamente alla ritenute utilizzabilità delle spontanee dichiarazioni rese dall’imputato agli agenti di polizia infine, erronea applicazione della legge penale, mancanza ed illogicità della motivazione con riferimento alla qualificazione del reato commesso dall’imputato quale omicidio volontario con dolo eventuale invece che quale morte o lesione come conseguenza non voluta di altro reato. I disturbi della personalità inficiano l’imputabilità? Le perizie psichiatriche hanno acclarato la sussistenza, in capo all’A.M., di un disturbo antisociale di personalità che, però, non aveva interferito nelle prestazioni cognitive rimaste integre, e non aveva impedito la libertà di autodeterminazione. I consulenti tecnici d’ufficio avevano concluso che l’imputato appariva in grado di percepire il disvalore del suo comportamento e di scegliere tra condotte alternative e che, pertanto, il disturbo di personalità de quo non era idoneo ad escludere o a scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere. Donde i Supremi Giudici hanno rigettato il primo motivo di ricorso, chiarendo come la Corte di merito abbia correttamente applicato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui i disturbi della personalità possono rilevare ai fini del riconoscimento del vizio parziale o totale di mente purché siano di gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, senza che nessun rilievo possa essere dato alle anomalie della personalità che non presentino i caratteri appena indicati, nonché agli stati emotivi o passionali. Criteri per la valutazione di utilizzabilità delle dichiarazioni dell’indagato. La Corte Regolatrice ha rigettato anche il secondo motivo di ricorso, affermando come i Giudici di Appello hanno correttamente ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese dall’imputato agli agenti di polizia intervenuti dopo la sua chiamata al 113, in quanto l’art. 62 c.p.p. circoscrive l’operatività del divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese dall’imputato a quelle rese nel corso del procedimento, cioè alle dichiarazioni assunte da soggetto qualificato nel compimento di uno specifico atto del procedimento. Il divieto, invece, non opera laddove si tratti di dichiarazioni rese alla p.g. al di fuori di un contesto procedimentale e prima dell’inizio delle indagini dichiarazioni che, assumendo la valenza di un fatto storico percepito e riferito dal teste, possono essere liberamente valutate dal giudice. Dolo eventuale e colpa cosciente. La Corte di Cassazione, nel rigettare anche l’ultimo motivo di ricorso, ha precisato che ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l’agente, pur non mirando direttamente alla causazione di un determinato evento, si è rappresentato la concreta possibilità che esso accada comunque come conseguenza del proprio comportamento, ed ha agito accettando il rischio di verificazione dell’evento, e quindi con volizione sia pure indiretta o eventuale di esso si versa, invece, nella colpa con previsione quando l’agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l’evento ma agisce con il sicuro convincimento di poterlo evitare.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 28 ottobre – 18 dicembre 2014, n. 52530 Presidente Siotto – Relatore Locatelli Ritenuto in fatto Con sentenza del 14.6.2012 la Corte di assise di La Spezia dichiarava A.M. colpevole dei reati previsti da 1 artt. 423 e 425 comma 1 n. 2 cod.pen. perché, mediante liquido infiammabile tipo benzina, dava alle fiamme la camera da letto dell'appartamento occupato dall'imputato unitamente alla convivente, posto al secondo piano di uno stabile ad uso abitativo, quindi apriva le manopole dell'impianto a gas della cucina allontanandosi dall'edificio le fiamme, dopo essersi propagate a tutto il secondo piano, si estendevano al monolocale sito al terzo piano abitato da C.M. , da G.A. e dalla nipote Ge.Re. di anni cinque, le quali cercavano di sottrarsi alle fiamme rifugiandosi nel locale doccia del bagno dove ugualmente decedevano a causa della inalazione dei fumi e dei gas tossici prodotti dalla combustione, mentre C. si lanciava dal balcone riportando le lesioni gravi descritte al capo successivo. Con l'aggravante di aver dato fuoco ad un edificio abitato 2 reato previsto dagli artt. 81 e 575 cod.pen. perché, mediante la condotta precedentemente descritta, incendiando in piena notte una unità abitativa di modeste dimensioni connotata dalla presenza di molteplici strutture in legno, dolosamente cagionava la morte di G.A. e della minore Ge.Re. 3 reato previsto dagli artt. 582, 583 n. 1 e 2 cod.pen. perché cagionava a C.M. , costretto a lanciarsi dal balcone del terzo piano