Clausola risolutiva espressa: il mancato pagamento del canone di locazione giustifica lo scioglimento del vincolo

In tema di risoluzione del contratto di locazione di immobili, perché la risoluzione stessa possa essere dichiarata sulla base di una clausola risolutiva espressa, è richiesta la specifica domanda, con la conseguenza che, una volta proposta l’ordinaria domanda ai sensi dell’art. 1453 c.c. con l’intimazione di sfratto per morosità, non è possibile mutarla in domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione ope legis di cui all’art. 1456 c.c., in quanto quest’ultima è ontologicamente diversa dalla prima, sia per quanto concerne il petitum - perché con la domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1453 si chiede una sentenza costitutiva mentre quella di cui all’art. 1456 postula una sentenza dichiarativa - sia per quanto concerne la causa petendi - perché nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’art. 1453, il fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa.

Con la pronuncia n. 19865 del 22 settembre 2014, la Corte di Cassazione definisce un’interessante questione giuridica in tema di clausola risolutiva espressa applicata ad un contratto di locazione. Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione prende le mosse, dapprima, da una questione processuale in ordine al procedimento di sfratto per morosità, precisando che l’opposizione alla ordinanza di convalida può manifestarsi con ogni condotta che escluda acquiescenza alla richiesta di finita locazione successivamente, viene fornita un’interpretazione – con decisione nel merito – su una clausola del contratto, con l’affermazione che, nel caso di specie, il mancato pagamento di un canone di locazione poteva legittimamente essere considerato come inadempimento che comportava la risoluzione automatica del contratto, in forza di apposita clausola contrattuale pattuita dalle parti. Azione di risoluzione e clausola risolutiva espressa come e perché. L’azione di risoluzione del contratto in applicazione dell’art. 1456 c.c. tende ad una pronuncia dichiarativa dell’avvenuta risoluzione di diritto a seguito dell’inadempimento di una delle parti previsto come determinante per la sorte del rapporto, in conseguenza dell’esplicita dichiarazione dell’altra parte di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa tale azione, per presupposti, carattere, natura, differisce sostanzialmente dall’azione ordinaria di risoluzione per inadempimento per colpa ex art. 1453 c.c., la quale tende, invece ad una pronuncia costitutiva diretta a sciogliere il vincolo contrattuale, previo accertamento ad opera del giudice della gravità dell’inadempimento ne consegue che, proposta in primo grado domanda di risoluzione ex art. 1453, la domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1456 cit. è inammissibile se, introdotta nel corso del giudizio di primo grado, su di essa non vi sia accettazione del contraddittorio e ove proposta per la prima volta in appello deve considerarsi nuova, e pertanto preclusa a norma dell’art. 345 c.p.c Tolleranza del locatore ed inoperatività della clausola risolutiva espressa. La clausola risolutiva espressa può, talvolta, non trovare applicazione in forza della condotta delle parti. In particolare, si è osservato che la tolleranza del locatore nel ricevere il canone oltre il termine stabilito rende inoperante la clausola risolutiva espressa prevista in un contratto di locazione, la quale riprende la sua efficacia se il creditore, che non intende rinunciare ad avvalersene, provveda, con una nuova manifestazione di volontà, a richiamare il debitore all’esatto adempimento delle sue obbligazioni tuttavia, non può essere imposto al locatore, in applicazione del generale principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e del divieto dell’abuso del processo, di agire in giudizio avverso ciascuno dei singoli analoghi inadempimenti, al fine di escludere una sua condotta di tolleranza. Clausola risolutiva espressa e condotta delle parti. Secondo la giurisprudenza prevalente, nel contratto a prestazioni corrispettive, il contraente non inadempiente può rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto della clausola risolutiva espressa, come pure della risoluzione già dichiarata giudizialmente al riguardo, costituisce rinuncia all’effetto risolutivo il comportamento del contraente che, dopo essersi avvalso della facoltà di risolvere il contratto, manifesti in modo inequivoco l’interesse alla tardiva esecuzione dello stesso. In un caso, in particolare, il S.C. ha dichiarato inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso avverso la sentenza della Corte di merito che aveva ravvisato gli estremi dell’acquiescenza alla sentenza di primo grado nell’accettazione, da parte del contraente che aveva agito per la risoluzione, del pagamento del saldo del prezzo di una compravendita in conformità di quanto statuito dal primo giudice. Richiesta del termine di grazia” anche in via subordinata. La sentenza in commento affronta anche un’ulteriore questione relativamente al procedimento di convalida di sfratto, affermando, in particolare, il principio per il quale il conduttore che, convenuto in un giudizio di sfratto per morosità, abbia richiesto in via subordinata