Possibile la configurabilità del reato a seguito di condotta meramente passiva?

Esula dalla fattispecie delittuosa il comportamento di chi semplicemente omette di aderire all’altrui richiesta, non consistendo esso né in una modificazione della realtà esterna né in una modalità di comunicazione tali, rispettivamente, da creare o prospettare una situazione coartante, ma risolvendosi invece in una mera forma passiva di non cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 51697, depositata l’11 dicembre 2014. Il caso. Il Tribunale di Perugia condannava M.F. alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui all’art. 610 c.p. secondo la prospettazione accusatoria l’imputato avrebbe impedito alla persona offesa H.M. di circolare liberamente, parcheggiando la propria autovettura dietro quella della vittima, ferma dinanzi alla barriera di un parcheggio condominiale, così impedendo alla stessa di effettuare manovra in retromarcia e costringendola ad impegnare il marciapiede per uscire dal suddetto parcheggio. La Corte d’appello di Perugia riformava in toto la statuizione di prime cure, assolvendo M.F. perché il fatto non sussiste, specificando come l’impedimento all’uscita era derivato dalla mancata apertura della sbarra, situazione questa non addebitabile all’imputato, che non aveva un preciso dovere di azionare l’apertura, laddove la circostanza che fosse stato allo stesso chiesto di spostare la sua auto al fine di consentire alla persona offesa di retrocedere non era risultata pienamente dimostrata. Avverso tale sentenza ricorreva per cassazione la parte civile, deducendo tre motivi di gravame in primis , inosservanza od erronea applicazione della legge penale e, specificamente, dell’art. 610 c.p. in secundis , mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, nonché inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inammissibilità o decadenza, atteso che la motivazione della sentenza impugnata non indica in modo esaustivo l’iter logico-argomentativo che ha condotto la Corte di merito ad assolvere l’imputato ed a revocare le statuizioni civili infine, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e, in particolare, contrasto tra la motivazione ed il dispositivo, atteso che dalla lettura della sentenza pare emergere che l’imputato sia stato assolto per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, mentre nel dispositivo l’imputato risulta essere stato assolto perché il fatto non sussiste. La Corte di Cassazione, con la sentenza de qua , nel rigettare tutti i motivi di ricorso ha avuto modo di riprendere e consolidare alcuni importanti principi di diritto sostanziale e processuale. La violenza privata. È orientamento pacifico quello secondo cui l’elemento della violenza nella fattispecie criminosa di cui all’art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione. In altri termini, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è necessaria una qualsiasi energia fisica immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica di determinazione e azione del soggetto passivo, donde ne consegue che esula dalla fattispecie delittuosa il comportamento di chi semplicemente omette di aderire all’altrui richiesta, non consistendo esso né in una modificazione della realtà esterna né in una modalità di comunicazione tali, rispettivamente, da creare o prospettare una situazione coartante, ma risolvendosi invece in una mera forma passiva di non cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente. I limiti del sindacato di legittimità. La Suprema Corte ha affermato come la valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta una questione di fatto che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni. Inoltre, laddove venga dedotto il travisamento della prova dichiarativa con riferimento a specifici esami testimoniali dibattimentali, la regola giurisprudenziale dell’autosufficienza del ricorso prevede che qualora la prova asseritamente omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani o a sintetizzarne in maniera autonoma il contenuto, giacché così facendo viene impedito al Giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l’effettiva portata del vizio dedotto. Infine, i Supremi Giudici hanno ulteriormente chiarito come difetta di interesse la parte civile che invochi esclusivamente la sostituzione dell’asserita erronea formula assolutoria, in quanto l’effetto del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo di danno previsto non è infatti collegato alla formula utilizzata, bensì al concreto ed effettivo accertamento da parte del giudice penale circa l’insussistenza del fatto.