Bancarotta, la pena accessoria è stabilita in misura fissa e inderogabile: l’inabilitazione dura sempre dieci anni

In tema di bancarotta fraudolenta, la pena accessoria dell’inabilitazione dall’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa e inderogabile di dieci anni.

È questo il principio espresso dalla sez. V Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 51095, depositata il 9 dicembre 2014. La vicenda. L’amministratore di fatto di una società fallita veniva condannato per il reato di bancarotta fraudolenta, per aver cagionato il dissesto dell’impresa, a due anni di reclusione oltre alla sanzione accessoria dell’inabilitazione per dieci anni, prevista dall’art. 216, ultimo comma, l.fall. Veniva, quindi, proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza confermativa della Corte d’Appello. Bancarotta durata fissa della pena accessoria. Secondo il ricorrente, la durata della pena accessoria per il reato di bancarotta, essendo determinata solo nel massimo, dovrebbe corrispondere a quella della pena principale e, per questo motivo, avrebbe errato la Corte d’Appello nel determinare la sanzione dell’inabilitazione nella durata di dieci anni invece che in due anni. La Cassazione Penale è di parere contrario è vero che, sul punto, si è registrato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni e che, in base a un precedente orientamento, la durata della pena accessoria sarebbe fissata solo nel massimo. Tuttavia, secondo un opposto orientamento la pena accessoria di cui all’art. 216 l.fall. è stabilita in misura fissa e inderogabile nella durata di dieci anni e, di conseguenza, si sottrae alla disciplina di cui all’art. 37 c.p. Ed è proprio a questo indirizzo ribadito di recente, tra le altre, da Cass. Pen. 11257/2013, Cass. Pen. n. 30341/2012 che aderisce il Collegio con la pronuncia in commento. L’intervento della Corte Costituzionale questione inammissibile ma rinvio al legislatore. Si segnala, peraltro, un precedente della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 134/2012 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 216, ultimo comma, l.fall., a causa del petitum formulato dai giudici rimettenti. In quell’occasione è stato, infatti, richiesto di aggiungere all’ultimo comma dell’art. 216 le parole fino a , così da poter superare la predeterminazione in misura fissa della pena accessoria e consentire, quindi, l’applicazione dell’art. 37 c.p., il quale prevede che quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato . La soluzione prospettata si risolve, però, nella richiesta di una sentenza additiva, che eccede i poteri d’intervento della Corte Costituzionale. La Cassazione Penale, con la sentenza in commento, trae da questa declaratoria di inammissibilità una conferma implicita della validità dell’interpretazione secondo cui nel sistema attuale la pena accessoria è prevista in misura fissa, senza che ciò leda alcun diritto costituzionalmente protetto. Eppure, la stessa Corte Costituzionale in quell’occasione, ha sollecitato un intervento del legislatore, volto a riformare il sistema delle pene accessorie, per renderlo pienamente compatibile con i principi della Costituzione, in particolare con l’art. 27, terzo comma . In attesa di un eventuale ripensamento da parte del legislatore, quindi, la pena accessoria deve essere applicata nella misura fissa e inderogabile, per la durata di dieci anni, prevista dall’art. 216, ultimo comma, l.fall fonte www.ilfallimentarista.it