la concessione del c.d. termine di grazia”, manifesta implicitamente una prevalente volontà solutoria incompatibile con quella di opporsi alla convalida, che comunque non può più ritenersi condizionata alla mancata proposizione dell’opposizione, secondo quanto dispone l’art. 665 c.p.c., bensì al mancato pagamento del dovuto nel termine - che ha carattere perentorio - all’uopo fissato giusta il disposto dell’art. 55, l. n. 392/78 da ciò deriva che, al mancato adempimento nel termine fissato dal giudice, consegue, l’emissione, da parte di questi, dell’ordinanza di convalida ex art. 663 c.p.c. infatti per effetto del mancato pagamento, il procedimento retrocede alla fase precedente all’instaurazione del subprocedimento di sanatoria e il provvedimento da emettere è quello di convalida, che sarebbe stato emesso se il subprocedimento non fosse stato instaurato . Opposizione alla sfratto e termine di grazia nessuna incompatibilità funzionale. In termini analoghi a quanto precede, il S.C. precisa che non esiste incompatibilità sul piano logico tra opposizione alla convalida di sfratto per morosità e richiesta di concessione del termine di grazia ai sensi dell’art. 55 l. n. 392/78, stante l’eterogeneità, ontologica e funzionale, delle due figure, con la conseguenza che esse possono essere formulate contestualmente, anche in via subordinata l’opposizione, tuttavia, continua a produrre l’effetto di impedire la pronuncia dell’ordinanza di convalida, anche qualora la morosità non sia stata sanata entro il termine concesso, determinando il passaggio del procedimento alla fase a cognizione ordinaria, salva la possibilità che la fase sommaria del procedimento si concluda con l’emissione o la negazione dell’ordinanza provvisoria di rilascio, ove di questa l’intimante abbia fatto rituale richiesta. Locazioni ed offerta di pagamento del canone no all’ordinanza di sfratto. Nelle locazioni di immobili ad uso diverso dall’abitazione, alle quali non si applica la disciplina di cui all’art. 55, l. n. 392/1978 – c.d. termine di grazia ma la circostanza non rileva in questa sede - l’offerta o il pagamento del canone che, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non consentono l’emissione, ai sensi dell’art. 665 c.p.c., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l’insussistenza della persistente morosità di cui all’art. 663, 3 comma, c.p.c. , nel giudizio susseguente a cognizione piena, non comportano l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell’art. 1453, 3 comma, c.c., dalla data della domanda - che è quella già avanzata ex art. 657 c.p.c. con l’intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto - il conduttore non può più adempiere.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 23 maggio – 22 settembre 2014, n. 19865 Presidente Segreto – Relatore Frasca Svolgimento del processo p.1. La s.r.l. L.G.S. Italia già incorporante la Italco s.p.a. il 9 luglio 1999 ha proposto ricorso per cassazione contro la New Team s.n.c. di Leandrin Bruno e Leandrin Andrea & amp C. avverso la sentenza del 5 dicembre 2007, con la quale la Corte d'Appello di Venezia, dopo aver ritenuto ammissibile l'appello proposto dall'intimata avverso l'ordinanza di convalida di sfratto del 19 gennaio 2005 pronunciata dal Tribunale di Venezia, Sezione Distaccata di Portogruaro, in accoglimento dell'intimazione di sfratto per morosità, notificata il 1 dicembre 2004 da essa ricorrente in relazione alla locazione ad uso commerciale di un locale di mq. 71, sito nel Centro Commerciale omissis , in omissis , ha riformato l'ordinanza de qua ritenendola pronunciata al di fuori dei presupposti previsti dalla legge e, quindi, pronunciando sulla domanda di risoluzione del contratto locativo della qui ricorrente, l'ha rigettata nel merito. p.2. In particolare, la Corte lagunare ha ritenuto di non potere accogliere la domanda di risoluzione per inadempimento in quanto fondata su una clausola risolutiva espressa prevista nel contratto, state la sua genericità e perplessità ed ha, quindi, negato accoglimento anche alla domanda ai sensi dell'art. 1453 c.c. perché l'inadempimento dedotto, avendo riguardato una sola rata trimestrale del canone scaduta il 5 ottobre del 2004, non avrebbe rivestito i caratteri dell'inadempimento di non scarsa importanza. p.3. Al ricorso, che prospetta otto motivi, non v'è stata resistenza dell'intimata. Motivi della decisione p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 663 c.p.c. anche in rapporto con l'art. 668 c.p.c. art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. . Vi si censura la sentenza impugnata per avere considerato l'appello proposto dalla New Team s.n.c. contro l'ordinanza di convalida ammissibile sulla base dell'assunto che all'udienza di convalida il procuratore della medesima si era limitato a dimettere conteggi e prospetto riepilogativo del credito, senza però attestare formai mente che la morosità persisteva e che tanto evidenziava che l'ordinanza era stata emessa in mancanza della condizione della persistenza della morosità, prevista dall'art. 663, terzo comma, c.p.c., consistente nell'attestazione in giudizio del locatore o del suo procuratore che la morosità del conduttore persiste. p.1.1. Secondo la ricorrente la Corte territoriale, nel considerare che la