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 maggio – 11 dicembre 2014, numero 51697 Presidente Dubolino – Relatore Pezzullo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 30.10.2012 la Corte d'Appello di Perugia, in riforma della sentenza emessa in data 25.3.2011 del locale Tribunale, in composizione monocratica - di condanna alla pena di mesi due di reclusione oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile - assolveva M.F. dal reato di cui all'art. 610 c.p. perché il fatto non sussiste. Al M. era stata ascritta la condotta dell'aver impedito ad H.M. di circolare liberamente, parcheggiando la propria autovettura dietro a quella della vittima, ferma dinanzi alla barriera del parcheggio condominiale, così impedendo allo stesso H. di effettuare manovra in retromarcia, costringendolo ad impegnare il marciapiede per uscire dal suddetto parcheggio. Rilevava la Corte di merito, in particolare, che l'impedimento all'uscita era derivato dalla mancata apertura della sbarra, circostanza questa, però, non addebitabile all'imputato, che non aveva un preciso dovere di azionare l'apertura, laddove la circostanza che fosse stato chiesto all'imputato di spostare la sua auto, al fine di consentire alla p.o. di retrocedere, non era risultata pienamente dimostrata. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione H.M. , a mezzo del suo difensore, affidato a tre motivi, con i quali lamenta - con il primo motivo, l'inosservanza, od erronea applicazione della legge penale e specificamente dell'art. 610 c.p., atteso che nella sentenza impugnata viene postulato, quale elemento decisivo per la risoluzione della controversia, l'esistenza, o meno, del rifiuto del M. a spostare indietro il proprio veicolo, ma tale rifiuto da parte dell'imputato o il suo mancato consenso è un elemento superfluo, giacché ciò che era rilevante è solo che il M. , di fatto, avesse concorso, a costringere sul piano materiale della condotta e si rendesse conto sul piano soggettivo che, per come posizionati i veicoli ed in virtù del fatto che la sbarra fosse abbassata, la p.o si trovasse nell'impossibilità di muoversi liberamente con il proprio veicolo occorreva stabilire, infatti, se, assodata la materialità del delitto, il M. si rendesse conto dell'impossibilità della persona offesa di muoversi con il proprio veicolo, per le condizioni di spazio e per i luoghi ivi inclusa la posizione della sbarra , nonché della possibilità di influire con una condotta attiva sui fattori impeditivi del movimento dell'autovettura della p.o. in ogni caso, pur volendo seguire la ricostruzione dei fatti del Giudice d'appello che ipotizza che il M. non avesse nessun obbligo di aprire la sbarra e che all'imputato non fosse stato richiesto espressamente di retrocedere, in ogni caso, nella fattispecie risultano individuabili tutti gli elementi costitutivi del reato di violenza privata e segnatamente l'intenzionale mancata apertura della sbarra da parte dell'imputato, unita alla manifestazione esteriore dell'azione dello stesso di parcheggiare dietro l'autovettura del ricorrente, associata all'ulteriore azione commissiva di scendere dalla propria autovettura, spegnere il motore e tirare il freno a mano che palesa in re ipsa la consapevolezza di non far retrocedere la parte offesa , con la dichiarata manifestazione del proposito punitivo tu da qua non hai capito non esci esci solo quando te lo dico io tutti elementi questi che evidenziano che il M. concretizzava la condotta criminosa già nel momento in cui poneva volontariamente la propria autovettura dietro a quella della parte offesa, con la precisa volontà di coartare la vittima il reato di violenza privata è istantaneo e si consuma nel momento in cui l'altrui volontà sia rimasta di fatto costretta a fare, tollerare od omettere qualcosa, ed il M. , infatti, dopo aver appreso che il ricorrente sig. H. non era un condomino e non poteva aprire il dispositivo elettronico di chiusura del parcheggio sbarra perché privo