Arredare casa come un museo è possibile, ma solo con reperti acquistati prima del 1909

Il possesso di beni di interesse archeologico, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, si presume illegittimo, se il detentore non fornisce la dimostrazione di averli legittimamente acquistati prima dell’entrata in vigore della l. n. 364/1909.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 43569, depositata il 20 ottobre 2014. Il caso. La Corte d’appello di Milano assolveva un imputato dal reato di illecito impossessamento di oggetti di interesse archeologico, confermando la restituzione del materiale alla Sovrintendenza dei Beni Archeologici di Milano. I reperti erano venuti in luce prima del 1909 e costituivano beni di interesse archeologico appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, in base agli artt. 10 e 91 d.lgs. n. 42/2004 codice dei beni culturali e del paesaggio . Il possesso era, quindi, stato ritenuto illegittimo, in quanto l’imputato non aveva provato il legittimo acquisto dei suoi aventi causa in epoca antecedente all’entrata in vigore della l. n. 364/1909, disciplinante l’inalienabilità delle antichità. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata restituzione dei beni a suo giudizio, il d.lgs. n. 42/2004 stabilisce che appartengano allo Stato i beni ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini dopo l’entrata in vigore della l. n. 364/1909. Perciò, essi i reperti dovevano essergli restituiti, in quanto non erano provenienti da opere di scavo ed erano venuti in luce prima della l. n. 364/1909. La prova del possesso a data anteriore alla l. n. 364/1909 era quindi irrilevante, perché, se la proprietà non era all’origine dello Stato, era sufficiente che lui ed i suoi danti causa ne avessero acquistato la proprietà in qualsiasi modo nel caso di specie, per successione ereditaria. Presunzione di illegittimità. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ribadisce che il possesso di beni di interesse archeologico, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, si presume illegittimo, se il detentore non fornisce la dimostrazione di averli legittimamente acquistati prima dell’entrata in vigore della l. n. 364/1909. Onere della prova. Per l’accertamento del reato di impossessamento illecito di beni culturali, non è certo il privato a dover provare la legittima provenienza dei beni detenuti. Ciò, però, vale nell’ambito del processo penale, mentre, nel caso di specie, la disciplina era quella civilistica, secondo cui, in base al principio sull’onere della prova ex art. 2697 c.c., va individuato il soggetto che ha diritto alla restituzione. Perciò, il ricorrente era gravato dall’onere di provare il fatto fondamentale posto alla base della domanda, cioè il possesso dei suoi danti causa anteriore alla l. n. 364/1909 onere non assolto, però, dal ricorrente. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 settembre – 20 ottobre 2014, n. 43569 Presidente Fiale – Relatore Orilia Ritenuto in fatto La Corte d'Appello di Milano, con sentenza 27.9.2013, riformando parzialmente quella di primo grado, ha assolto L.G.C. dal reato di illecito impossessamento di oggetti di interesse archeologico confermando la restituzione del materiale in sequestro alla Sovrintendenza dei Beni Archeologici di Milano. Per quanto interessa in questa sede, la Corte milanese ha osservato che i reperti, valutati come autentici capitelli romani dalle archeologhe del Ministero dei Beni Culturali e della Sovrintendenza, erano venuti in luce prima del 1909 e costituivano beni di interesse archeologico appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato secondo il disposto degli artt. 10 e 91 della legge n. 42/2004 . Ha quindi fatto applicazione della presunzione di illegittimità del possesso, mancando la prova - a carico del detentore - del legittimo acquisto da parte dei suoi aventi causa in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 364/1909. 2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell'imputato dolendosi della mancata restituzione dei beni al suo assistito e deduce, a sostegno dell'impugnazione, due motivi. Considerato in diritto 1. Con un primo motivo denunzia la violazione degli artt. 10 e 91 del D.Lvo n. 42/2004 e degli artt. 262 e 263 cpp nonché il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Premessa una ricostruzione del quadro normativo, il ricorrente rileva in particolare che, per effetto dell'art. 91 D. Lvo n. 42/2004, appartengono allo Stato le cose indicate nell'art. 10 da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini dopo l'entrata in vigore della legge 364/1909, per cui i beni dovevano essergli restituiti perché non provenienti da opere di scavo e comunque venuti in luce prima della legge 364/1909. Evidenzia il comportamento del Ministero dei Beni Culturali che non ha chiesto