Se la “cosa” non è più “altrui”, il reato non sussiste

L’appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua la cosiddetta interversione del possesso, che consiste nell’attuare sul bene di proprietà altrui atti di disposizione uti dominus e, quindi, nell’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Quando però la cosa, in base al contratto, non sia più altrui, non si può configurare appropriazione indebita.

E’ stato così deciso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 44557, depositata il 27 ottobre 2014. Il caso. La Corte d’appello, riqualificato il fatto di reato, inizialmente contestato ai sensi dell’art. 640 c.p. truffa , ai sensi dell’art. 646 c.p. appropriazione indebita , confermava nel resto la sentenza impugnata, di condanna dei ricorrenti per aver indebitamente trattenuto gioielli di proprietà della persona offesa, da quest’ultima depositati al banco dei pegni. I giudici di merito, in particolare, avevano accertato che tra la persona offesa, debitrice degli imputati, e questi, era intercorso un accordo transattivo in esecuzione del quale la p.o. aveva consegnato agli imputati delle polizze per svincolare i gioielli in questione, dietro l’accordo orale, poi non rispettato dagli imputati, della restituzione dei gioielli per il valore eccedente il debito, che con questa operazione la p.o. pagava agli imputati. Riqualificazione del fatto il diritto di difesa era stato violato? Gli imputati ricorrevano in Cassazione lamentando la violazione del diritto di difesa a seguito della riqualificazione del fatto da truffa ad appropriazione indebita. In tal modo, infatti, secondo i ricorrenti, sarebbe stato compromesso il diritto di difesa con riguardo sia alla prova di alcuni elementi di fattispecie, sia con riguardo alla commisurazione della pena, stabilita dal primo giudice per il delitto più grave di truffa e semplicemente confermata in sede di appello nonostante l’intervenuta riqualificazione del fatto secondo una fattispecie di minore gravità. Non era stata inserita la clausola di restituzione di parte dei gioielli riscattati In base alla ricostruzione dei fatti, le parti giunsero alla sottoscrizione di un accordo che prevedeva la cessione e la consegna di alcune polizze da parte della debitrice ai creditori, per svincolare i gioielli detenuti presso il banco dei pegni. In seguito, vi era stato un accordo orale tra le parti, che obbligava i creditori a restituire alla donna una parte dei gioielli. Tuttavia tale clausola non fu mai aggiunta al contratto. Alla stregua di tale ricostruzione l’unica fonte di obbligazione tra le parti restava – specifica la Cassazione – il contratto validamente stipulato ed esattamente eseguito dagli imputati. Difatti, in capo a questi non gravava nessun obbligo di restituzione di parte dei gioielli i quali erano stati riferiti a polizze che la parte civile aveva trasferito, in esecuzione del contratto agli imputati. i gioielli, quindi, non erano cosa altrui”. In conclusione chiarisce la Cassazione – i gioielli ritirati presso il banco dei pegni in forza dei titoli rappresentativi lecitamente acquistati, non erano cosa altrui, non erano quindi della persona offesa. Infatti l’appropriazione indebita – dice la Cassazione si verifica nel momento in cui il detentore attua la cosiddetta interversione del possesso, che consiste nell’attuare sul bene di proprietà altrui atti di disposizione uti dominus e, quindi, nell’intenzione di convertire il possesso in proprietà . Ma, nel caso di specie, non può sostenersi che i beni dedotti nelle polizze cedute agli imputati permanessero ancora nella proprietà della p.o., essendo stati acquistati ai sensi dell’art. 1376 c.c. contratti con effetti reali . Non si era quindi realizzata la fattispecie appropriativa. Sulla base di tali argomenti, la Cassazione annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 3 – 27 ottobre 2014, n. 44557 Presidente Casucci – Relatore Di Marzio Ritenuto in fatto Con la sentenza oggi impugnata la corte di appello di Catania, riqualificato il fatto di reato, inizialmente contestato sensi dell'art. 640 cod. pen., ai sensi dell'art. 646 cod. pen., ha confermato nel resto la sentenza del tribunale della medesima città in data 23 ottobre 2011, di condanna degli odierni ricorrenti per aver indebitamente trattenuto gioielli di proprietà della persona offesa da quest'ultima depositati al banco dei pegni. In particolare, i giudici di merito hanno accertato che tra la persona offesa, debitrice degli odierni imputati, e questi ultimi, era intercorso un accordo transattivo in esecuzione del quale la persona offesa consegnò agli imputati delle polizze per svincolare i gioielli in questione dietro l'accordo - concluso a voce ma non trascritto nel documento contrattuale - poi non rispettato dagli imputati, della restituzione dei gioielli per il valore eccedente al debito di euro 27.000 che con quest'operazione la persona offesa pagava agli imputati. P.C., M.G. e C.L., presentano tre separati ma identici ricorsi in proprio, contestando violazione di legge di motivazione 1. per violazione del diritto di difesa a seguito della riqualificazione del fatto da truffa ad appropriazione indebita. Si lamenta che in tal modo sarebbe stato compresso il diritto di difesa degli imputati, sia con riguardo alla prova di taluni elementi di fattispecie quali la sproporzione tra il valore dei beni oggetto di polizza e il debito della persona offesa verso gli imputati, da cui emergerebbe l'oggetto