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 settembre – 9 dicembre 2014, n. 51095 Presidente Savani – Relatore Positano Ritenuto in fatto 1. Il difensore di SALM propone ricorso per cassazione contro la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Firenze il 4 marzo 2013, che confermava la decisione adottata dal giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale di Montepulciano, in data 25 maggio 2011 che, all'esito del giudizio abbreviato, aveva condannato il ricorrente alla pena di anni due di reclusione, oltre pene accessorie, concesse le attenuanti generiche equivalenti, in relazione ai due reati di bancarotta fraudolenta. 2. All'imputato era contestato di avere cagionato il dissesto della società A.C. quale amministratore di fatto, in concorso con l'amministratore di diritto, M.G. ripartendo acconti su utili non effettivamente conseguiti e perché, ai sensi dell'articolo 2621 codice civile, al fine di ingannare il pubblico, esponeva nella situazione patrimoniale disponibilità di cassa non esistenti, alterando così la rappresentazione della situazione finanziaria della società. 3. Avverso la sentenza di appello propone ricorso per cassazione il difensore di S. lamentando - violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'applicazione ed all'interpretazione dell'articolo 216 della legge fallimentare - violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 37 del codice penale e 216 della legge fallimentare, riguardo alla sanzione accessoria dell'interdizione dall'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. Considerato in diritto La sentenza impugnata non merita censura. 1. Con il primo motivo la difesa del ricorrente lamenta contraddittorietà della motivazione riguardo all'idoneità della prova che l'imputato fosse effettivamente l'amministratore di fatto della società A.C. Srl. In particolare, la figura dell'amministratore di fatto presuppone l'esercizio concreto della gestione, con modalità continuative e significative, mentre, sia nella sentenza di primo grado, che in quella di appello, viene prospettata l'ipotesi dell'amministratore di fatto, sulla base di parametri contrari alla normativa e alla giurisprudenza formatasi in materia. 2. Il motivo è inammissibile. La censura, infatti, è del tutto sganciata dalle argomentazioni poste a sostegno delle sentenze di condanna, risolvendosi in un'astratta individuazione dei principi generali in tema di elemento soggettivo del reato di bancarotta. 3. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata, non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c , all’inammissibilità in termini, Sez. 4, N. 256/98 - ud. 18/9/1997 - RV. 210157 nello stesso senso Sez. 4, N. 1561/93 - ud. 15/12/1992 - RV. 193046 . Nella concreta fattispecie la Corte territoriale ha dato adeguatamente conto, a pagina 5 della decisione, del proprio convincimento, in ordine alla ritenuta colpevolezza con le argomentazioni sopra sinteticamente ricordate, che non risultano in alcun modo scalfite dalle doglianze del ricorrente Cass, Sez. 4, 08/11/2007, n. 47170, RV 238354 . 4. Inoltre, riguardo alla qualità di amministratore di fatto dell'imputato, si è formato giudicato nell'ambito del separato procedimento che vedeva il ricorrente S., quale amministratore di fatto della predetta società, esercente attività di ristorazione, imputato di plurime ipotesi di bancarotta, sia nell'ipotesi semplice dell'aggravamento del dissesto per omessa richiesta in proprio del fallimento, a fronte dello stato di decozione, sia in quella fraudolenta, della distrazione di beni della fallita, ravvisabile nell'omesso rinvenimento, nella cassa aziendale, del valore dei beni strumentali venduti e dell'avviamento. 5. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione riguardo alla disciplina della sanzione accessoria dell'interdizione dall'esercizio dell'impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici direttivi. In particolare, la Corte d'Appello di Firenze avrebbe errato nel determinare la sanzione accessoria per la durata di 10 anni, mentre, secondo l'orientamento della giurisprudenza in materia, la pena accessoria per il delitto di bancarotta, essendo determinata soltanto nel massimo, deve corrispondere a quella della pena principale, eventualmente di durata inferiore. 6. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi concernenti statuizioni del giudice di primo grado non devolute al giudice di appello con specifica impugnazione. Infatti la sentenza di primo grado, su tali statuizioni od omissioni, acquista autorità di cosa giudicata, salvo il caso, non ricorrente nell'ipotesi in oggetto, in cui si tratti di questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, non richiedenti accertamenti di fatto, di cui non sia stato provocato l'esame o il riesame del giudice d'appello. 7. In ogni caso la censura è infondata, per quanto segue, avendo i giudici di merito fatto buon governo del principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, ha la durata fissa ed inderogabile dieci anni Corte Cost. n. 134 del 2012 Sez. 5, n. 11257 del 31/01/2013, Raccanello Fiori, Rv. 254641. . 8. In effetti, la questione sottoposta a questo collegio aveva conosciuto, di recente, un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Secondo l'orientamento più risalente la pena accessoria prevista dalla L. Fall., art. 216, u.c., non è indeterminata, essendo stabilita in misura fissa e Inderogabile nella durata di dieci anni, e, di conseguenza, si sottrae alla disciplina di cui all'art. 37 c.p. Sez. 5A, 29 settembre 2007, n. 39337, RV 238211 . Un più recente orientamento, invece, ha ritenuto che la pena accessoria in esame sia determinata solo nel massimo, sicché, ai sensi dell'art. 37 c.p., deve avere durata uguale a quella della pena principale irrogata Sez. 5A, 22 gennaio 2010, n. 9672, RV 246891 nello stesso senso Sez. 5A, n. 23720 del 21 marzo 2010, e poi Sez. 5A, n. 23606 del 16/02/2012, Ciampini, Rv. 252960 . L'orientamento secondo cui la durata della pena accessoria L. Fall., ex art. 216, u.c., è stabilito in misura predeterminata e fissa è stato, tuttavia, ribadito di recente Sez. 5A, 18 febbraio 2010, n. 17690 Sez. 5A, n. 269 del 10/11/2010, Marianella, Rv. 249500 ed infine Sez. 5A, n. 30341 del 30/05/2012, Pinelli, Rv. 253318 . 9. Un collegio di questa stessa 5A sezione Sez. 5A, n. 16083 del 23/03/2011, Capizzi, Rv. 250089 - che aderiva all’indirizzo più risalente, ritenendo insuperabile il dato testuale - ha però ritenuto non manifestamente Infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., della L. Fall., art. 216, comma 4, nella parte in cui determina in maniera fissa in dieci anni la durata della pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, ed ha rimesso gli atti al Giudice delle leggi. La Consulta, con sentenza del 31 maggio 2012, n. 134, ha dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale ritenendo che la sentenza additiva richiesta al fine di rendere applicabile l'art. 37 c.p. non costituisse una soluzione costituzionalmente obbligata, rimanendo pertanto legata a scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. La Consulta ha, dunque, implicitamente confermato la validità dell'interpretazione proposta dal collegio remittente, secondo cui nell'attuale formulazione legislativa, la pena accessoria è prevista in misura fissa e ciò non lede alcun diritto costituzionalmente protetto . Deve pertanto ribadirsi, contrariamente all'assunto della difesa, che la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta è indicata in misura fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di anni dieci. 10. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.