Il commercialista rassicura, ma non lavora: inadempimento o truffa contrattuale?

Integra il reato di truffa nel corso dell’esecuzione del contratto d’opera intellettuale il commercialista che, per nascondere una propria manchevolezza nell’adempimento degli obblighi assunti, ponga in essere artifizi o raggiri nei confronti dell’ignaro cliente in modo da indurlo a rinnovare il mandato professionale e a versare la relativa retribuzione.

Lo ha stabilito la sez. II Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 49472, depositata il 27 novembre 2014. Dichiarazioni fiscali omesse. Nel caso di specie un commercialista è stato rinviato a giudizio per il reato di truffa aggravata in danno di un suo cliente. Il professionista, secondo l’accusa, ha convinto il malaugurato assistito di aver curato la presentazione delle dichiarazioni fiscali quando, in realtà, nessun adempimento in tal senso era stato effettuato da qui, la natura indebita del compenso versatogli, per un ammontare di quasi duemila euro. All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale ha opinato per la condanna del professionista, ritenendo provata la responsabilità per il capo d’accusa ascritto, anche in base al riconoscimento - da parte dello stesso imputato – dell’inadempienza negoziale. La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello, adita in sede di gravame. Inadempimento o truffa? La difesa si è, da ultimo, rivolta alla Corte romana cui è stata evidenziata l’erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui i giudici della Corte territoriale ebbero a ritenere che la somma versata in favore del commercialista potesse qualificarsi come ingiusto profitto come previsto dall’art. 640, c.p Segnatamente, il ricorrente ha insistito nel rimarcare l’irrilevanza penale della condotta contestata, giacché la manchevolezza dell’imputato nel gestire la sua attività professionale poteva assumersi - in verità - quale semplice inadempimento contrattuale in tutto attratto nell’orbita civilistica. A ben vedere - ha sottolineato la difesa - le somme in contestazione riflettevano gli estremi del rapporto contrattuale tra i due contraenti, per come risultanti dall’esame delle parcelle presentate negli anni dal commercialista. La Suprema Corte, nel pronunciarsi sulla vicenda, è tornata ad occuparsi dell’annosa questione concernente la configurabilità del reato di truffa nell’ambito di un rapporto negoziale, in specie quando il reato de quo giunga a consumazione nella fase di esecuzione. Nella sentenza in epigrafe torva conferma l’orientamento maturato nel corso degli ultimi anni, in virtù del quale in materia di truffa contrattuale il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto rispetto a quanto inizialmente concordato, tramite condotte simulatorie idonee ad ingenerare un danno con correlativo ingiusto profitto integra l’elemento degli artifizi o raggiri di cui all’art. 640, c.p Il peso del fine specifico il rinnovo del mandato. Non prima di aver confutato la tesi difensiva, la Corte capitolina ha mandato indenne da critica l’apprezzamento reso dai giudici di secondo grado, focalizzando l’attenzione sull’elemento psicologico che ha animato la condotta incriminata. In questi termini, gli Ermellini hanno snidato la rilevanza penale del fatto ponendo l’accento non già sulla causa dell’incameramento delle somme l’attività consulenziale , bensì sull’intento del professionista di voler proseguire il rapporto - con ripetuti rinnovi del mandato - ad ogni costo, anche ricorrendo a false rassicurazioni circa il corretto espletamento della prestazione. Diversamente sarebbe accaduto - spiegano i giudici - allorché dette rassicurazioni fossero state preordinate al solo fine di mascherare eventuali negligenze nella cura degli adempimenti fiscali dell’assistito in questo caso, infatti, la truffa contrattuale non può ritenersi configurata, giusta l’assenza del dolo specifico di voler trarre quell’ingiusto profitto che caratterizza la figura criminosa in analisi. In conclusione, dunque, ai fini della configurabilità del reato di truffa nell’ambito di un rapporto di prestazione d’opera, il profitto illecito dev’essere individuato nel rinnovo del mandato professionale e, conseguentemente, nella percezione del relativo compenso che non sarebbe avvenuto ove il cliente fosse stato messo a conoscenza della inadempienza del professionista, a nulla rilevando se l’esborso del cliente coincida o meno con quanto pattuito all’atto della stipulazione o del rinnovo del contratto.