della appropriazione indebita medesima sia con riguardo alla commisurazione della pena, stabilita dal primo giudice circa il più grave delitto di truffa e semplicemente confermata in sede di appello nonostante l'intervenuta riqualificazione dei fatto secondo una fattispecie di minore gravità 2. per insussistenza della prova dell'appropriazione indebita in parola, non risultando dal contratto scritto tra le parti l'obbligo di restituzione vantato dalla persona offesa e asseritamente concluso per via orale 3. per l'acritica adesione del giudice di merito alla versione dei fatti narrata dalla parte offesa costituitasi parte civile e perciò portatrice di interessi e rivendicazioni patrimoniali e non riscontrate dal documento contrattuale depositata in atti 4. per omessa motivazione circa la sussistenza dell'aggravante dell'ingente danno patrimoniale 5. per omessa motivazione sulla questione, sollevata articolatamente negli atti difensivi, della tardività della querela presentata dalla persona offesa 6. per l'erroneità della motivazione confermativa dei danni civili 7. per l'erroneità e la mancanza di motivazione circa la dosimetria della pena 8. per la mancata dichiarazione di estinzione dei reato per intervenuta prescrizione. Nel ricorso del P. si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione per omessa raccolta di una prova decisiva, e illegittima revoca di tale prova già ammessa nella specie, della testimonianza di Nanni Elio circa il valore effettivo degli oggetti preziosi dedotti nelle polizze consegnate dalla persona offesa gli imputati. Questo doglianza è invece ampiamente argomentata nell'ulteriore ricorso presentato nell'interesse di M.G. e C.L., in cui pure si ribadisce la lamentela circa la mancata prova dell'ingiusto profitto relativo alla transazione intercorsa tra la persona offesa e gli imputati la mancata prova circa l'effettivo contenuto di detto accordo attesa anche la inattendibilità della persona offesa le cui dichiarazioni si sono rivelate prive di riscontri estrinseci la violazione del diritto di difesa anche sensi dell'art. 6 CEDU giacché a seguito della mancata assunzione del teste Nani a discarico degli imputati questi ultimi non sarebbero stati messi in condizione di contraddire sui requisiti oggettivo e soggettivo richiesti dell'art. 646 cod. pen. per la integrazione del delitto di appropriazione indebita Considerato in diritto I ricorsi sono infondati giacché il fatto non sussiste. Nel quarto foglio della sentenza impugnata così la corte territoriale descrive la fattispecie concreta dando credito al racconto della parte civile al fine di estinguere il debito che aveva verso gli imputati, quest'ultima giunse ad un accordo in virtù del quale ella avrebbe ceduto e consegnato loro le polizze necessarie per svincolare i gioielli detenuti presso il banco dei pegni in cambio le sarebbero stati restituiti alcuni assegni emessi ma rimasti privi di copertura. A tal riguardo, fu sottoscritto ed è depositato in atti un contratto redatto proprio in questi termini. Aggiunge tuttavia la parte civile che l'accordo verbale intercorso con gli imputati comprendeva una ulteriore clausola, che li obbligava a restituire alla parte civile una parte dei gioielli riscattati precisamente, non i gioielli acquistati dagli imputati bensì i gioielli di famiglia depositati insieme agli altri al banco dei pegni. Puntualizza, inoltre, la parte civile che tale clausola aggiuntiva non fu inserita nel contratto giacché le parti si accordarono per effettuare questa integrazione in un secondo momento. Invece, gli imputati si sottrassero sempre a questo incombente. Da questa stessa narrazione, totalmente accreditata nella sentenza impugnata nella ricostruzione della fattispecie concreta, qualificata dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 646 cod. pen., si evince che le parti giunsero alla sottoscrizione di un accordo, a tal punto fonte di obbligazione tra le stesse, impegnandosi ulteriormente ad integrarlo con una clausola che invece non fu mai aggiunta. Cosicché, impregiudicata ogni ulteriore questione in tema di responsabilità civile per il mancato adempimento di questo ulteriore impegno, fonte di obbligazione tra le parti resta il contratto, validamente stipulato ed esattamente eseguito dagli imputati, nessun obbligo giuridico gravava, in capo agli stessi, in ordine alla restituzione di parte dei gioielli i quali erano riferiti a polizze che la parte civile aveva trasferito, in esecuzione del contratto in esame, agli imputati. In particolare, non potrebbe sostenersi che i gioielli ritirati presso il banco dei pegni in forza dei titoli rappresentativi lecitamente acquistati, fossero cosa altrui, ossia beni appartenenti alla parte civile. Poiché l'appropriazione indebita si verifica nel momento in cui il detentore attua la cosiddetta interversione del possesso, che consiste nell'attuare sul bene di proprietà altrui atti di disposizione uti dominus e, quindi, nell'intenzione di convertire il possesso in proprietà, e poiché non potrebbe nel caso in esame sostenersi che, concluso il contratto scritto, i beni dedotti nelle polizze cedute agli imputati permanessero ancora nella proprietà della persona offesa essendo stati acquistati, per essere oggetto delle polizze in parola, in forza della regola dell'art. 1376 cod. civ., nel patrimonio degli imputati , la fattispecie appropriativa non si è storicamente realizzata. Ne discende l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.