del telecomando, si rifiutava, non solo di far uscire la p.o., ma anche di retrocedere - con il secondo motivo, la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità motivazione, ricavabile dal testo del provvedimento ed il travisamento della prova, nonché l'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inammissibilità o di decadenza, atteso che la motivazione dell'impugnata sentenza, non indica in modo esaustivo l'iter logico - argomentativo che ha portato il Giudice d'appello ad assolvere l'imputato e a revocare tutte le statuizioni civili in ordine alla domanda risarcitoria accolta dalla sentenza di primo grado, nonché a respingere le richieste risarcitorie che in particolare la Corte territoriale ha ritenuto di non dare credito alle testimonianza del ricorrente e del teste B. , avendo il primo richiesto i danni in relazione all'accaduto ed il secondo, perché ritenuto inattendibile per avere avuto una discussione piuttosto accesa con l'imputato, ma non spiega in alcun modo i motivi di fatto e di diritto su cui ha fondato tale valutazione nel corso dell'esame dibattimentale, invero, è emerso invece che il ricorrente aveva chiesto al M. più volte di indietreggiare, come da testimonianze oltre che del deducente, del B. ed il teste G. , contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata confermava la ricostruzione della p.o. e del B. , mentre il teste P. è arrivato sul luogo dei fatti in un secondo momento inoltre, quest'ultimo ha assistito all'escussione dei precedenti testimoni, sicché le sue dichiarazioni non potevano essere utilizzate la Corte di merito, poi, omette di considerare quali altri indizi o, elementi di prova, suffraghino la non responsabilità dell'imputato e travisa apertamente la prova su un punto decisivo, essendovi in atti la dimostrazione, che non solo il M. si è rappresentato gli accadimenti, ma addirittura volesse la costrizione del soggetto passivo - con il terzo motivo la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ed, in particolare, il contrasto tra la motivazione e dispositivo di sentenza, atteso che, dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, pare emergere che l'imputato sia stato assolto per mancanza, insufficiente o contraddittorietà della prova, laddove nel dispositivo della sentenza l'imputato risulta essere stato assolto perché il fatto non sussiste. Considerato in diritto Il ricorso non merita accoglimento. 1. Il primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta l'erronea applicazione dell'art. 610 c.p., si presenta infondato. I fatti vengono così ricostruiti nelle sentenze di merito H.M. si recava in data OMISSIS , alle ore 18,30 circa, presso lo studio dell'avv. B. , lasciando in sosta la propria autovettura all'interno del parcheggio condominiale, che al momento recava la sbarra di apertura alzata, ma, alle ore 20.15, trovava tale sbarra abbassata confidando in un meccanismo di apertura si avvicinava con l'auto alla sbarra che, tuttavia, rimaneva abbassata, quando sopraggiungeva con la propria auto il M. , che si posizionava dietro a lui nasceva quindi una discussione relativa al diritto della p.o. di parcheggiare in quel sito ed il M. non apriva con il proprio telecomando la sbarra di apertura, né faceva alcunché per consentire al predetto di retrocedere dopo circa 15-20 minuti la situazione si sbloccava, perché la p.o. riusciva a salire su un marciapiede laterale, superando la sbarra ancora chiusa. 1.1. La Corte di merito, come già evidenziato, ha escluso la responsabilità dell'imputato, in considerazione del fatto che l'impedimento all'uscita della p.o. era derivato dalla mancata apertura della sbarra, circostanza questa però non addebitabile all'imputato, che non aveva un preciso dovere di azionare l'apertura, laddove l'unica condotta, in ipotesi, costituente il delitto di violenza privata, eventualmente addebitabile all'imputato, consistente nel non aver acconsentito a retrocedere per far spostare la p.o. non è risultato dimostrato. Tale valutazione, nella prima parte e con le precisazioni che si effettueranno appare immune dal lamentato vizio di violazione di legge. 