Dissesto finanziario causato da fatture false: punibile il manager

L’amministratore della società che emette fatture false provocando la crisi finanziaria della società è punibile del reato di bancarotta quest’ultimo è un reato fallimentare punibile per dolo generico e come tale è sufficiente che il manager abbia accettato il rischio facendo operazioni di fatturazioni false.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 40009, del 26 settembre 2014, ha condannato un manager di società per il reato di bancarotta fraudolenta per i giudici di legittimità l’imprenditore che ha provato il dissesto della società emettendo fatture false risponde di tale reato, in quanto è punibile per dolo generico ed è sufficiente che il manager fosse a conoscenza che dal comportamento fiscalmente evasivo ne derivava un danno nei confronti dell’erario. Il caso. La Procura della Repubblica contestava il fatto che due soggetti, nella qualità di amministratori di diverse società, avevano con il proprio operato causato il fallimento di una delle società amministrate, per effetto di operazioni dolose consistite nel porre in essere un meccanismo di frode fiscale che consentiva alla società di ottenere credito d'imposta, facendo emettere fatture per operazioni inesistenti, da altre società cartiere” che facevano capo agli imputati e costituite a tale scopo, e di ottenere un plafond per acquisti in sospensione di imposta, attraverso l'emissione di fatture per operazioni inesistenti verso società, anche queste riferibili agli amministratori/imputati, localizzate in paesi della comunità europea. Tali operazioni avevano consentito alla società fallita di acquisire la qualifica di esportatore abituale, ottenendo finanziamenti bancari con distrazione dalle casse sociali di consistenti liquidità per un ammontare complessivo superiore a 2.500.000.000 delle vecchie lire. In particolare la società fallita, sulla base delle indicazioni fornite dal curatore e dagli altri testi escussi in primo grado, risultava acquistare i prodotti da società amministrate da uno dei due imputati, prive di struttura operativa e che avevano emesso fatture nei confronti della stessa società fallita, per oltre venti miliardi delle vecchie lire. Le fatture provenivano da società inglesi che avevano cessato la propria attività all'inizio del controllo fiscale il meccanismo aveva attribuito alla società fallita la possibilità di acquisire la qualifica di esportatore abituale, che le consentiva di operare cessioni all’'interno della comunità in esenzione di Iva, che veniva poi scaricata sulle società che facevano capo ad uno degli imputati/amministratore. In questo modo la società fallita aveva registrato un risultato economico utile, ma un saldo di cassa negativo, pari alle somme depositate sui conti esteri e quantificate, alla data del sequestro in lire 2.430.000.000 su conti esteri. A seguito dell'arresto degli imputati è intervenuta la crisi della società e il fallimento, che traeva origine da fatti negativi che avrebbero comunque comportato la perdita del capitale, già dall'anno 1997. La Corte di appello ha condannato gli amministratori che sono ricorsi in Cassazione. Il dolo nel reato di bancarotta fraudolenta è generico e non specifico. I giudici di legittimità osservano che la sentenza della Corte di Appello è corretta la responsabilità degli imputati, derivante dalla programmazione, partecipazione ed esecuzione di frodi fiscali, è stata penalmente sanzionata quale ipotesi di bancarotta, poiché gli imputati per effetto di operazioni dolose hanno determinato il fallimento della società. Va ricordato che, poiché il fallimento non deve necessariamente e intenzionalmente essere voluto quale conseguenza della condotta, non sussiste contrasto razionale tra compimento di operazioni dolose nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti , per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento e interesse alla società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l'elemento psicologico delle predette operazioni e il rapporto causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la mera consapevolezza di quest'ultimo quale possibile esito anche della propria condotta, e quindi l'assunzione del relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti . Il dolo nel reato di bancarotta fraudolenta è generico e non specifico e si realizza anche quando l'agente sia mosso soltanto dal proposito di procurare un profitto, per cui il reato sussiste anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere solo allo scopo di realizzare una frode fiscale, risolvendosi pur sempre quest'ultima in un profitto, certamente ingiustificato. I giudici di merito hanno correttamente evidenziato che oggetto dei fatti contestati agli amministratori è la circostanza di avere determinato il fallimento