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 11 – 27 novembre 2014, n. 49472 Presidente Petti – Relatore Rago Fatto 1. Con sentenza del 21/11/2013, la Corte di Appello di Caltanissetta confermava la sentenza con la quale, in data 04/10/2011, il giudice monocratico del Tribunale della medesima città aveva ritenuto A.U.P. colpevole del reato di truffa aggravata nei confronti di B.C. per avere, in costanza di rapporto di consulenza fiscale e contabile, omesso di presentare dichiarazioni fiscali del suddetto B. , fornendogli, con artifizi e raggiri, garanzie sulla corretta tenuta della contabilità e degli adempimenti fiscali procurandosi l'ingiusto profitto della percezione, per l'attività fittizia svolta, della somma di Euro 1.735,00. 2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi 2.1. violazione dell'art. 640 cod. pen. il ricorrente sostiene che, nel fatto addebitatogli, sarebbe ravvisabile solo un inadempimento di natura civilistica e non anche il reato di truffa in quanto mancherebbe l'ingiusto profitto tale non potendo essere considerato la modesta somma di Euro 1.735,00 corrisposta, nel corso degli anni, per la sola consulenza fiscale e tributaria di volta in volta richieste in altri termini non risulta in alcun modo che l'A. abbia percepito somme diverse da quelle strettamente professionali, per la tenuta della contabilità fiscale – tributaria” . 2.2. violazione dell'art. 157 cod. pen. il ricorrente sostiene che, comunque, il reato si sarebbe prescritto in quanto la notifica dell'ultima cartella di pagamento era avvenuta nel 2002 2.3. violazione dell'art. 133 cod. pen. per avere la Corte ritenuto congrua la pena inflitta dal primo giudice. Diritto 1. violazione dell'art. 640 cod. pen. la censura è manifestamente infondata. Sono pacifici i seguenti fatti a l'imputato era legato al B. da un contratto di prestazione d'opera intellettuale ex art. 2230 cod. civ. avente ad oggetto la tenuta della documentazione contabile e fiscale della ditta di cui era titolare il B. , nonché la compilazione e presentazione delle dichiarazioni fiscali. L'imputato, in questa sede, ha sostenuto che egli ricevette somme di denaro solo per la tenuta della contabilità fiscale - tributaria. Tuttavia, si tratta di una censura di merito del tutto apodittica che risulta smentita in modo categorico da entrambi i giudici di merito cfr, in particolare, la sentenza di primo grado e che non risulta neppure coltivata con i motivi di appello. Infatti, con il primo motivo di appello, l'imputato ammise di non avere presentato le dichiarazioni dei redditi riconoscendo la gravità del fatto. L'imputato si difese sostenendo che non aveva conseguito un ingiusto profitto in quanto si è sempre occupato anche della predisposizione delle dichiarazioni dei redditi e di altri profili della contabilità del soggetto interessato, comunque da retribuire” cfr primo motivo di appello b per la suddetta prestazione professionale, l'imputato riceveva un determinato compenso consistente in una somma di denaro o in compensazioni con le riparazioni che il B. effettuava alla di lui autovettura c l'imputato non presentò alcuna dichiarazione fiscale cagionando, quindi, al B. , notevoli danni e, ciononostante celò, con artifizi e raggiri descritti analiticamente nel capo d'imputazione e, soprattutto, nella sentenza di primo grado , la sua inadempienza al B. continuando, quindi, a rimanere consulente finché, alla fine, l'inadempienza venne scoperta. La fattispecie in esame, come correttamente ritenuto da entrambi i giudici di merito, va qualificata come truffa contrattuale consumata nel corso dell'esecuzione contrattuale. Questa Corte di legittimità, infatti, ha ripetutamente ritenuto che in materia di truffa contrattuale il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l'altra parte, con condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l'elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all'art. 640 cod. pen.” explurimis Cass. 41073/2004 Rv. 230689. Il ricorrente, come si è detto, articola la sua difesa su due piani a non vi sarebbe la prova che egli era stato pagato anche per la presentazione delle dichiarazioni fiscali b non