detta deduzione del procuratore della ricorrente non era stata accompagnata dalla formale attestazione della persistenza della morosità, avrebbe errato, tenuto contro che quella deduzione era significativa della persistenza della morosità, dato che la New Team aveva chiesto termine per sanare la morosità ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978, che era stato negato nella motivazione dell'ordinanza di convalida dal Tribunale a motivo della natura commerciale della locazione e, quindi, del'inapplicabilità della norma. Si sostiene, inoltre, invocando Cass. n. 19772 del 2003 e n. 1290 del 1993 che l'attestazione di persistenza della morosità non richiede formule sacramentali. Si prospetta, dunque, che l'ordinanza di convalida non avrebbe potuto considerarsi appellabile in quanto emessa in violazione dell'art. 663 c.p.c. e, pertanto, al di fuori dei presupposti di legge. p.1.2. Il motivo sarebbe fondato, ma non può portare alla cassazione della decisione impugnata, atteso che, reggendosi la decisione impugnata quanto alla valutazione di ammissibilità dell'appello sulla ragione criticata dal secondo motivo, che, come si vedrà non è fondato, come pure non lo sono il terzo, il quarto ed il quinto, la sentenza impugnata non può essere cassata in parte qua essendo il suo dispositivo, là dove ha, decidendo nel merito l'appello, considerato ammissibile lo stesso, conforme a diritto. La fondatezza nella specie del primo motivo giustifica, in sostanza, solo la correzione della motivazione della sentenza a norma dell'ultimo comma dell'art. 384 c.p.c. nella parte che ha espresso la valutazione di ammissibilità dell'appello appunto criticata dal motivo in esame. p.1.2.1. Ciò precisato, si rileva che la doglianza esposta con tale motivo sarebbe fondata sulla base del semplice rilievo che, essendo comparsa all'udienza la società intimata ed avendo chiesto il termine di cui all'art. 55 della l. n. 392 del 1978, l'attestazione di persistenza della morosità, di cui all'ultimo comma dell'art. 663 c.p.c. non era in alcun modo necessaria, atteso che, secondo la dottrina ed anche due remoti precedenti di questa Corte Cass. 7 marzo 1949, n. 430 e 17 aprile 1950 n. 1010, non presenti su Italgiureweb, ma le cui massime sono riportate sui maggiori Repertori di Giurisprudenza dell'epoca , il legislatore ha richiesto che la parte intimante attesti la persistenza della morosità volendo alludere alla sua rilevanza allorquando non compaia l'intimato, giacché, se l'intimato compare, resta affidata alla sua difesa la deduzione della cessazione della morosità che può comunque impedire la pronuncia della convalida, ancorché eventualmente non quella della risoluzione del contratto all'esito della cognizione piena, ove il locatore insista nell'azione e la cessazione sia avvenuta in modo irrilevante ai fini di impedire la verificazione dei presupposti della risoluzione o sub specie di importanza di inadempimento o sub specie di inadempimento rilevate per una fattispecie di c.d. risoluzione di diritto . Quello che rileva, una volta che l'intimato sia comparso, è il suo atteggiamento di opposizione. Se l'intimato compare e non si oppone, tale suo atteggiamento elide ogni necessità di attestazione della persistenza della morosità, potendo semmai residuare solo il problema, ma non è questa la sede per discuterne, del se si configuri e, in caso positivo in che limiti, un potere di valutazione in iure della fondatezza della domanda di convalida in capo al giudice. Siffatta normale elisione è mera conseguenza della circostanza che, se lo stesso intimato, che è il soggetto interessato, non evidenzia che manca la condizione di emanazione dell'ordinanza di convalida, siccome è implicato dal suo atteggiamento di non opposizione, l'esito del procedimento è direttamente ricollegato dalla legge salvo l'approfondimento dell'indicato problema, che qui non rileva in relazione alla fattispecie che si esamina a tale atteggiamento. Se l'intimato compare e si oppone o comunque tiene un atteggiamento che rivela l'opposizione, è palese che, non potendo aver luogo la convalida, ma dovendosi evolvere il procedimento nella cognizione piena” previa eventuale pronuncia dell'ordinanza di rilascio convalida, la necessità dell'attestazione della persistenza della morosità diventa irrilevante come condizione ostativa della pronuncia della convalida. La circostanza che la morosità sia cessata, nel caso di opposizione dell'intimato, dev'essere invece considerata semmai una ragione giustificativa dell'esistenza di ragioni ostative all'emanazione dell'ordinanza di rilascio ai sensi dell'art. 665 c.p.c. in termini Cass. n. 13248 del 2010 , atteso che sarebbe contradditorio che, mentre in mancanza di comparizione dell'intimato la cessazione della permanenza della morosità impedisca comunque la definizione del procedimento con la convalida e, quindi, imponga il passaggio alla cognizione piena senza che sia disposto lo sfratto dell'intimato, viceversa, se l'intimato compaia e si opponga alla convalida, possa, non persistendo la morosità, pronunciarsi un provvedimento, sia pure provvisorio, che lo sfratti. p.1.2.2. Sulla base delle esposte considerazioni, consegue che la Corte territoriale, là dove, pur in presenza di comparizione dell'intimata, ha ritenuto