Omesso versamento dell’IVA: reato punibile a titolo di dolo generico o specifico?

Per la integrazione della fattispecie sotto l’aspetto dell’elemento soggettivo del reato è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta dovuta, in quanto la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta e che deve, quindi, essere saldato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte.

E’ quanto emerso dalla sentenza n. 52039 della Corte di Cassazione, depositata il 15 dicembre 2014. Il caso. La Corte di Appello di Milano confermava interamente la sentenza con cui il Tribunale milanese aveva condannato R.G.E. alla pena di mesi 6 di reclusione per il reato di cui all’art. 10 ter d.lgs. n. 74/2000, in quanto – quale legale rappresentante di una s.r.l. – ometteva di versare l’IVA dovuta per l’anno 2006 entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Avverso tale sentenza l’imputato ricorreva per Cassazione, deducendo due differenti motivi di gravame in primis , inosservanza od erronea applicazione della legge penale, atteso che il fatto non è previsto dalla legge come reato per la mancanza dell’elemento psicologico richiesto dal legislatore per la sua integrazione, fermo restando che la Corte di merito avrebbe omesso di valutare che la causa del mancato versamento era da individuare nella difficile situazione economica dell’impresa in secundis , violazione ed errata applicazione delle norme di diritto con precipuo riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena. La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, sulla scorta di precise argomentazioni in punto di diritto sostanziale e processuale. La mancanza di specificità del ricorso. La Suprema Corte di legittimità, con la sentenza de qua ha, preliminarmente, avuto modo di chiarire quelli che sono i limiti del ricorso per Cassazione il ricorrente si è limitato a riproporre le doglianze difensive che avevano già costituito motivo di appello della sentenza di prime cure, laddove la motivazione della Corte di merito appare logica e coerente. Sul punto, la giurisprudenza della Corte Regolatrice è ormai pacifica nel ritenere inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che si limitano a riproporre le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. c , c.p.p., alla inammissibilità della impugnazione. Reato punibile a titolo di dolo generico. Le Sezioni Unite hanno chiarito come il reato de quo è punibile a titolo di dolo generico e non di dolo specifico mentre, infatti, molte condotte sanzionate dal d.lgs. n. 74/2000 richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, tale specifica finalità non emerge dal testo dell’art. 10 ter del suddetto decreto, pertanto per la integrazione di tale fattispecie - sotto l’aspetto dell’elemento soggettivo del reato - è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta dovuta. Donde, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta e che deve, quindi, essere saldato o, quantomeno, contenuto non oltre la soglia di punibilità di euro cinquantamila. L’illiquidità incolpevole è una scriminante? Il Supremo Consesso ha analizzato quelli che sono i motivi di illiquidità incolpevole più frequentemente dedotti nella casistica, ovvero a l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti onde evitare dei licenziamenti b l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori pena il fallimento della società c la mancata riscossione di crediti vantati. Ebbene, secondo i Supremi Giudici, nessuna di queste situazioni può integrare sic et simpliciter l’invocata forza maggiore ex art. 45 c.p. o lo stato di necessità ex art. 54 c.p. altrimenti detto, nessuna di queste situazioni integra la forza maggiore o lo stato di necessità idonee ad escludere la penale responsabilità dell’imprenditore. Infatti, anzitutto, pur essendo il diritto al lavoro costituzionalmente garantito, deve escludersi che la sua perdita costituisca grave danno alla persona sotto il profilo richiesto dallo stato di necessità. In secondo luogo, la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l’ipotesi di forza maggiore. Infine, la mancata riscossione dei crediti rientra nell’ordinario rischio di impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l’obbligazione, di natura pubblicistica, che l’imprenditore ha verso l’Erario.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 novembre – 15 dicembre 2014, n. 52039 Presidente Fiale – Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente R.G.E. , con sentenza del 7.11.2013, confermava la sentenza del Tribunale di Milano del 22.06.2012, con condanna al pagamento delle spese del grado. Il Tribunale dichiarava l'imputato responsabile del delitto di cui all'art. 10 ter D. L.vo 74/2000, perché, quale legale rappresentante della srl SCAC Precompressi, ometteva di versare l'IVA dovuta per l'anno 2006 entro il termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, condannandolo, con l'attenuante di cui all'art. 13 D.L.vo 74/00, in ragione del pagamento successivo alla consumazione del reato, alla pena di mesi 6 di reclusione. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, personalmente, R.G.E. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. a. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale art. 606 lett. b cod. proc. pen. , atteso che il fatto non è previsto dalla legge come reato e per la mancanza dell'elemento psicologico richiesto dal legislatore per l'integrazione del reato - vizio di motivazione ex art. 606 co. 1 cod. proc. pen. stante la presenza di una causa generale qual è l'inesigibilità circa l'esclusione della colpevolezza. Il ricorrente deduce la carenza dell'elemento soggettivo del reato. La Corte di appello non avrebbe tenuto conto che la causa del mancato versamento è stata la difficile situazione economica dell'impresa. Il versamento delle ritenute sarebbe stato omesso nel convincimento di esporsi solo ad un illecito amministrativo. Nel comportamento dell'imputato sarebbero mancati la volontà e la coscienza di compiere il reato. In data 5.08.2009, la società, non avendo la disponibilità dell'intera somma, versava Euro 100.000,00 in acconto e in data 29.07.2010 era ammessa al pagamento rateale della somma. Il debito tributario è stato poi interamente saldato. Non essendo quindi addebitabile alla volontà della società il mancato rispetto del termine per il pagamento ed essendo stata estinta l'obbligazione, secondo la ricostruzione del ricorrente, il fatto contestato non costituirebbe reato. b. Violazione ed errata applicazione delle norme di diritto. Il ricorrente lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena. L'esistenza di un precedente penale per lesioni colpose, riportato soltanto in quanto amministratore legale della SCAC di Siena e non per aver commesso personalmente il delitto, non avrebbe dovuto costituire una preclusione al diritto alla concessione della sospensione della pena. Chiede, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata con rinvio per un nuovo esame nel merito, accogliendo le richieste con ogni consequenziale statuizione, pure in ordine alle spese dei tre gradi di giudizio. Considerato in diritto 1. Il motivi sopra richiamati appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile. 2. Il ricorrente ripropone le doglianze che già avevano costituito motivo di appello della sentenza di primo grado. I motivi di appello appaiono adeguatamente vagliati dalla sentenza impugnata che offre una motivazione logica e coerente. Sul punto è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolon non mass. conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568 sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849 sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109 sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945 sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634 sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693 . Le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato, peraltro, all'esito di un'approfondita disamina della normativa tributaria in materia, proprio in tema di elemento soggettivo, che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758 . Mentre, invero, molte delle condotte penalmente sanzionate dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo dell'art. 10 ter d.lgs. n. 74 del 2000. Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all'Erario l'imposta dovuta. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro cinquantamila, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. La prova del dolo - hanno condivisibilmente affermato le SS.UU. nella sentenza 37424/13- è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato. Nel caso in esame siamo pacificamente al di sopra della soglia di punibilità. Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuote già dall'acquirente del bene o del servizio l'IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria. In tal senso appare evidente la similitudine con quanto accade per il sostituto d'imposta rispetto alle trattenute operate per oneri previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei propri dipendenti. Ed evidentemente non è estranea a tale valutazione la scelta del legislatore del 2006 di equiparare le sanzioni. L'introduzione della norma penale di cui all'art. 10 ter Dlgs 74/2000, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. 