sarebbe configurabile alcun ingiusto profitto elemento materiale essenziale per la configurabilità del reato di truffa tale non potendo essere considerato la modesta somma di Euro 1.735,00 corrisposta, nel corso degli anni, per tutta l'attività di consulenza prestata. La censura, nei termini in cui è stata dedotta, è mal posta e fuorviante. La censura sub a , come si è già detto, è inammissibile, trattandosi di censura in fatto, nuova e, comunque, non coltivata neppure in appello. La doglianza sub b , una volta ritenuto - così come stabilito da entrambi i giudici di merito - che, nel contratto di prestazione professionale era compresa anche la compilazione e presentazione delle dichiarazioni fiscali, è fuorviante perché il ricorrente non considera che l'ingiusto profitto che trasse dalla condotta truffaldina artifizi e raggiri consistette proprio nel fatto che il B. , continuando a fidarsi delle rassicurazioni ingannevoli dell'imputato, gli rinnovò il mandato professionale e, quindi, continuò a pagarlo poco o molto, è irrilevante ai fini della configurabilità del delitto la qual cosa non avrebbe di certo fatto se l'imputato, lealmente, avesse ammesso la negligenza professionale e l'inadempimento in cui era incorso. Ed è proprio per tale motivo che il ricorrente correttamente è stato ritenuto colpevole del reato di truffa contrattuale perché, ove gli artifizi e raggiri fossero stati effettuati al solo fine di celare al cliente il danno che era stato provocato dalla negligente condotta, la truffa non sarebbe stata ipotizzabile ex plurimis Cass. 17106/2011 Rv. 250250. La censura, va, quindi, disattesa alla stregua del seguente principio di diritto il professionista che, per nascondere una propria inadempienza, compia artifizi e raggiri nei confronti del cliente, che, quindi, all'oscuro dell'inadempienza, gli rinnovi il mandato professionale continuando a retribuirlo, commette il reato di truffa contrattuale nel corso dell'esecuzione del contratto di prestazione d'opera intellettuale. L'ingiusto profitto va individuato nel rinnovo del mandato professionale e nella percezione del relativo compenso, rinnovo che non sarebbe avvenuto ove il cliente fosse stato messo a conoscenza della inadempienza in cui il professionista era incorso” . 2. violazione dell'art. 157 cod. pen. la censura è generica e fuorviante nei termini in cui è stata dedotta. Il ricorrente, infatti, sostiene che il dies a quo dal quale far decorrere il termine ultimo per la prescrizione coincide con la notifica dell'ultima cartella di pagamento avvenuta nel 2002 perché in tale data si sarebbe verificato l'effetto della truffa. Al che deve replicarsi che il ricorrente confonde il danno subito dal B. a seguito della sua inadempienza accertamenti fiscali per notevoli importi con la consumazione del reato di truffa. Invero, come questa Corte ha reiteratamente statuito, il reato di truffa contrattuale si consuma nel momento in cui si realizza il conseguimento del bene da parte dell'agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa ex plurimis Cass. 20025/2011 Rv. 250358 Cass. 49932/2012 Rv. 254110 il che, nella fattispecie in esame, corrisponde all'ultima retribuzione percepita dall'imputato ovvero nel momento in cui il B. risolse il contratto una volta che scoprì l'inadempienza di cui l'imputato si era reso colpevole. Sul punto, l'imputato nulla ha dedotto, né alcunché si desume da entrambe le sentenze di merito. L'unico dato utile risulta dal capo d'imputazione che ferma la condotta fraudolenta all'anno 2006. La declaratoria di inammissibilità preclude la rilevabilità della prescrizione in applicazione del principio di diritto secondo il quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto d'impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p.” ex plurimis SSUU 22/11/2000, De Luca, Riv 217266 - Cass. 4/10/2007, Impero. Stessa regola vale nell'ipotesi in cui, in ipotesi, la prescrizione fosse maturata prima dell'impugnata sentenza, dovendosi ribadire il principio secondo il quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice” SSUU 23428/2005 riv 231164 Cass. 6693/2014 riv 259205 Cass. 25807/2014 riv 259202. Alla declaratoria d'inammissibilità consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00. P.Q.M. DICHIARA inammissibile il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.