che fosse necessaria l'attestazione di persistenza della morosità e ne ha tratto - in astratto, cioè a prescindere dal ragionamento fatto riguardo allo svolgimento dell'udienza e dell'atteggiamento delle parti, segnatamente quello dell'intimate - la conseguenza che la mancanza di essa sarebbe stata ragione impediente la convalida ha errato, atteso che il principio di diritto che veniva in rilievo è che, nel procedimento per convalida di sfratto per morosità, in caso di comparizione dell'intimato, restando affidata alla sua eventuale attività difensiva mediante l'opposizione la deduzione della cessazione della persistenza della morosità, l'attestazione di cui all'ultimo comma dell'art. 663 c.p.c. non è necessaria, potendo, pertanto, nel caso di mancanza di opposizione dell'intimato pronunciarsi se ricorrono le altre condizioni di legge la convalida, senza che occorra tale attestazione, mentre, nel caso di opposizione, fermo che detta attestazione diventa irrilevante, la circostanza che la morosità sia in ipotesi cessata diviene rilevante solo come presupposto che esclude l'emanazione dell'ordinanza di rilascio ai sensi dell'art. 665 c.p.c Ebbene, va considerato che nel caso di specie la parte intimata, comparendo e chiedendo di sanare la morosità aveva formulato una richiesta che, in quanto contestata dalla parte locatrice qui ricorrente, era incompatibile con un atteggiamento di non opposizione. Ne segue che l'attestazione di persistenza della morosità diveniva del tutto superflua, giusta le considerazioni svolte. Diventa, pertanto, del tutto inutile evocare, come ha fatto parte ricorrente il principio di diritto secondo cui L'attestazione in giudizio del locatore o del suo procuratore circa la persistenza della morosità del conduttore, cui l'art. 663 ultimo comma cod. proc. civ. subordina la convalida dello sfratto, è sostanzialmente un'ulteriore conferma dell'intimazione di sfratto per morosità richiesta all'intimato, nell'ambito del procedimento sommario, al fine di certificare occorrendo, anche con una cauzione la mancata purgazione della mora fino al momento della pronuncia del relativo provvedimento. Tale attestazione non richiede l'adozione di formule sacramentali, ma può essere desunta da una dichiarazione equipollente del locatore o del suo procuratore, valutato, se del caso, anche il contegno processuale del conduttore. Pertanto, può ritenersi soddisfatta la condizione di cui all'art. 663 ultimo comma cod. proc. civ. qualora il procuratore del locatore, pur omettendo una formale attestazione di persistenza della morosità del conduttore, abbia all'udienza di convalida, insistito nell'intimazione di sfratto, facendo espresso riferimento all'atto introduttivo, e così confermando, implicitamente, la morosità ivi introduttivo, e così confermando, implicitamente, la morosità ivi non contestata”. Cass. n. 1290 del 1993, fra l'altro massimato con un non di troppo nella massima dell’Italgiureweb . p.2. Con un secondo motivo si prospetta violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 342 c.p.c. art. 360, comma I, n. 3 c.p.c. e vi si deduce che la Corte territoriale, per affermare l'ammissibilità dell'appello, avrebbe enunciato un'ulteriore ragione in violazione dei limiti di quanto le era stato devoluto con l'appello dalla conduttrice. Ciò, là dove ha ritenuto che l'ordinanza di convalida era stata emessa al di fuori dei presupposti di legge per il fatto che, avendo la conduttrice chiesto di sanare la morosità ed essendo stata contestata l'ammissibilità del rimedio dalla locatrice, il Tribunale avrebbe potuto emettere solo l'ordinanza di rilascio ai sensi dell'art. 665 c.p.c. e non quella di convalida. Si sostiene che con l'appello la conduttrice non aveva prospettato tale ragione di illegittimità dell'ordinanza, onde, ponendola a base della sua decisione di considerare ammissibile l'appello, la Corte lagunare avrebbe violato sia l'art. 112 sia l'art. 345 c.p.c., sicché sarebbe stato leso il diritto di difesa della società appellata, impedendo alla stessa di svolgere compiutamente le proprie difese in merito”. p.2.1. Il motivo è privo di fondamento, là dove evoca un'ultrapetizione della Corte territoriale rispetto a quanto le era stato devoluto con l'appello. Invero, una volta investita dell'appello contro un provvedimento qualificato, nella prospettazione dell'appellante come sentenza appellabile, nonostante la sua forma di ordinanza di convalida, sull'assunto che quest'ultima fosse stata pronunciata illegittimamente al di fuori dei presupposti di legge, la Corte veneziana si è venuta a trovare nella condizione in cui versa il giudice investito di un'impugnazione con la prospettazione che il provvedimento impugnato sarebbe soggetto al mezzo di impugnazione esperito tale condizione, al contrario di quanto suppone il motivo in esame, non vede quel giudice, nella valutazione delle condizioni di ammissibilità della stessa, in alcun modo vincolato a quanto dedotto dalla parte, ma, come si impone per l'apprezzamento della condizioni di ammissibilità di ogni mezzo di impugnazione, investito della valutazione di ammissibilità sulla base di un potere di apprezzamento delle stesse esercitabile d'ufficio, al di là, dunque, di quello che ha potuto argomentare l'impugnante. È, pertanto, del