Prima condanna in appello, riformatrice della precedente assoluzione: a quali criteri deve rispondere?

Perché la sentenza d’appello riformatrice della precedente pronuncia assolutoria risponda ai requisiti enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, non deve limitarsi ad una mera rivalutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado, ma, ponendosi a confronto con la struttura motivazionale della sentenza di primo grado, deve contenerne una critica demolitoria di tale decisione, volta ad evidenziarne, con argomentazioni dirimenti e dotate di forza persuasiva, le carenze motivazionali. Compito del giudice di seconde cure è, dunque, quello di indicare le ragioni per le quali ritiene di dissentire dalla pronuncia assolutoria, sulla base di un puntuale confronto con le argomentazioni di segno opposto del primo giudice, attraverso il riferimento specifico alle risultanze processuali addotte a sostegno della diversa decisione ed alle deduzioni difensive.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 52025, depositata il 15 dicembre 2014. Il fatto. Con sentenza il Tribunale di Ragusa assolveva l’imputato dal reato di cui all’art. 609 bis c.p La Corte d’appello di Catania, invece, in riforma della suddetta pronuncia, dichiarava l’imputato colpevole di tale reato. Contro tale decisione propone ricorso per cassazione l’imputato, con il quale solleva la problematica della motivazione della sentenza di condanna emessa in appello in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado. Il doppio grado di giudizio. Il Collegio ricorda come nel nostro ordinamento vige il principio del doppio grado di giudizio, in forza del quale l’imputato può ottenere una seconda pronuncia di merito che, attraverso un nuovo esame del materiale probatorio, ed una nuova valutazione delle deduzioni difensive e degli assunti accusatori, pervenga ad una pronuncia confermativa o riformatrice di quella precedente, sulla quale è destinata a prevalere. Tale rivisitazione del processo è caratterizzata da un controllo di tipo cartolare delle risultanze processuali salvi i casi, disciplinati dalla legge, di una rinnovazione del dibattimento. Imputato condannato per la prima volta in appello. È evidente, infatti, che, qualora nel giudizio di secondo grado si pervenga, sulla base dello stesso materiale probatorio raccolto ed esaminato nel giudizio di primo grado, ad una sentenza di condanna in riforma della precedente assoluzione, l’imputato, condannato per la prima volta in appello, viene ad essere di fatto privato di un grado di merito. Nemmeno l’unico rimedio esperibile, il ricorso in Cassazione, è idoneo a compensare la perdita del riesame nel merito della condanna inflittagli, dato che il giudizio di legittimità è limitato all’esame delle violazioni di legge e vizi di motivazione della sentenza impugnata, senza possibilità di riproporre censure che riguardano il merito della decisione. Proprio per tali ragioni si impone, nei casi in cui l’imputato non può contare su una ricostruzione nel merito della condanna, la necessità di una motivazione rigorosa da parte del Giudice d’appello. I criteri cui deve rispondere la motivazione del Giudice d’appello Sul punto, ricorda il Collegio, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato i criteri cui deve rispondere tale motivazione per essere esaustiva, rispettosa delle garanzie di difesa e coerente con il principio dell’ oltre ogni ragionevole dubbio , affermando che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice d’appello, che riformi totalmente la decisione di primo grado, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato. pena il vizio di motivazione. E, ancora, la sentenza d’appello di riforma del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio d’appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Solo in presenza di tali caratteri, la sentenza d’appello è in grado di possedere una tenuta motivazionale idonea a sorreggere una prima condanna in riforma della precedente assoluzione. Tutto ciò premesso, la S.C. rileva che, nel caso di specie, i giudici di seconde cure sono pervenuti alla diversa pronuncia di condanna non sulla base di