la restituzione né si è costituito parte civile e ritiene che l'archeologa D.R. abbia escluso trattarsi di materiali da scavo , come tali rilevanti per rivendicarne la proprietà statale. Ritiene irrilevante la prova del possesso da parte del L. o dei suoi danti causa a data anteriore alla legge 364/1909 poiché se la proprietà di detti beni non era all'origine dello Stato ciò che rileva è che lui e i suoi danti causa ne avessero acquistato la proprietà in qualunque modo il che era pacificamente avvenuto avendo egli - secondo la stessa Corte d'Appello - ricevuto i beni per successione ereditaria. Col secondo motivo il ricorrente denunzia la mancanza di motivazione in ordine alla qualità di beni culturali e, in particolare sulla qualificazione dei reperti come autentici capitelli romani richiama in proposito le conclusioni del consulente tecnico della difesa che, discostandosi da quelle a cui era pervenuta la Dott.ssa C. , archeologo del Ministero dei Beni culturali, aveva ritenuto trattarsi di reperti di epoca medievale realizzati in Francia e Germania da maestranze di non eccelso livello quantitativo. Rimprovera alla Corte d'Appello di non avere preso in esame le censure mosse con l'atto di appello, né le motivazioni espresse dal Tribunale sulla qualificazione dei reperti né le conclusioni del Procuratore Generale rese all'udienza del 27.9.2013, né, infine, di avere preso in considerazione l'opportunità di disporre - al fine di individuare l'avente diritto alla restituzione - accertamenti di ufficio sulla qualificazione dei reperti ai sensi dell'art. 603 comma 3 cpp o di rimettere la risoluzione al giudice civile ai sensi dell'art. 263 cpp. Osserva che la restituzione è stata disposta in favore della Sovrintendenza che non ha chiesto la restituzione e neppure ha rivendicato la proprietà statale dei beni in sequestro. 2. Entrambe le censure sono infondate. Quanto al dedotto vizio di motivazione, il giudice di merito ha ritenuto, sulla scorta delle conclusioni delle Dott.sse D.R. e B. che i reperti sono capitelli romani venuti in luce prima del 1909. Trattasi di accertamento in fatto congruamente motivato, perché basato sulle conclusioni delle archeologhe, rispettivamente, del Ministero e della Sovrintendenza ai Beni Culturali di cui è stato sintetizzato il contenuto. Da tali premesse fattuali, la Corte di merito ha desunto la qualifica di beni di interesse archeologico appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato ai sensi degli artt. 10 e 91 della legge n. 42/2004. La Corte di merito ha dato anche una interpretazione plausibile dell'espressione non materiale da scavo utilizzata dalla Dott.ssa D.R. nella sua deposizione, laddove l'ha collegata al reimpiego e non all'originario rinvenimento, perché l'archeologa ha usato l'espressione venuti alla luce , facendo riferimento alla originaria scoperta dei capitelli. Quindi non ha escluso che derivassero da scavo. La conclusione non è dunque sindacabile in questa sede perché il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene solo alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo. Al giudice di legittimità è infatti preclusa - in sede di controllo sulla motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa . Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione Cass. Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011 Ud. dep. 14/03/2012 Rv. 252349 . Infondato è anche l'altro motivo con cui si denunzia la violazione di legge. Come già affermato da questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 49439 del 04/11/2009 Cc. dep. 23/12/2009 Rv. 245743 , il possesso di beni di interesse archeologico, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, si presume illegittimo a meno che il detentore fornisca la dimostrazione di averli legittimamente acquistati in epoca antecedente alla entrata in vigore della L. n. 346 del 1909. Per quanto concerne il riparto dell'onere probatorio, è vero che, per l'accertamento del reato di impossessamento illecito di beni culturali, valgono le normali regole processuali per cui non deve essere il privato a fornire la prova della legittima provenienza dei beni detenuti. Tale regola, però, è valida nell'alveo del processo penale e non nel caso in esame che è disciplinato dalle norme processuali civili alla luce delle quali ed in particolare del principio sancito dall'art. 2697 cc. va individuato il soggetto che ha diritto alla restituzione cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 49439/2009 cit. in motivazione . Pertanto il L. era gravato dall'onere, non assolto, di provare il fatto fondamentale posto alla base della sua domanda, cioè, il possesso dei suoi danti causa, anteriore alla L. n. 364 del 1909 e una tale circostanza non si desume da nessun atto del processo. Per le esposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.