per sfuggire alle fiamme, lesioni gravi prodotte dalla precipitazione al suolo, con malattia durata almeno 162 giorni, con indebolimento permanente della deambulazione e deficit motori permanenti. Fatti commessi in omissis , con la recidiva specifica reiterata e infraquinquennale. Per l'effetto, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione e concesse attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, lo condannava alla pena di anni 30 di reclusione. Con sentenza del 13.12.2013 la Corte di assise di appello di Genova, in parziale riforma della sentenza della Corte di assise di La Spezia, confermava la pena base di anni 21 di reclusione applicata dal giudice di primo grado, riduceva ad anni 7 di reclusione l'aumento della continuazione per i restanti reati, rideterminando in anni 28 di reclusione la pena complessivamente inflitta. Il fatto era il seguente alle ore 03.00 circa della notte del omissis si verificava l'incendio di una palazzina sita in . I Vigili del fuoco ed i Carabinieri intervenuti accertavano che l'incendio aveva avuto origine nell'appartamento ubicato al secondo piano abitato da A.M. e R.L. ed aveva provocato la morte di G.A. e Ge.Re. che abitavano al piano superiore, e gravissime lesioni a C.M. , costretto a gettarsi dalla finestra del terzo piano per sfuggire alle fiamme. La cucina dell'appartamento abitato dalla coppia A. e R. presentava tutti i rubinetti del gas aperti. Alle ore 4.50 A.M. telefonava al 113 qualificandosi con le proprie generalità ed affermando di avere fatto un po' di casino a , di aver dato fuoco ad un letto dopo avere bisticciato con la ragazza . Raggiunto da una pattuglia della polizia, consegnava un accendino riferendo agli agenti di averlo usato per dare fuoco al materasso e di aver aperto i rubinetti del gas. Secondo gli accertamenti compiuti dai Vigili del Fuoco, dai Ris dei Carabinieri e mediante perizia disposta nel corso del giudizio di primo grado, sul letto costituente il focolaio dell'incendio erano presenti tracce di alcool ovvero di benzina. Interrogato dal pubblico ministero A. si avvaleva della facoltà di non rispondere. Avverso la sentenza di appello il difensori dell'imputato ricorrono per i seguenti motivi 1 violazione di legge e mancanza di motivazione circa la ritenuta sussistenza della capacità di intendere e di volere dell'imputato, sussistendo un vizio totale o parziale di mente la Corte di appello ha esaminato soltanto il profilo della capacità dell'imputato di intendere il valore delle proprie azioni ma ha omesso l'esame della capacità di controllare i propri impulsi, non potendosi escludere che il gesto incriminato costituisse l'espressione morbosa del disturbo di personalità dell'imputato, manifestazione di vera e propria infermità 2 inosservanza di norme processuali previste a pena di inutilizzabilità nella parte in cui la Corte di assise di appello ha ritenuto utilizzabili le spontanee dichiarazioni rese dall'imputato agli agenti di polizia, in cui riferiva di avere aperto i rubinetti del gas, nonché le dichiarazioni rese dall'imputato al perito prof. Gu. attesa l'espressa perimetrazione contenuta nell'articolo 228 comma 3 cod.proc.pen. 3 erronea applicazione della legge penale, mancanza ed illogicità della motivazione che ha qualificato il reato commesso dall'imputato quale omicidio volontario con dolo eventuale anziché ai sensi dell'articolo 586 cod.pen. quale morte o lesione come conseguenza non voluta di altro reato, disattendendo la perizia psichiatrica nella parte in cui i periti Ar. e V. affermano che A. non contemplava l'ipotesi di cagionare danni alle persone 4 violazione di legge e carenza di motivazione nella parte in cui la Corte di assise di appello ha ritenuto applicabile la disposizione prevista dall'articolo 81 ult. comma cod.pen. anche nell'ipotesi in cui la recidiva reiterata sia stata neutralizzata dalla concessione di attenuanti generiche equivalenti, ed ha ritenuto operante l'articolo 99 comma 5 cod.pen. comportante l'applicazione obbligatoria della recidiva. Con memoria depositata il 10.10.2014 ribadisce i motivi di ricorso con cui si censura la ritenuta sussistenza del dolo eventuale richiamando i principi affermati dalla pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni Unite del 24.4.2014 depositata il 18.9.2014. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1. I giudici di merito hanno compiuto una disamina particolarmente completa ed approfondita della imputabilità del ricorrente, sia sotto il profilo della capacità di corretta percezione della realtà che sotto il profilo della capacità di autodeterminarsi ai sensi dell'articolo 85 comma 2 cod.pen Rilevato che, sulla base di una perizia psichiatrica effettuata dal Dott. B. in un precedente processo per il reato di resistenza a pubblico ufficiale commesso il , A. era stato riconosciuto non imputabile per vizio totale di mente, veniva disposta una prima perizia psichiatrica nella forma dell'incidente probatorio ed il perito d'ufficio prof. Gu. concludeva che l'imputato era, all'epoca dei fatti oggetto del presente giudizio, capace di intendere e di volere in particolare il perito affermava che A. era affetto da disturbo antisociale di personalità ma non da disturbo borderline di personalità come ritenuto dal dottor B. , escludeva che l'imputato fosse affetto da disturbo esplosivo intermittente, escludeva lo stato di intossicazione cronica da uso di alcool e stupefacenti, la cui assunzione all'epoca dei fatti era in fase di parziale remissione, e concludeva che il disturbo antisociale di personalità non aveva interferito nelle prestazioni cognitive rimaste integre e non aveva impedito la libertà di autodeterminazione, sia nel senso di volere che in quello di convenientemente inibirsi. Nel corso del dibattimento di primo grado veniva disposta una nuova perizia collegiale affidati ai professori Ar. e V. , i quali affermavano che il Dott. B. aveva commesso un evidente errore diagnostico proponendo tre diverse diagnosi che si escludevano a vicenda concludevano che l'imputato era affetto da un disturbo sociale di personalità ma che appariva in grado di percepire il disvalore del suo comportamento e di scegliere tra condotte alternative. Le conformi conclusioni dei periti di ufficio erano condivise dai giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio. La Corte di assise di appello rigettava la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per effettuare una ulteriore perizia psichiatrica, ritenendo la completezza degli accertamenti effettuati in contraddittorio con il consulente tecnico della difesa, i quali avevano accertato la sussistenza della capacità di intendere e di volere dell'imputato pur in presenza di un disturbo di personalità non idoneo in concreto a escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere. Inoltre la Corte di assise di appello riteneva che il tenore delle telefonate effettuate dall'imputato al 113, le dichiarazioni rese agli agenti di polizia, nonché le dichiarazioni rese al perito prof. G. , utilizzabili ai fini della valutazione della imputabilità, denotassero la lucidità e la capacità di intendere e di volere dell'imputato, che dapprima aveva progettato la fuga in Sardegna e poi aveva deciso di costituirsi a seguito della telefonata della fidanzata che lo aveva apertamente accusato di essere l'autore dell'incendio. La motivazione non è affatto mancante ed è giuridicamente corretta, facendo applicazione del principio secondo cui anche i disturbi della personalità possono rilevare ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, purché siano di gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve invece essere dato alle anomalie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi o passionali. Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317 . 2. La Corte di assise di appello ha correttamente ritenuto l'utilizzabilità delle dichiarazioni dell'imputato riferite de relato dagli agenti di polizia, intervenuti a seguito della chiamata al numero di soccorso pubblico 113 effettuata dallo stesso imputato. L'articolo 62 cod.proc.pen. circoscrive l'operatività del divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese dall'imputato a quelle comunque rese nel corso del procedimento , vale a dire alle dichiarazioni assunte da soggetto qualificato, quale l'appartenente alla polizia giudiziaria, nel compimento di uno specifico atto del procedimento o comunque per ragioni connesse al procedimento. Il divieto invece non opera laddove, come nel caso in esame, si tratti di dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria al di fuori di un contesto procedimentale e prima dell'inizio delle indagini, dichiarazioni che, assumendo la valenza di un fatto storico percepito e riferito dal teste, possono essere liberamente valutate dal giudice. Sez. 2, n. 17437 del 13/03/2009, Leone, Rv. 244347 Sez. 6, n. 1764 del 09/10/2012 - dep. 15/01/2013, Naso e altro, Rv. 254180 . Peraltro il fatto che l'imputato, dopo aver appiccato l'incendio, avesse aperto tutti i fornelli a gas della cucina, costituisce dato probatorio che il giudice di merito ha desunto anche aliunde , attraverso una valutazione logica dell'atto di accertamento dei Vigili del Fuoco, che riferivano di avere rinvenuto aperti al massimo tutti i rubinetti del gas della cucina, unitamente alla dichiarazione della convivente R. che escludeva di avere lasciato aperto il gas della cucina prima di uscire di casa pag. 15 sentenza impugnata . La Corte di assise di appello si è espressamente attenuta alla regola sancita dall'articolo 228 comma 3 cod.proc.pen. utilizzando le dichiarazioni rese dall'imputato ai periti ai soli fini dell'accertamento della capacità di intendere e di volere, oggetto delle perizie disposte. 