una differente valutazione delle risultanze processuali, sganciata dalle argomentazioni dei primi giudici, ma attraverso una circostanziata confutazione dei punti fondamentali della motivazione di primo grado, sottoposta ad una critica rigorosa mirata ad evidenziarne le illogicità. Rigetta, pertanto, il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 marzo – 15 dicembre 2014, n. 52025 Presidente Teresi – Relatore Savino Ritenuto in fatto Con sentenza emessa in data 8 giugno 2010 il Tribunale di Ragusa assolveva M.M. dal reato di cui all'art. 609 bis c.p. era infatti stato tratto a giudizio perché, mentre il dodicenne B.S. era intento a dare da mangiare alle nutrie lo afferrava da dietro e, trattenendolo per le braccia, gli abbassava il costume strofinando il proprio membro sui glutei dello stesso . Proposto appello dal PG, la Corte di Appello di Catania, in riforma della suddetta pronuncia, dichiarava il M. colpevole del reato di cui all'art. 609 bis e, concesse le attenuanti generiche e l'attenuante di cui all'art. 609 bis ultimo comma ritenute prevalenti sulla contestata aggravante, lo condannava alla pena di anni 2 e mesi 4 di sospensione nonché alle conseguenti pene accessorie interdirti ve ed al pagamento delle spese processuali. Avverso tale sentenza il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi 1 Mancanza e manifesta illogicità della motivazione anche in raffronto con quello della sentenza di primo grado in relazione ai principi stabiliti per la valutazione della prova 2 Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 133 e 62 bis c.p Ritenuto in diritto Il presente procedimento pone la problematica della motivazione della sentenza di condanna emessa in appello in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado. Come è noto, nel nostro ordinamento vige il principio del doppio grado di giurisdizione, in virtù del quale l'imputato può ottenere una seconda pronuncia di merito, che, attraverso un nuovo esame del materiale probatorio, ed una nuova valutazione delle deduzioni difensive e degli assunti accusatori, pervenga ad una pronuncia confermativa o riformatrice di quella precedente, sulla quale è destinata a prevalere. Tale sistema è ispirato all'esigenza di consentire un vaglio ulteriore del processo, stante la portata pienamente devolutiva del giudizio di appello sia pure delimitata dai motivi di impugnazione dedotti dalle parti, ciò a garanzia di una decisione che sia il più possibile approfondita, ponderata e rispondente alle emergenze istruttorie, alla stregua della dialettica processuale delle parti. Tale rivisitazione del processo è caratterizzata da un controllo di tipo cartolare delle risultanze processuali salvi i casi disciplinati dalla legge, di un rinnovazione del dibattimento. È evidente che le esigenze sottese al sistema del doppio grado di giurisdizione di merito, si riannodano al principio dell' oltre ragionevole dubbio , introdotto dall'art. 133 c.p., nuova formulazione, nel senso che convergono entrambi ad assicurare un decisione che sia il più possibile scevra da dubbi. Nei casi in cui, nel giudizio di secondo grado si pervenga, sulla base dello stesso materiale probatorio raccolto ed esaminato nel giudizio di primo grado, ad una sentenza di condanna in riforma della precedente assoluzione, l'imputato, condannato per la prima volta in appello, viene ad essere di fatto privato di un grado di merito. Né l'unico rimedio esperibile, il ricorso per Cassazione, è idoneo a compensare la perdita del riesame nel merito della condanna inflittagli, stante l'ambito proprio del giudizio di legittimità circoscritto al solo esame di violazioni di legge e vizi di motivazione della sentenza impugnata, senza possibilità di riproporre censure che riguardano il merito della decisione. Proprio in considerazione della particolare situazione in cui viene e trovarsi l'imputato che non può contare su una riconsiderazione nel merito della condanna, si impone, in tali casi, la necessità di una motivazione rigorosa da parte del giudice di appello che intenda riformare una precedente assoluzione in primo grado. La giurisprudenza di questa Corte ha elaborato i criteri cui deve