1.2. Va premesso che, secondo i principi affermati da questa Corte, l'elemento della violenza nella fattispecie criminosa di cui all'art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza impropria , che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione Sez. 5, numero 603 del 18.11.2011 Rv. 246551 massime precedenti Conformi N. 1195 del 1998 Rv. 211230, N. 3403 del 2004 Rv. 228063 . In particolare, poiché ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è necessaria una qualsiasi energia fisica immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica di determinazione e azione del soggetto passivo, ne consegue che esula dalla fattispecie delittuosa il comportamento di chi semplicemente omette senza alcun'altra iniziativa materiale di aderire a una richiesta altrui, non consistendo esso, né in una modificazione della realtà esterna, né in una modalità di comunicazione, tali, rispettivamente, da creare o prospettare una situazione coartante , ma risolvendosi, invece, in una mera forma passiva di non cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente. Far rientrare anche questa ipotesi nella previsione dell'art. 610 c.p. significherebbe in sostanza dare una lettura puramente finalistica della norma, in contrasto con l'espressa volontà legislativa di circoscriverne l'ambito di applicazione ai soli mezzi comportamentali ivi specificamente indicati Sez. 6, numero 2013 del 18.11.2009 . 1.3. Nel caso di specie, dunque, alla luce di siffatti principi può convenirsi con quanto, in sostanza, ritenuto dalla sentenza impugnata, secondo cui nel rifiuto di azionare il telecomando per l'apertura della sbarra da parte del M. , che non aveva creato lui la situazione che impediva ad H.M. di uscire dal parcheggio, si configura un comportamento meramente omissivo, inidoneo a configurare il delitto di cui all'art. 610 c.p. Non può condividersi all'uopo la deduzione del ricorrente secondo cui il posizionamento dell'auto dietro a quella della p.o. e la volontaria mancata apertura della sbarra con il telecomando sono elementi sufficienti ad integrare il delitto in questione, posto che il M. era sopraggiunto e l'area ove era posizionata la sbarra era la via di uscita dal parcheggio, sicché il posizionamento dell'auto in direzione della sbarra, dietro il veicolo della p.o. non può ritenersi espressione del un volontario intento di impedire la circolazione di tale ultima auto, in attesa che qualcuno azionasse il meccanismo di apertura della sbarra. La circostanza, poi, che il M. abbia pronunciato frasi del tipo tu da qua esci solo quando te lo dico io non emerge dalla sentenza impugnata. 1.4. Il giudice d'appello ha, poi, valutato la configurabilità del delitto in questione nella condotta del M. di non voler provvedere a spostare l'auto al fine di consentire la retromarcia dell'auto della p.o., richiamando all'uopo la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, anche nel caso in cui la condotta di sosta dell'autovettura venga posta in essere in origine senza il dolo della violenza privata, tale condotta delinea in capo all'agente la responsabilità per il reato di cui all'art. 610 c.p. quando, alfine, si salda col dolo il cambiamento dell'atteggiamento psicologico dell'agente, va cioè visto, nel rifiuto di spostare l'auto, il momento della manifestazione esteriore dell'azione coartante dell'imputato materialmente già posta in essere, non essendo, quel rifiuto, un comportamento capace, da solo, di integrare il reato in particolare, se è del tutto condivisibile che costituisca il reato di cui all'art. 610 c.p. la condotta di chi effettui il parcheggio di un'autovettura in modo tale da impedire intenzionalmente a un'altra automobile di spostarsi per accedere alla pubblica via accompagnato dal rifiuto reiterato alla richiesta della parte offesa di liberare l'accesso è irragionevole non ritenere reato anche soltanto la seconda parte della condotta appena descritta nella quale la costrizione, con violenza, della altrui volontà è determinata dal mantenimento della vettura nella posizione irregolare in cui è stata messa dallo stesso agente, mantenimento capace di determinare la costrizione psicologica della persona offesa, né più e né meno dell'intenzionale parcheggio ostruttivo Sez. 5 numero 603 del 18.11.2011 . Proprio in relazione alla possibilità di configurare il reato di cui all'art. 610 c.p. nel rifiuto di spostare l'auto da parte del M. , la Corte territoriale, come detto, ha ritenuto non dimostrata la