tutto fuor di luogo l'evocazione della violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato che si fa nel motivo. Una volta introdotto l'appello, la Corte territoriale non era affatto vincolata a valutarne l'ammissibilità solo sulla base delle ragioni in proposito indicate dall'appellante, ma doveva, come ha fatto, scrutinare l'ammissibilità sulla base dei suoi poteri ufficiosi e, pertanto, bene poteva d'ufficio ravvisare l'ammissibilità dell'appello per la ragione che, essendovi stata richiesta di concessione del termine ai sensi dell'art. 55 l. n. 392 del 1978 ed essendo insorta contestazione sull'applicabilità dell'istituto colà previsto, si era radicata per ciò solo una sostanziale opposizione dell'intimata alla convalida. Il principio di diritto che viene in rilievo e che giustifica la reiezione del motivo è il seguente poiché il giudice investito di un'impugnazione deve d'ufficio valutare le condizioni della sua ammissibilità indipendentemente da ed oltre quanto dedotto da chi impugna e, dunque, senza che la valutazione di ammissibilità sia ancorata a quanto da lui argomentato, è motivo di ricorso per cassazione inconferente quello con cui si lamenta vizio di violazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 342 c.p.c. di fronte alla individuazione da parte di un giudice d'appello nella specie investito di impugnazione nel presupposto della natura sostanziale di sentenza appellabile di un provvedimento di convalida di sfratto per morosità di una ragione di ammissibilità dell'appello diversa da quella indicata dalla parte appellante”. § 3. Con un terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 663 c.p.c. in rapporto all'art. 665 c.p.c., all'art. 55 L. 392/78, all'art. 667 c.p.c. e all'art. 668 c.p.c. art. 360, comma I, n. 3 c.p.c. . Vi si prospetta che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto che la presenza della richiesta della conduttrice dell'istanza ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978, pur in mancanza di contestazione della morosità, impedisse, una volta non condivisa dal Tribunale, la pronuncia dell'ordinanza di convalida e consentisse invece solo quella dell'ordinanza ai sensi dell'art. 665 c.p.c A sostegno vengono invocate Cass. n. 19772 del 2003, Cass. n. 270 del 1996 e n. 4646 del 1990, nonché Cass. n. 5113 del 1999 [ rectius 1989]. p.4. Con un quarto motivo si fa valere violazione o falsa applicazione dell'art. 663 c.p.c. in rapporto all'art. 55 L. 392/78 ed all'art. 668 c.p.c. art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e si torna a prospettare che l'ordinanza di convalida non aveva avuto natura di sentenza in ragione della negazione del termine di cui all'art. 55 della l. n. 392 del 1978, invocando nuovamente Cass. n. 5113 del 1989, oltre che Cass. n. 1529 del 1994 e sostenendo che il provvedimento negativo o concessorio del termine di cui all'art. 55 della l. n. 392 del 1978 non avrebbe carattere decisorio. p.5. Con un quinto motivo si deduce contraddittoria motivazione su circa [sic] un fatto controverso e decisivo per il giudizio art. 360, comma I, n. 5 c.p.c. prospettando sotto il profilo del vizio motivazionale la questione dell'avere ritenuto la Corte territoriale impedita la convalida dalla richiesta di termine ai sensi del citato art. 55. p.6. Il terzo, quarto e quinto motivo possono essere trattati congiuntamente, in quanto afferiscono alla questione del se sia da considerare emessa al di fuori dei presupposti di legge e, quindi, con natura sostanziale di sentenza appellabile, l'ordinanza di convalida pronunciata nonostante la richiesta dell'intimato di concessione di termine ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978 ed in presenza di contestazione da parte del locatore della applicabilità di tale istituto e, dunque, sulla base di una valutazione del giudice della convalida di mancanza nell'atteggiamento del conduttore intimato comunque di un'opposizione alla convalida. La risposta da dare a tale interrogativo è positiva e giustifica il rigetto dei tre motivi in questione. Queste le ragioni. p.6.1. Va premesso che la giurisprudenza evocata nei motivi non è pertinente, in quanto concerne il caso in cui l'intimato si opponga alla convalida e chieda in subordine ed ottenga il termine di cui all'art. 55 della l. n. 392 del 1978, ma poi non Io rispetti. Cass. n. 19772 del 2003, infatti, ha statuito In tema di locazione di immobili urbani, il conduttore che, convenuto in un giudizio di sfratto per morosità, abbia richiesto in via subordinata la concessione del c.d. termine di grazia, manifesta implicitamente una prevalente volontà solutoria incompatibile con quella di opporsi alla convalida, che comunque non può più ritenersi condizionata alla mancata proposizione dell'opposizione, secondo quanto dispone l'art. 665 cod. proc. civ., bensì di mancato pagamento del dovuto nel termine - che ha carattere perentorio - all'uopo fissato giusta il disposto dell'art. 55 L. 392/78, sicché, al mancato adempimento nel termine fissato dal giudice, consegue, l'emissione, da parte di questi, dell'ordinanza di convalida ex art. 663 cod. proc. civ Infatti per effetto del mancato pagamento, il procedimento retrocede alla fase precedente all'instaurazione del subprocedimento di sanatoria e il provvedimento