rispondere tale motivazione per essere esaustiva, rispettosa delle garanzie difensive e coerente col principio dell' oltre ragionevole dubbio , affermando che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato Sez. Unite, n. 33748 del 12/07/2005, dep. 20/09/2005, Rv. 231679, Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, dep. 20/02/2013, Rv. 254638 . La sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Sez. 6, Sentenza n. 6221 del 20/04/2005 Ud. dep. 16/02/2006 Rv. 233083. Sez. 6, Sentenza n. 46847 del 10/07/2012 Ud. dep. 04/12/2012 Rv. 253718. In definitiva, perché la sentenza di appello riformatrice della precedente pronuncia assolutoria risponda ai requisiti enucleati dalla giurisprudenza di questa Corte, non deve limitarsi ad una mera rivalutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado e in quella sede ritenuto non idoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, ma, ponendosi a confronto con la struttura motivazionale della sentenza di primo grado, deve contenere una critica demolitoria di tale decisione, volta ad evidenziarne, con argomentazioni dirimenti e dotate di forza persuasiva, le carenze motivazionali, essendo compito precipuo del giudice di seconde cure quello di indicare le ragioni per le quali ritiene di dissentire dalla pronuncia assolutoria, sulla base di un puntuale confronto con le argomentazioni di segno opposto del primo giudice, attraverso il riferimento specifico alle risultanze processuali addotte a sostegno della diversa decisione ed alle deduzioni difensive. Solo in presenza di tali caratteri, la sentenza di appello è in grado di possedere una tenuta motivazionale idonea a sorreggere una prima condanna in riforma della precedente assoluzione diversamente, detta sentenza, benché adeguatamente motivata ed immune dai vizi indicati dall'art. 606 co. 1 lett. e c.p.p., limitandosi ad una alternativa valutazione del medesimo compendio probatorio, senza alcun confronto con le diverse argomentazioni della sentenza impugnata su circostanze ed apprezzamenti che hanno concorso in modo determinante a fondare il diverso convincimento del primo giudice, non acquista quella forza persuasiva idonea al superamento di ogni ragionevole dubbio. Tali principi sono divenuti ancora più pregnanti a seguito dei recenti interventi della Corte Costituzionale e della CEDU volti a rimarcare che, pur dovendosi ritenere esente da censure di incostituzionalità e non in contrasto con norme e principi di diritto Europeo la prima condanna in appello, questa deve essere assistita da una rigorosa motivazione nei termini sopra indicati. Tutto ciò premesso, si deve rilevare che, nel caso in esame, i giudici di seconde cure sono pervenuti alla diversa pronuncia di condanna non sulla base di una differente valutazione delle risultanze processuali, sganciata dalle argomentazioni dei primi giudici, ma attraverso una circostanziata confutazione dei punti fondamentali della motivazione di primo grado, sottoposta ad una critica rigorosa mirata ad evidenziarne le illogicità. La corte territoriale ha ritenuto che l'attendibilità della persona offesa, il minore B.S. di anni dodici, non possa essere scalfita dai profili di contraddittorietà evidenziati nella sentenza di primo grado, che ha sottoposto ad accurata disamina in particolare i giudici di appello hanno ritenuto, in maniera del tutto logica, come il mancato riferimento da parte del ragazzo, nel racconto fatto agli amici del padre, dell'aspetto più rilevante della condotta molesta contestata all'imputato, ovvero lo sfregamento del membro contro i glutei, sia stato verosimilmente omesso dal minore per un sentimento di vergogna e per lo stato di evidente agitazione in cui versava subito dopo il fatto, che può averlo indotto a riferire in modo confuso ed incompleto il comportamento del molestatore. Tale gesto era comunque compreso nella descrizione dettagliata delle molestie subite fatta al padre e in sede di incidente probatorio. Quanto alla mancanza di segni esteriori sulla vittima, considerata dai primi giudici elemento incompatibile con la denunciata violenza, la corte distrettuale da un'esaustiva logica spiegazione in termini di assoluta