3. I giudici di merito non hanno pretermesso le valutazioni dei periti Ar. e V. circa il valore meramente simbolico della distruzione del letto coniugale da parte del reo, che a loro avviso non mirava con tale gesto a provocare conseguenze peggiori , ma hanno correttamente osservato che i periti avevano esorbitato dall'ambito del quesito posto relativo alla capacità di intendere e di volere dell'imputato, essendo riservato alla competenza esclusiva del giudice l'accertamento dell'elemento soggettivo del reato la spiegazioni psicoanalitiche circa la valenza simbolica o inconscia del gesto di incendiare il letto matrimoniale non esime il giudice dalla valutazione dell'accettazione volontaristica da parte dell'imputato del rischio di causazione degli eventi letali che si sono verificati pag. 67 sentenza di primo grado . La Corte di assise di appello, al pari della Corte di assise, ha rigettato la richiesta di riqualificare il fatto quale delitto previsto dall'articolo 586 cod.pen., confermando la sussistenza della fattispecie di omicidio volontario commesso con dolo eventuale, considerato che l'imputato si prefiggeva un fine letale e mirava ad ottenere il massimo effetto distruttivo come desumibile dalla testimonianza dei Vigili del Fuoco secondo cui solo la rottura dei vetri delle finestre dell'appartamento provocata dal calore sprigionato dall'incendio aveva di fatto impedito che, a causa della saturazione dell'ambiente da parte del gas fuoriuscito dai rubinetti intenzionalmente aperti dall'imputato, si verificasse una vera e propria esplosione pag.68 sentenza di primo grado l'imputato era ben consapevole che l'edificio era abitato da terze persone che non vi era motivo di ritenere assenti vista l'ora notturna, che rendeva ancora più insidiosa la condotta per il rischio evidente di sorprendere nel sonno le potenziali vittime pag.l6 sentenza di appello . Le osservazioni dei giudici di merito che hanno attribuito valore sintomatico della sussistenza della volontà omicida nella forma del dolo indiretto all'intento dell'imputato realizzato di provocare un incendio dell'appartamento e all'intento non riuscito di provocare una vera e propria esplosione mediante saturazione dell'ambiente con il gas, sono conformi alla giurisprudenza di legittimità in tema di elemento soggettivo del reato, secondo cui ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l'agente, pur non mirando direttamente alla causazione di un determinato evento si è rappresentato la concreta possibilità che esso accada come conseguenza del proprio comportamento, ed ha agito accettando il rischio di verificazione dell'evento, e quindi con volizione sia pure indiretta o eventuale di esso si versa invece nella colpa con previsione quando l'agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l'evento ma agisce con il sicuro convincimento di poterlo evitare. Sez. 4, n. 24612 del 10/04/2014, Izzo, Rv. 259239 Sez. 1, n. 30472 del 11/07/2011, Braidic, Rv. 251484 Sez. 4, n. 28231 del 24/06/2009, P.G. in proc. Montalbano, Rv. 244693 . 4. Il quarto motivo è infondato. Come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, il delitto di omicidio volontario per cui è intervenuta condanna rientra nell'elenco dei reati previsti dall'articolo 407 comma 2 lett. a cod.proc.pen. per i quali l'applicazione della recidiva è obbligatoria a norma dell'articolo 99 comma 5 cod.pen Il giudizio di bilanciamento tra le attenuanti generiche e la contestata recidiva reiterata, effettuato dal giudice di merito in termini di equivalenza, è ontologicamente diverso e non equiparabile alla esclusione in concreto della rilevanza della recidiva, non consentita nel caso in esame in ragione del tipo di reato al quale la recidiva afferisce, che obbliga alla applicazione di essa quantomeno nei termini minimali di un giudizio di equivalenza con eventuali circostanze attenuanti concorrenti conforme Sez. 1, n. 17313 del 15/04/2008, P.G. in proc. Giglio e altro, Rv. 239620 . A norma dell'articolo 616 cod.proc.pen. il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione in favore dello stato delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili S.A. e G. che si liquidano in complessivi Euro quattromila oltre accessori come per legge.