da emettere è quello di convalida, che sarebbe stato emesso se il subprocedimento non fosse stato instaurato”. Sostanzialmente nello stesso senso, successivamente, Cass. n. 24764 del 2008 si vedano anche Cass. n. 6336 del 2006 n. 5540 del 2012. Si veda ancora, in precedenza Cass. n. 4646 del 1990, secondo cui In tema di locazione d'immobili urbani, qualora il conduttore cui sia stato intimato lo sfratto per morosità nel pagamento del canone, pur opponendosi alla convalida per l'eccepita inesistenza della morosità affermata dal locatore, provveda a corrispondere i canoni dovuti e chieda termine per il pagamento delle spese processuali, previa liquidazione delle stesse da parte del giudice, dimostra con tale comportamento una volontà incompatibile con l'opposizione alla convalida, per cui ove egli non adempia al pagamento delle spese nel termine fissato dal giudice, questi, ai sensi dell'art. 663 cod. proc. civ., deve pronunciare ordinanza di convalida di sfratto, senza possibilità di rinvio della causa per un'ulteriore trattazione del merito detta ordinanza non è impugnabile né con l'appello né con il ricorso per Cassazione ex art. Ili cost., ma soltanto con l'opposizione tardiva ai sensi dell'art. 668 cod. proc. civ., tranne nelle ipotesi in cui si sostenga che essa sia stata emessa fuori o contro le condizioni previste dagli artt. 55 e 56 della legge n. 392 del 1978 e 663 cod. proc. civ., nel qual caso è impugnabile con l'appello e non direttamente con il ricorso per Cassazione”. Poiché nella specie che si giudica non veniva in rilievo una richiesta di sanatoria in via subordinata, bensì fatta in prima battuta, sebbene con contestazione della sussistenza dei presupposti della morosità colpevole dato che si era allegato di avere inutilmente tentato un'offerta reale non è necessario discutere se tale giurisprudenza sia condivisibile, là dove attribuisce alla richiesta subordinata di c.d. termine di grazia, una volta accolta, una sorta di effetto di consumazione dell'opposizione proposta in via preliminare. Sebbene le considerazioni che si verranno svolgendo implichino poi elementi che senza dubbio indurrebbero a dissentire da detta giurisprudenza. p.6.2. Invece sarebbe pertinente, fra le decisioni evocate dalla ricorrente, altra non recente sentenza che così si espresse Poiché a norma dell'art. 55 della legge 27 luglio 1978 n. 392, la concessione di un termine per il pagamento dei canoni scaduti rappresenta non un obbligo ma una facoltà discrezionale di cui il giudice può avvalersi quando, non essendo stato effettuato il pagamento in udienza, sussistono comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, senza che la sollecitazione da parte dell'ultimato di tale facoltà integri opposizione preclusiva della convalida, legittimamente il giudice, ove non ritenga di concedere il richiesto termine, convalida lo sfratto con provvedimento che ha natura di ordinanza non impugnabile - salva l'opposizione ex art. 668 cod. proc. civ. - ove, oltre al requisito della mancata opposizione dell'intimato, sussista anche l'attestazione in giudizio del locatore o del suo procuratore della persistenza della morosità” Cass. n. 5113 del 1989 . Sarebbe, inoltre, pertinente, ancorché non richiamata dalla ricorrente, la successiva Cass. n. 4031 del 1998, secondo cui Nel procedimento di convalida di sfratto, l'ordinanza pretorile che, respingendo l'istanza del convenuto di concessione di un termine di grazia ai sensi dell'art. 55 della legge 27 luglio 1978 n. 392, sul presupposto della inapplicabilità di detta disposizione alle locazioni non abitative, dispone la convalida dello sfratto, risolve una questione di merito di natura decisoria ed è pertanto impugnabile con l'appello”. p.6.3. Il Collegio ritiene che il principio da condividersi sia quello di Cass. n. 4031 del 1998. La tesi della prima sentenza - già incrinata da Cass. n. 13419 del 2001, secondo cui Il diniego del giudice di concedere al conduttore moroso il termine per il pagamento ex art. 55 della legge n. 392 del 1978 sfugge al sindacato della Corte di Cassazione, ove sia motivato con argomentazioni immuni da vizi logici o giuridici” - non appare condivisibile, perché suppone una costruzione dell'istanza ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978 che non è corretta. In disparte il riferimento alla necessità che sia attestata la persistenza della morosità, che, come s'è veduto, è in contraddizione con la comparizione dell'intimato e con la richiesta da parte sua del termine di grazia che implica di solito quella persistenza salvo che il termine, essendosi sanata la morosità relativa ai canoni o agli oneri accessori, sia richiesto per interessi e spese giudiziali, come è possibile , si deve rilevare che non era e non è concepibile che l'esercizio del potere di concessione del termine di cui all'art. 55, ancorché subordinato ad una valutazione del giudice, non sia controllabile in iure quanto all'incidenza del suo erroneo esercizio sulla situazione giuridica del conduttore per effetto della negazione del temine richiesto, come accadrebbe se il provvedimento adottabile dal giudice della convalida, quando non ravvisi le comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, dovesse essere l'ordinanza ai sensi dell'art. 663 c.p.c. e non fosse