della società, per effetto di operazioni dolose costituite dal meccanismo di frode fiscale, ricostruito oggettivamente e documentalmente dalla Guardia di Finanza e non contestato dai ricorrenti, che hanno ammesso la propria consapevole partecipazione a quelle operazioni. Il reato di bancarotta impropria, contestato agli imputati, trova fondamento proprio nella diretta correlazione causale tra il meccanismo di frode fiscale, realizzato dagli imputati attraverso l'emissione di fatture per operazioni inesistenti e la costituzione di apposite società fittizie amministrate, e il conseguente fallimento di una società. È evidente che nella nozione di operazioni dolose di cui all'articolo 223, n. 2, della Legge Fallimentare rientrano, non soltanto i fatti costituenti reato, ma qualsiasi comportamento dei titolari del potere sociale che, si traduca in un abuso, in una infedeltà delle funzioni o nella violazione dei doveri derivanti dalla qualità ricoperta e che determini lo stato di decozione della società . Conseguentemente, le operazioni dolose vanno ravvisate in qualunque atto di natura patrimoniale, compiuto con violazione dei doveri, con l'intenzione di conseguire, per sé o altri, un profitto a danno dei creditori o della società, come nell'ipotesi di frode fiscale realizzata attraverso il meccanismo descritto nel capo di imputazione. A tal fine, perché possa dirsi integrata la contestata fattispecie, è sufficiente il dolo generico, quale scienza e volontà della operazione pericolosa per la salute economica e finanziaria della società. In questi termini, tali atti sono certamente operazioni dolose . La Corte di Cassazione, in conclusione, rigetta i ricorsi e condanna l’amministratore ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 23 aprile – 26 settembre 2014, n. 40009 Presidente Dubolino – Relatore Positano Ritenuto in fatto 1. A CR, nella qualità di amministratore di fatto, a OR quale amministratore di diritto della società TVS S.p.A. ed a CG quale amministratore di diverse società cartiere , in concorso con altri, è stato contestato di avere cagionato il fallimento della società TVS S.p.A., per effetto di operazioni dolose consistite nel porre in essere un meccanismo di frode fiscale che consentiva alla società di ottenere credito d'imposta, facendo emettere fatture per operazioni inesistenti, da altre società cartiere che facevano capo agli imputati e costituite a tale scopo, e di ottenere un plafond per acquisti in sospensione di imposta, attraverso l'emissione di fatture per operazioni inesistenti verso società, anche queste riferibili agli imputati, site in paesi della comunità europea. Tali operazioni avevano consentito alla TVS S.p.A. di acquisire la qualifica di esportatore abituale, ottenendo finanziamenti bancari con distrazione dalle casse sociali di consistenti liquidità per un ammontare complessivo superiore a lire 2.500.000.000. 2. In particolare, TVS S.p.A., sulla base delle indicazioni fornite dal curatore e dagli altri testi escussi in primo grado, risultava acquistare i prodotti da società amministrate da CG, ma prive di struttura operativa e che avevano emesso fatture nei confronti di TVS S.p.A. per oltre 20 miliardi negli anni 1997 e 1998. Le fatture provenivano da società inglesi che avevano cessato la propria attività all'inizio del controllo fiscale e di cui C era direttore tecnico. Il meccanismo aveva attribuito alla società fallita la possibilità di acquisire la qualifica di esportatore abituale, che le consentiva di operare cessioni aH'interno della comunità in esenzione di Iva, che veniva poi scaricata sulle società che facevano capo a CG. In questo modo la società fallita aveva registrato un risultato economico utile, ma un saldo di cassa negativo, pari alle somme depositate sui conti esteri e quantificate, alla data del sequestro in lire 2.430.000.000 su conti esteri. A seguito dell'arresto degli imputati è intervenuta la crisi della società e il fallimento, che traeva origine da fatti negativi che avrebbero comunque comportato la perdita del capitale già dall'anno 1997, poiché la situazione era già stata oggetto di ripetuti rilievi da parte del collegio sindacale, successivamente sostituito da OR. 3. Avverso la decisione della Corte d'Appello di Milano del 17 aprile 2012, propone ricorso per cassazione il difensore di CR lamentando 4. vizio di motivazione, in quanto le condotte di natura fiscale non possono costituire anche distrazione ai fini del reato di bancarotta fraudolenta 5. vizio di motivazione riguardo al trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente 6. errata applicazione di una norma di legge per avere i giudici di merito attribuito al ricorrente la violazione, per due volte, della medesima disposizione. 7. OR propone ricorso per cassazione avverso la medesima decisione lamentando 8. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo b , deducendo circostanze di fatto contrarie alla tesi della distrazione 9. violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai capi a e b riguardo alla determinazione della pena 10. violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai medesimi capi di imputazione riguardo al giudizio di comparazione tra aggravanti e attenuanti. 11. CG propone ricorso per cassazione avverso la medesima decisione formulando motivi analoghi a quelli di CR in ordine al vizio di motivazione sul divieto di violazione della medesima disposizione, nonché violazioni di legge e vizio di motivazione riguardo al concorso nel reato dell' extraneus riguardo alla prova della conoscenza delle conseguenze fallimentari dell'attività posta in essere da TVS S.p.A. Considerato in diritto La sentenza impugnata non merita censura 1. Con il primo e terzo motivo proposti dalla difesa di CR e con il primo motivo del ricorso di CG gli istanti lamentano che la Corte territoriale non avrebbe considerato che le perdite registrate, costituendo reati di natura fiscale, non possono avere rilievo anche in termini di distrazione ai fini del reato di bancarotta fraudolenta, poiché la norma non può essere violata due volte. Tale vizio, rileverebbe anche in termini di violazione di legge, poiché i giudici di merito hanno ritenuto che, dalla medesima condotta, sia derivato, sia il depauperamento della società, di cui al capo a , sia la distrazione di fondi sociali, di cui al capo b , con conseguente divieto di violazione, per due volte, della medesima disposizione. 2. La censura è infondata. Come correttamente evidenziato dalla corte territoriale la responsabilità degli imputati, derivante dalla programmazione, partecipazione ed esecuzione di frodi fiscali, è stata penalmente sanzionata quale ipotesi di bancarotta, poiché gli imputati per effetto di operazioni dolose hanno determinato il fallimento della società. Va ricordato che, poiché il fallimento non deve necessariamente e intenzionalmente essere voluto quale conseguenza della condotta, non sussiste contrasto logico tra compimento di operazioni dolose nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti , per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento e interesse alla società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l'elemento psicologico delle predette operazioni e il rapporto causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la mera consapevolezza di quest'ultimo quale possibile esito anche della propria condotta, e quindi l'assunzione del relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti. Sez. 1, n. 3942 del 13/12/2007 - dep. 24/01/2008, Muratori ed altro, Rv. 238367 . Il dolo nel reato di bancarotta fraudolenta è generico e non specifico e si realizza anche quando l'agente sia mosso soltanto dal proposito di procurare un profitto, sicché il reato sussiste anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere solo allo scopo di realizzare una frode fiscale, risolvendosi pur sempre quest'ultima in un profitto, certamente ingiustificato Cass. sez. Ili 28 febbraio 1992 . Come rilevato dalla Corte territoriale non si pone nel caso dì specie un problema di duplicazione delle sanzione per le medesime condotte poiché, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, difetta la sovrapponibilità tra la condotta della frode fiscale e quella della bancarotta, per cui la clausola di sussidiarietà non può trovare applicazione. 3. Come ribadito da questa Corte, nel caso di specie non opera neppure il criterio di specialità che riguarda l'ipotesi di legge speciale che interviene a regolare una materia già regolata da altra precedente normativa di carattere generale . Il caso in esame esula, all’evidenza, da tale ambito, dal momento che la legislazione fiscale e quella fallimentare sono entrambe speciali e non si pongono quindi in rapporto di specialità l’una con l'altra, nè vanno a disciplinare la stessa materia, essendo la seconda diretta a tutelare interessi differenti la pretesa fiscale ed il buon esito delle procedure di riscossione, da una parte, e la tutela dei creditori, pubblici e privati, in ambito concorsuale, dall'altra . E' necessario, inoltre, che la norma speciale contenga tutti gli elementi compresi in quella generale, cosicché se non esistesse la norma speciale, la fattispecie rientrerebbe nella norma generale. Non ricorre neppure il presupposto della stessa oggettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare tutti la medesima materia ed avere identità di struttura cfr. Cass. SS.UU. 1963/2011 . Al contrario, Sez. 4, n. 35773 del 06/06/2001, Rv. 219970 sussiste concorso materiale quando i reati hanno diversa natura nel nostro caso di pericolo e di evento , diverso elemento soggettivo dolo specifico per la sottrazione fraudolenta e dolo generico per la bancarotta distrattiva e tutelano interessi diversi. 