compatibilità dell'assenza di segni di violenza fisica con la molestia contestata, osservando correttamente che la condotta è stata caratterizzata dalla repentinità del gesto posto in essere dall'imputato, sopraggiunto da dietro, all'improvviso, repentinità tale da impedire alla vittima qualsiasi possibilità di reazione, e non è consistita in un atto di violenza fisica vera e propria per questa ragione si spiega l'assenza di ecchimosi e di altri segni, da non interpretarsi quindi come elemento di smentita del racconto della vittima. I primi giudici hanno inoltre ritenuto non attendibile il narrato della vittima evidenziando ulteriori profili di inverosimiglianza ravvisati nel fatto che la molestia sessuale possa essere stata perpetrata in pieno giorno, in luogo di mare frequentato dai bagnanti, che il M. possa essersi reso autore di quella condotta ai danni di un ragazzo, posto che il predetto, notoriamente omosessuale, aveva nel rapporto col partner sempre una funzione passiva, infine che lo stesso fosse un insegnante mai denunciato per fatti di pedofilia. La Corte di appello ha condivisibilmente ha spiegato, confutando le ragioni della sentenza di primo grado, che tali circostanze, dedotte per dimostrare la inattendibilità della versione del minore parte offesa, non sono affatto incompatibili con l'accadimento dei fatti, trattandosi, quanto al primo profilo di inverosimiglianza riguardante le circostanze di luogo e di tempo, di un posto, quello ove si sono svolti i fatti, contiguo, si, alla spiaggia ma isolato perché coperto da un canneto, e di un orario coincidente con il pranzo o col riposo pomeridiano. Nota, inoltre la Corte territoriale, quanto al secondo profilo, che il ruolo, per così dire, femminile, assunto dal M. nel rapporto omosessuale non esclude che egli potesse provare ro delle pulsioni per un minore di sesso maschile e cercasse di soddisfarle. Altrettanto logica appare l’osservazione della Corte di appello secondo la quale il minore, a detta della difesa influenzato da un clima di generale pregiudizio, non avrebbe avuto alcun interesse ad alterare i fatti narrando un episodio per lui altamente imbarazzante in realtà mai verificatosi ciò contrariamente alla tesi sostenuta dal primo giudice circa un ingigantimento della vicenda da parte della vittima, suggestionata da notizie allarmistiche sulle non buone frequentazioni del posto ove si era recato per dare da mangiare ai pesci. Peraltro, osserva la Corte distrettuale, la persona offesa non si è neppure costituita parte civile. Quanto agli altri motivi di ricorso dedotti dalla difesa dell'imputato, osserva questo Collegio che essi sono al limite dell'inammissibilità in quanto introducono censure di merito involgenti una diversa alternativa lettura delle risultanze processuali, non consentita in questa sede di legittimità. Per contro la sentenza impugnata, i cui punti fondamentali sopra descritti si richiamano, presenta una adeguato apparato logico argomentativo, la cui coerenza e linearità non risulta in alcun modo scalfita da dette censure. 2. Anche il secondo motivo con il quale si lamenta il vizio di motivazione quanto alla pena inflitta deve ritenersi inammissibile perché manifestamente infondato. A detta della difesa la Corte di appello, nonostante l'enunciazione di molteplici valenze positive ed il riconoscimento delle attenuanti generiche, ha riservato all'imputato un trattamento sanzionatorio alquanto severo attestandosi ben oltre il minimo edittale. Orbene, come è noto la determinazione della pena come pure la applicazione ed il bilanciamento delle circostanze involgono valutazioni discrezionali per definizione sottratte all'apprezzamento del giudice di legittimità, quando sono sorrette da motivazione logica e conforme ai principi giuridici e la loro determinazione non sia frutto di valutazioni arbitrarie. Circostanza, quest'ultima, non ravvisabile nel caso di specie dal momento che la Corte di appello ha motivato la propria scelta sanzionatoria attraverso il richiamo pertinente agli indici dell'art. 133 cp, ovvero la gravità del fatto e le modalità della condotta. Pertanto il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.