2. A norma dell'art. 10 ter del D.Lgs. n. 74 del 2000, inserito con l'art. 35 co. 7 del D.L. 4 luglio del 2006, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto del 2006, la sanzione prevista dall'art. 10 bis per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Con l'intervento legislativo del luglio 2006 è stata, dunque, introdotta una nuova fattispecie criminosa, diretta a sanzionare l'omesso versamento dell'IVA in base alle risultanze della dichiarazione annuale, cui è stata estesa la sanzione penale prevista per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate dal precedente art. 10 bis, in forza del quale è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo d'imposta da intendersi per i fatti commessi sino al 17.9.2011 superiore, per ciascun periodo d'imposta, a 103.931,38 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 8.4.2014 n. 80 - in GU la Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 17 del 16-4-2014 e quindi produttiva di effetti dal 17.4.2014 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 ter D.lvo 74/2000 nella parte de qua . Il comportamento del soggetto che non versa l'IVA dichiarata a debito in sede di dichiarazione annuale è stato quindi dal legislatore assimilato, sotto il profilo sanzionatorio, ma come vedremo non solo, a quello del sostituto che non versa le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. Il momento consumativo del reato è individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Tale termine è fissato dalla L. n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente per la consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze previste, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento. Nella fattispecie al 27 dicembre del 2006. La giurisprudenza di questa Corte ha anche risolto in senso positivo, tenuto conto che la disposizione de quo è entrata in vigore il 4 luglio del 2006 e che il delitto si perfeziona alla data del 27 dicembre di ciascun anno per IVA relativa alla dichiarazione dell'anno precedente, il dubbio se la nuova disposizione sanzionatoria trovasse applicazione per i reati riguardanti l'IVA relativa all'anno 2005, senza che ciò comporti violazione del principio di irretroattività della norma penale Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758 e in senso negativo quello per l'applicabilità dell'indulto, di cui alla L. n. 241 del 2006, che copre i reati commessi fino al 2 maggio del 2006 sez. 3, n. 38619 del 14.10.2010, P.G. in Proc. Mazzieri, rv. 248626 . Il reato di omesso versamento dell'IVA ex art. 10 ter, D.Lgs. 74/2000 si consuma, infatti, nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, non essendo sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alle scadenze previste. È necessario, quindi, che l'omissione del versamento dell'IVA dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo di imposta di riferimento, giusto quanto disposto dall'art. 6, comma secondo, della legge 29 dicembre 1990, n. 405. Condivisibilmente è stato precisato che in tema di omesso versamento IVA, il reato omissivo a carattere istantaneo previsto dall'art. 10 ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 consiste nel mancato versamento all'erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime di IVA per cassa , è ordinariamente svincolato dalla effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758 sez. 3, n. 19099 del 6.3.2013, Di Vora, rv. 255327 . 3. Se quello appena delineato è il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, va detto che il primo motivo di ricorso appare infondato. Nella già richiamata pronuncia, le Sezioni Unite di questa Corte Suprema hanno di recente precisato, all'esito di un'approfondita disamina della normativa tributaria in materia, proprio in tema di elemento soggettivo, che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758 . Mentre, invero, molte delle condotte penalmente sanzionate dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo dell'art. 10 ter d.lgs. n. 74 del 2000. Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro cinquantamila, con la precisazione di cui sopra dopo l'intervento della Corte Costituzionale, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. La prova del dolo - hanno condivisibilmente affermato le SS.UU. nella sentenza 37424/13 - è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto. Nel caso in esame siamo pacificamente al di sopra di tale soglia essendo stato omesso nei termini un versamento di Euro 631.167. Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuote già dall'acquirente del bene o del servizio l'IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria. In tal senso appare evidente la similitudine con quanto accade per il sostituto d'imposta rispetto alle trattenute operate per oneri previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei propri dipendenti. Ed evidentemente non è estranea a tale valutazione la scelta del legislatore del 2006 di equiparare le sanzioni. L'introduzione della norma penale di cui all'art. 10 ter Dlgs 74/2000, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. 4. Le Sezioni Unite scrivono, anche, nella citata sentenza 37424/13 Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del 2006 di non far debitamente fronte alla esigenza predetta per l'esclusione del rilievo scriminante di impreviste difficoltà economiche in sé considerate v., in riferimento alla parallela norma dell'art. 10-bis, Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010, dep. 2011, Provenzale . Le SS.UU. dunque, richiamano la giurisprudenza di questa Sezione secondo che ha già più volte stabilito, in materia di omesso versamento di ritenute previdenziali che il reato è integrato, siccome è a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti Sez. 3, n. 13100 del 19.1.2011, Biglia, Rv. 249917 conf. Sez. 3, n. 29616 del 14.6.2011, Vescovi, rv. 250529 . 