circostanza che fosse stato chiesto all'imputato, appunto, di spostare la sua auto, al fine di consentire alla p.o. di retrocedere. Nel caso di specie, tuttavia, appare assorbente rispetto alla valutazione operata dal giudice d'appello, la circostanza che a differenza della condotta oggetto di valutazione nella sentenza richiamata numero 603/2011 - ove in quel caso il parcheggio dell'auto era stato effettuato ab origine in modo tale da impedire ad un condomino di entrare nel garage con la propria autovettura - nel caso di specie, invece, l'ubicazione dell'autovettura del M. era del tutto legittima dovendo anch'egli uscire dal parcheggio ed ammesso che vi fosse prova certa dell'avvenuta sollecitazione ad effettuare lo spostamento, il rifiuto ancorché motivato da ragioni di dispetto non poteva dirsi di per sé illegittimo tanto più in quanto esso era indifferente ai fini del conseguimento dello scopo perseguito dalla p.o. che era solo quello di poter uscire dal parcheggio, scopo, poi, in effetti raggiunto secondo la ricostruzione riportata in sentenza con l'aggiramento della sbarra rimasta abbassata passando sul marciapiede, senza effettuare la retromarcia. 2. Con il secondo motivo di ricorso la parte civile ha censurato la valutazione della Corte territoriale circa la mancata dimostrazione che fosse stato chiesto all'imputato, appunto, di spostare la sua auto, al fine di consentire alla p.o. di retrocedere, adducendo l'erroneità della sentenza impugnata che ha ritenuto inattendibili le dichiarazioni della parte offesa e del teste B. che peraltro, hanno riferito della richiesta di retrocedere da parte della p.o. come situazione di contorno non riscontrate dagli altri testi escussi G. e P. . Tale censura risulta evidentemente superata da quanto sopra evidenziato e, comunque, si presenta inammissibile. Giova in primo luogo richiamare il principio più volte espresso da questa Corte, per il quale la valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta una questione di fatto, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni Sez. I, numero 33267 del 11.6.2013 , che non si ravvisano nella fattispecie in esame. Ed invero, il giudice d'appello, dopo aver premesso che la p.o. aveva proposto azione risarcitoria nei confronti dell'imputato, evidenziando, in sostanza, che le sue dichiarazioni dovevano essere analizzate con maggiore attenzione e che il teste B. aveva avuto una discussione piuttosto accesa con il M. , rilevando in sostanza che, anche le dichiarazioni del predetto dovevano esser verificate con particolare cautela, ha evidenziato, in via dirimente che i testi G. e P. non hanno riferito di una richiesta rivolta al M. da parte di H.M. di spostare la sua auto, ragion per cui non poteva ritenersi raggiunta una piena prova in tal senso. Nell'argomentare in questione non si ravvisano, invero, incongruenze o violazioni di legge, specie in considerazione del fatto che la doglianza circa il travisamento della prova dichiarativa dei testi G. e P. è inammissibile, siccome proposta in violazione della regola dell'autosufficienza del ricorso, avendo il deducente riportato meri brani selezionati estratti dalle deposizioni, in violazione del consolidato insegnamento di questa Corte per cui, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l'onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani o a sintetizzarne in maniera autonoma il contenuto, giacché così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l'effettiva portata del vizio dedotto Sez. 4 numero 37982 del 26 giugno 2008, Buzi, rv 241023 Sez. F., numero 32362 del 19 agosto 2010, Scuto ed altri, Rv. 248141 . 3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Deve all'uopo essere richiamato il principio, secondo cui difetta di interesse la parte civile che invochi esclusivamente la sostituzione dell'asserita erronea formula assolutoria l'effetto del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo di danno previsto non è, infatti, collegato alla formula utilizzata, bensì al concreto ed effettivo accertamento da parte del giudice penale circa l'insussistenza del fatto arg. ex Cassazione penale, sez. unumero , 29/05/2008, numero 40049 . 4. Il ricorso, pertanto, per le ragioni dette va respinto e l'imputato va condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.