4. I giudici di merito hanno correttamente evidenziato che oggetto dei fatti contestati al capo a è la circostanza di avere determinato il fallimento della società per effetto di operazioni dolorose costituite dal meccanismo di frode fiscale, ricostruito oggettivamente e documentalmente dalla Guardia di Finanza e non contestato dai ricorrenti, che hanno ammesso la propria consapevole partecipazione a quelle operazioni. Il reato di bancarotta impropria, contestato agli imputati, trova fondamento proprio nella diretta correlazione causale tra il meccanismo di frode fiscale realizzato dagli imputati attraverso l'emissione di fatture per operazioni inesistenti e la costituzione di apposite società fittizie amministrate da C, e lo stato di decozione fallimentare della S.p A. T.V.S. È evidente che nella nozione di operazioni dolose di cui all'articolo 223, n. 2 della legge fallimentare rientrano, non soltanto i fatti costituenti reato, ma qualsiasi comportamento dei titolari del potere sociale che, si traduca in un abuso, in una infedeltà delle funzioni o nella violazione dei doveri derivanti dalla qualità ricoperta e che determini lo stato di decozione della società. Conseguentemente, le operazioni dolose vanno ravvisate in qualunque atto di natura patrimoniale, compiuto con violazione dei doveri, con l'intenzione di conseguire, per sé o altri, un profitto a danno dei creditori o della società, come nell'ipotesi di frode fiscale realizzata attraverso il meccanismo descritto nel capo di imputazione. A tal fine, perché possa dirsi integrata la contestata fattispecie, è sufficiente il dolo generico, quale scienza e volontà della operazione pericolosa per la salute economica e finanziaria della società. In questi termini, tali atti sono certamente operazioni dolose . 5. Anche la doglianza relativa all'assenza del nesso causale è infondata, risultando documentalmente il collegamento diretto tra le operazioni fiscalmente illecite effettuate e il dissesto della società. I dati di bilancio, analizzati dal curatore, come evidenziato dal Tribunale, cui la Corte territoriale rinvia confermano tale ricostruzione e consentono di superare la tesi prospettata dalla difesa, che attribuisce dell'arresto degli amministratori e al sequestro della contabilità, la ragione del dissesto, dovendosi, invece, evidenziare che, trattandosi di attività illecita, era oggettivamente prevedibile che essa potesse essere interrotta, con le conseguenze sopra descritte, dall'intervento dell'autorità giudiziaria. 6. Va ricordato che le indagini espletate dalla Guardia di Finanza hanno documentato la natura fittizia delle società estere collegate a quella fallita, le quali rivestivano il ruolo di scatole vuote, destinate a procurare un domicilio fiscale comunitario, al fine di scaricare alienazioni onerose di beni, acquistati e venduti in regime di esenzione fiscale. Dalla natura fittizia delle società è stata correttamente dedotta l'inesistenza oggettiva delle società estere e la conseguente sussistenza di frodi fiscali, contestate a tutti gli imputati in un separato procedimento penale. Le operazioni fatturate dalla fallita erano oggettivamente inesistenti e determinavano, da un punto di vista contabile, una differenza in eccesso tra fatturato fittizio e reale, finalizzato ad ottenere liquidità con gli anticipi bancari e la detrazione dell'Iva sulle merci acquistate e collocate sul mercato a prezzi concorrenziali. Una volta interrotto il meccanismo fondato sull'emissione delle fatture false, che consentiva gli anticipi dei crediti verso le banche, garantendo il flusso di liquidità della società, si è verificato il tracollo finanziario, che ha condotto al fallimento. Conseguentemente, la frode fiscale ha determinato l'irreversibile stato di dissesto della società costituendo, contestualmente, il presupposto richiesto per la configurazione del delitto di bancarotta fraudolenta impropria, rispetto alla quale, pertanto, non si pone in alcun modo un problema di duplicazione di violazioni, attesa la non sovrapponibilità tra i reati fiscali e di associazione a delinquere oggetto di separato procedimento e le ipotesi di bancarotta fraudolenta contestate ai ricorrenti. 7. OR lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo b , rilevando, in fatto, che parte delle somme accantonate all'estero sono rientrate nella società TSV S.p.A., con un aumento di capitale sottoscritto per l'importo di lire 1.200 milioni nell'anno 1999 inoltre gli indagati avrebbero restituito la somma di lire 2430 milioni, depositata sui conti esteri, successivamente versata su un conto vincolato alla Procura della Repubblica precisa altresì che il coadiutore del fallimento in sede di prova testimoniale ha riferito che l'organo fallimentare non aveva presentato alcuna istanza di dissequestro per la restituzione, a favore della curatela, di tali somme. Conseguentemente mancherebbe il pregiudizio alla massa dei creditori, per essere stato l'ammanco ripianato prima del fallimento. Ciò al fine di contrastare l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la maggior parte delle somme distratte sono state destinate a scopi estranei alla gestione sociale, poiché tale assunto sarebbe contraddetto dal contenuto della relazione curatore. 