5. Va evidenziato che nell'ormai ricorrente casistica dei motivi dell'illiquidità che si assume essere incolpevole e che si chiede poter scriminare il mancato pagamento di tributi all'Erario vengono per lo più sottoposte all'attenzione di questa Suprema Corte, insieme o in alternativa, proprio i motivi oggi dedotti in ricorso e cioè a l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti b l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società c la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, verso la clientela e spesso nei confronti dello Stato. Ebbene, nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex se l'invocata forza maggiore ex art. 45 cod. pen. o lo stato di necessità ex art. 54 cod. pen Non lo è, in primis, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. L'esimente della forza maggiore, di cui all'art. 45 cod. pen., sussiste in tutti i casi nei quali l'agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà non vi era la possibilità di impedire l'evento o la condotta antigiuridica. Ebbene, questa Corte Suprema ha più volte avuto modo di precisare che, in casi come quello che ci occupa, la situazione di difficoltà finanziaria dell'imprenditore, anche laddove provata, non costituisce causa di forza maggiore che esclude la responsabilità penale, cfr. ex plurimis, sez. 3, n. 37528 del 12.6.2013, Corlianò, rv. 257683 . Quanto allo stato di necessità, l'art. 54 cod. pen. esclude la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che con l'espressione danno grave alla persona”, il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica comprensiva del diritto alla salute , la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana cfr. sul punto la già citata sentenza di questa sez. 3 n. 15416/2014 . Anche in relazione a tale esimente, tuttavia, pur essendo dunque fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 cod. pen. cfr. sul punto sez. 1, 23 gennaio 1997, n. 4323, P.M.in proc. Baiocco ed altri, rv. 207434 . Analogamente nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, in ogni caso, dalla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall'Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perché il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Erario proprio in relazione ai crediti tributari, sia perché la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata. In ultimo, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente pubblico, laddove l'interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per la prestazione di servizi. La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei debiti che l'interessato può addurre nei confronti dello Stato o dell'ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d'impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l'obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l'Erario. Va detto, in ultimo, che il Tribunale di Milano prima e la Corte territoriale poi hanno preso atto del tardivo pagamento, intervenuto evidentemente a reato già consumato, che ha indotto al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 13 D.lvo 74/00. 6. Va chiarito che il Collegio ritiene che tale assunto non sia incompatibile con la più recente precisazione fornita da questa stessa Suprema Corte secondo cui non è escluso che, in astratto, siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria così sez. 3 n. 10813 del 6.2.2014, Servida, non massim. conf. la cit. sez. 3, n. 5467 del 5.12.2013 dep. il 4.2.2014, Mercutello,rv. 258055 . È tuttavia necessario, perché in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto non ultimo, il ricorso al credito bancario . In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse ne-cessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili così la già citata e condivisibile sentenza 5467/14 di questa Sezione . Nel caso in esame tali allegazioni, valutato quanto si legge nel provvedimento impugnato, non ci sono state. 5. Parimenti infondato appare il motivo articolato sulla mancata concessione delle attenuanti e della sospensione della pena. La sentenza impugnata motiva sul punto rilevando la presenza, oltre che di due precedenti per lesioni colpose, evidentemente non ostativi, di un precedente specifico che unicamente alla considerazione dell'importo ingente del tributo evaso, induce a ritenere l'imputato non meritevole della riduzione di pena né della sospensione condizionale della pena cfr. pag. 2 della sentenza impugnata . Pare evidente, dunque, che la Corte territoriale, sulla scorta degli elementi indicati, ha operato una prognosi negativa ex art. 164 cod. proc. pen 6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000 , alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.