8. La doglianza, che introduce evidenti elementi di fatto, non valutabili in questa sede dalla Corte, appare, comunque, infondata. Il Tribunale ha evidenziato che la confessione resa dagli imputati è intervenuta quando la situazione di dissesto era già conclamata, ma tale riconoscimento non ha determinato il recupero all'attivo societario delle somme sottratte al patrimonio della fallita, prima della irreversibile decozione. Come risulta dal contenuto della ordinanza della Corte d'Appello di Milano del 1 luglio 2007, richiamata dal Tribunale e prodotta in copia dalla parte civile all'udienza del 17 luglio 2007, le somme sottratte al patrimonio della società, alla data della sentenza di primo grado 26 settembre 2007 non erano ancora rientrate nell'attivo fallimentare. La circostanza è ribadita anche dalla Corte d'Appello nella sentenza impugnata, la quale ha precisato che solo una parte degli importi è stata destinata all'aumento di capitale, mentre quella più consistente era stata destinata a scopi estranei alla gestione della fallita, in particolare, agli investimenti immobiliari e alla costituzione di nuove società fittizie, funzionali esclusivamente alla prosecuzione della attività fraudolenta. Negli stessi termini il Tribunale di Monza ha precisato che il saldo cassa negativo della società corrispondeva alle somme giacenti sui conti esteri, pari a lire 3.729.146.550, per il periodo 1997- 1999. Di queste somme, accantonate all'estero, parte vennero utilizzate per investimenti immobiliari, parte per la costituzione di altre società fittizie e, una parte per l'aumento di capitale. La parte più consistente è documentata proprio dalla misura del sequestro di somme, pari a 2.430.000.000 di lire su conti esteri che riguardava gli importi distratti attraverso il meccanismo sopra descritto. Tali circostanze non sono state sostanzialmente contestate dalla difesa. Inoltre, riguardo alla circostanza di fatto, non valutabile in questa sede, della presunta restituzione della somma di 2,340 mld, dallo stesso contenuto del ricorso si desume che il versamento sarebbe avvenuto a fallimento dichiarato e, quindi, è irrilevante ai fini che qui interessano. Quanto all'aumento di capitale, si tratta di una operazione di carattere straordinario nella vita della SpA, che determina una variazione dell'atto costitutivo e deve essere deliberato dall'assemblea in seduta straordinaria. La doglianza relativa all'aumento di capitale, quale strumento di rientro di parte delle somme accantonate all'estero, è genericamente dedotta e non documentata attraverso il doveroso rinvio alle specifiche modalità richieste dalla legge. 9. Parte delle censure riguardano il profilo sanzionatorio. Con il secondo motivo CR deduce vizio di motivazione riguardo al trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente per il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'articolo 62 n. 4 c.p. e del mancato giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti. O deduce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai capi a e b , riguardo alla determinazione della pena, lamentando l'assenza di motivazione sulla misura del trattamento sanzionatorio applicato, senza tenere conto del comportamento collaborativo con l'autorità giudiziaria e del fatto che il meccanismo truffaldino era stato ideato solo per far fronte ad una ingente perdita cagionata da una società portoghese. Sotto altro profilo, con il successivo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai medesimi capi di imputazione e riguardo alla determinazione della pena, lamentando la mancanza di motivazione riguardo al giudizio di comparazione tra aggravanti e attenuanti. 10. Le doglianze sono assolutamente generiche e prive di allegazioni difensive in proposito, consentendo di ritenere adeguate le conclusioni raggiunte dai giudici di merito in punto di comparazione tra le circostanze e determinazione della pena. Sotto tale profilo va evidenziato quanto precisato già dal Tribunale riguardo al mancato risarcimento, anche parziale, del danno e alla assenza di ogni collaborazione degli imputati immediatamente dopo la prima verifica della Guardia di Finanza. Tali elementi correttamente hanno consentito la concessione delle attenuanti generiche, valutando la personalità e il comportamento collaborativo tenuto successivamente, da considerare equivalenti alle aggravanti contestate, in assenza di peculiari motivi che possono giustificare il giudizio di prevalenza e che, neppure in questa sede, vengono evidenziati dalla difesa. Le risultanze processuali escludono la configurabilità di un danno patrimoniale di speciale tenuità, come prospettato dalla difesa dei ricorrenti, mentre i dati documentali e contabili militano nel senso opposto, attesa l'oggettiva particolare gravità del fatto per l'esistenza di un'articolata organizzazione di mezzi e di persone, attraverso la quale la condotta criminosa veniva realizzata. Nello stesso senso va valutato il protrarsi nel tempo delle condotte illecite e il grave pregiudizio subito dai creditori e dall'Erario, oltre al danno patrimoniale cagionato al mercato attraverso le transazioni di prodotti a prezzi ridotti in ragione del mancato pagamento dell'Iva a monte. Il Tribunale, quanto alla concreta determinazione della pena, ha correttamente richiamato i parametri previsti daH'articolo 133 del codice penale, aggiungendo il riferimento specifico alla ruolo direttivo assunto da C e O nell'esecuzione della condotta criminosa. 11. CG propone ricorso per cassazione avverso la medesima decisione formulando motivi analoghi a quelli della posizione di CR in ordine al divieto di violazione della medesima disposizione, qualificando come distrazione o come depauperamento della società le medesime condotte. La censura è già stata trattata in premessa. 12. Con il secondo motivo lamenta violazioni di legge e vizio di motivazione riguardo al concorso nel reato del soggetto non qualificato extraneus poiché la sentenza impugnata non indica gli elementi che dimostrerebbero la conoscenza o il sospetto in capo a CR delle conseguenze fallimentari dell'attività posta in essere da TVS S.p.A In particolare, l'imputato si è limitato a fungere da prestanome e non si è ingerito nella gestione della società, con la conseguenza che non aveva la possibilità di verificare l'andamento economico della società. 13. La censura è infondata. In primo luogo, è errato il presupposto giuridico, ai fini della configurabilità del dolo dell' extraneus , della pretesa necessità della conoscenza in capo al C delle conseguenze fallimentari dell'attività posta in essere dalla società. Al contrario, il dolo dell’ extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell' intraneus , con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società. Ne consegue che ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell'art. 216 L. fall. in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest'ultimo, il quale non costituisce l'evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell'interesse patrimoniale della massa, posto che se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide negativamente sul patrimonio della società Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010 - dep. 29/04/2010, Fiume e altro, Rv. 246879 e Sez. 5, Sentenza n. 9299 del 13/01/2009, Rv. 243162 . 14. Nella specie, le risultanze processuali, quali illustrate dai giudici di merito e, sostanzialmente, non contestate dalla difesa, non lasciano dubbi sulla volontarietà dell'apporto essenziale di C alla condotta degli intranei, O e C con la consapevolezza che essa determinava un depauperamento del patrimonio sociale di TVS ai danni dei creditori. In tal senso depone la dichiarazione confessoria dell'imputato il quale ha illustrato, in maniera articolata e dettagliata l'intero meccanismo truffaldino nel quale egli risultava pienamente inserito, con ruolo assolutamente differente rispetto a quello di mero prestanome di società fittizie del gruppo, prospettato dalla difesa nel ricorso. Al contrario, è emersa la piena consapevolezza dell'imputato dell'esistenza del progetto fraudolento, in accordo con gli amministratori e della sua idoneità ad essere realizzato attraverso 15. l'apporto sinergico delle singole attività da ciascuno poste in essere e finalizzate alla realizzazione di vantaggi illeciti 16. la costituzione di società di comodo, che avrebbero consentito agli imputati, attraverso il mancato versamento dell'Iva all'Erario, di godere dei benefici finanziari. 17. Inoltre, l'imputato era costantemente presente nell'ambito della TVS, come evidenziato dal Tribunale, partecipando alla rinnovazione delle società fittizie nel 1998, dopo il primo accesso della Guardia di Finanza, fornendo un apporto essenziale con la creazione e amministrazione di nuove società fittizie e contribuendo direttamente alla distrazione di somme attraverso i vari conti bancari delle società dallo stesso amministrate. 18. Consegue da quanto sopra il rigetto dei ricorsi con condanna al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascuno ricorrente al pagamento delle spese processuali.