invece necessario fare luogo alla cognizione piena, nel presupposto dell'esistenza conseguente di una opposizione del conduttore alla convalida in ragione dell'avviso del giudice. Poiché la negazione della concessione del termine contrasta con l'atteggiamento del conduttore intimato, il quale invece postulandola lo ha fatto proprio per evitare la convalida, è palese che un provvedimento del giudice di adozione dell'ordinanza di convalida in questo caso assumerebbe i caratteri di un'ordinanza di convalida pronunciata non già a seguito di un atteggiamento di mancata opposizione, bensì a seguito di un atteggiamento di opposizione, essendo palese che, chiedendo il termine per la sanatoria il conduttore ha inteso manifestare anche ed anzi soprattutto l'intento che lo sfratto non sia convalidato, a nulla rilevando la non contestazione della morosità, dato che i suoi effetti negativi quella richiesta intende proprio evitare. Non si comprende, del resto, come, pur in presenza di una pacifica struttura del procedimento di tutela privilegiata che ricollega l'esigenza della cognizione piena e, quindi, preclude l'adozione del provvedimento sommario di convalida, alla semplice pur immotivata manifestazione di un'opposizione alla convalida, possa considerarsi come non oppositivo un atteggiamento che - per il tramite della richiesta di termine per la sanatoria e, quindi, della consecuzione proprio di un effetto che è quello di evitare la convalida - appare diretto a questo scopo attraverso una istanza intesa ad ottenere il termine e, dunque, esprime un atteggiamento significativo di una presa di posizione in senso positivo finalizzata ad impedire la convalida e non di una mera immotivata e di mero contenuto negativo opposizione ad essa, cioè rivolta solo ad impedire la definizione del procedimento in via sommaria. Il provvedimento che il giudice della convalida, il quale non ravvisi le condizioni per assegnare il temine di cui all'art. 55 della n. 392 del 1978, può emettere non può essere allora l'ordinanza ai sensi dell'art. 663 c.p.c., bensì, nel presupposto che la richiesta di termine esprima comunque un'opposizione alla convalida, il provvedimento di tutela anticipatoria che la legge prevede per il carattere di forma di tutela privilegiata del procedimento di convalida, cioè l'ordinanza ai sensi dell'art. 665 c.p.c., cui deve accompagnarsi l'ordinanza dispositiva della cognizione piena ai sensi dell'art. 667 c.p.c Questa ricostruzione, d'altro canto, non è in contraddizione con l'altra per cui, se il termine viene concesso e non vi sia stata opposizione motivata da altre ragioni, come la contestazione della morosità o della legittimazione passiva o attiva o la deduzione della giustificazione della morosità per l'inadempimento del locatore e, comunque, per ragioni inerenti lo svolgimento del rapporto, ove non venga poi osservato, il giudice debba, di solito, emettere l'ordinanza di convalida. È sufficiente osservare che, avendo la richiesta del termine senza altre contestazioni integrato un'opposizione alla convalida per la sola sua concessione, quando il conduttore non osservi il termine, tale inosservanza rende irrilevante l'opposizione. Peraltro, la dottrina evidenzia che l'emissione dell'ordinanza di convalida non può nemmeno reputarsi automatica, occorrendo distinguere alcune situazioni nelle quali comunque è necessaria la cognizione piena e può giustificarsi solo l'emissione dell'ordinanza di rilascio ai sensi dell'art. 665 c.p.c. esse sono quelle in cui comunque si manifesti un'opposizione dell'intimato, il che comporterebbe l'espressione delle ragioni dell'indicato dissenso dall'orientamento di cui sopra si riferiva e che s'è detto non pertinente nel caso in esame ma non è questa, per tale ragione, la sede per esprimerle. Interessa, invece, ed è necessario affermare che, in presenza della richiesta di concessione di termine ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978, qualora il giudice non ritenga sussistenti le condizioni per la sua ammissibilità, o perché non ritenga comprovate le condizioni di difficoltà del conduttore” o, ancora prima, perché non ritenga applicabile l'istituto di cui a tale norma, come nel caso di locazioni ad uso diverso da quello abitativo, si configura una situazione nella quale, determinando il contrasto fra la richiesta dell'intimato e l'avviso del giudice un oggettivo apprezzamento dell'atteggiamento del primo come opposizione alla convalida, il procedimento per convalida non può definirsi con l'ordinanza di convalida, ma, sussistendo la necessità della cognizione piena ai sensi dell'art. 667 c.p.c., il giudice può emettere solo eventualmente l'ordinanza ai sensi dell'art. 665 c.p.c. e disporre la prosecuzione del giudizio nel merito. Ne consegue che qualora invece il giudice emetta l'ordinanza di convalida, tale provvedimento risulta emesso al di fuori dei presupposti di legge e si deve considerare come una sentenza di primo grado impugnabile con l'appello”. Ne segue che la Corte territoriale bene ritenne ammissibile l'appello, in quanto, in presenza di una istanza ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978, il giudice della convalida, reputando sebbene a ragione si veda l'arresto di cui a Cass. sez. un. n. 272 del 1999 inapplicabile tale istituto alla locazione di cui è processo in quanto ad uso diverso da quello abitativo, avrebbe potuto emettere solo l'ordinanza ex art. 665 c.p.c. ed avrebbe poi dovuto disporre la prosecuzione del giudizio con il rito di cui all’art. 447 bis c.p.c. ai sensi dell'art. 667 c.p.c p.6.4. Il terzo, quarto e quinto motivo sono, dunque, rigettati. Poiché il loro rigetto sorregge la relativa valutazione di ammissibilità dell'appello, risulta irrilevante l'errore della Corte territoriale censurato con il primo motivo, la cui valutazione comporta, dunque, solo la correzione della motivazione della sentenza. p.7. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. art. 360, comma I, n. 3 c.p.c. . È proposto in via subordinata al rigetto dei motivi precedenti. Vi si lamenta che erroneamente la Corte d'Appello, dopo avere considerato ammissibile l'appello ed avere esaminata la questione dell'applicabilità del termine ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392 del 1978, abbia ritenuto di non poter accogliere la domanda di risoluzione del contratto locativo sulla base della clausola contrattuale, invocata come clausola risolutiva espressa dalla locatrice, prevista dall'art. 22 del contratto di locazione, a motivo della sua genericità e perplessità e precisamente sulla base di tale motivazione Circa la clausola risolutiva espressa e generica e perplessa. Invero l'art. 22 del contratto di locazione 5/8/1997 prevede che la violazione anche di una sola delle clausole ivi richiamate dia diritto alla locatrice di ritenere risolto di diritto il contratto. Fra le clausole richiamate vi è l'art. 3, relativo al canone di locazione e ai termini di pagamento. Più precisamente tale clausola così recita il canone di locazione viene dalle parti stabilito in lire L. 38.000.000 lire trentamilioni [ sic ], annue, oltre all'Iva di legge, da corrispondersi al domicilio della locatrice in rate trimestrali anticipate nei primi cinque giorni di gennaio, aprile, luglio e ottobre di ogni anno . Dal generico richiamo dell'art. 22 all'art. 3 non si riesce a comprendere se sia sufficiente il mancato pagamento anche di una rata trimestrale di canone a far scattare la clausola risolutiva espressa o se, invece, occorrono plurimi inadempimenti. Ancora meno chiaro è se sia sufficiente anche il semplice ritardo e l'entità dello stesso. Sul punto va osservato che la precisione e chiarezza sono essenziali data la gravità delle conseguenze quali quelle della risoluzione di diritto del contratto. Tanto più che nel caso di specie si è trattato solo del ritardato pagamento della rata trimestrale di canone di ottobre 2004. Non avrebbe perciò potuto essere accolta la domanda di risoluzione di diritto del contratto”. In relazione a tale motivazione, la ricorrente contesta che la clausola di cui all'art. 22 non sarebbe stata chiara, atteso il suo tenore, che riproduce ed è il seguente Le parti attribuiscono alle clausole 3-4-6-7-9-11-15-16-17-18-19-21 carattere essenziale la violazione pertanto anche di una sola di tali clausole darà diritto alla locatrice di ritenere risolto il presente contratto ai sensi dell'art. 1456 c.c.”. Va considerato che nella parte del ricorso dedicata all'esposizione del fatto trovasi riprodotto il contratto locativo, dove effettivamente si riscontra la corrispondenza della riproduzione a quanto ivi risulta. La ricorrente sostiene che l'art. 1456 c.c. non richiede l'uso di formule particolari o sacramentali, ritenendo sia sufficiente l'indicazione della prestazione non eseguita e la relativa conseguente risoluzione del contratto elementi questi entrambi presenti nell'art. 22 del contratto di locazione”. Rileva ancora che nella specie la risoluzione era anche ricollegata all'inadempimento dell'obbligazione principale della conduttrice, quella di pagare il canone. p.8. Con il settimo motivo si prospetta violazione e falsa applicazione dell'art. 1456 c.c. in rapporto con l'art. 1362 e 1363 c.c. art. 360, comma I, n. 3 c.p.c. e vi si sostiene che nell'interpretazione dell'accordo contrattuale quanto alla clausola risolutiva espressa la Corte territoriale non avrebbe applicato le norme degli artt. 1362 e ss. e in particolare l'art. 1363 c.c., dato che in esso la risoluzione del contratto per inosservanza del pagamento del canone, oltre ad essere menzionata nell'art. 22, lo era anche nell'art. 8, dove era previsto che in caso di mancato pagamento del canone di locazione e/o delle spese accessorie, qualora la locatrice non dovesse avvalersi della facoltà di considerare risolto il contratto, la conduttrice sarà tenuta alla corresponsione di un interesse di mora . ”. Da tale ultima clausola emergeva che sia il mancato che il ritardato pagamento del canone esponeva la conduttrice al rischio di vedersi comminare la risoluzione del contratto per inadempienza. p.9. L'esame dei due motivi può procedere congiuntamente. Essi sono fondati. Lo è il sesto, perché l'assunto della Corte veneziana che la clausola risolutiva sarebbe generica e perplessa non è in alcun modo giustificato in relazione al suo tenore. La genericità parrebbe sostenuta, atteso che si parla di generico richiamo , con l'argomento che il richiamo dell'art. 22 all'art. 3 non preciserebbe se l'effetto dell'automatica risoluzione fosse ricollegato al mancato pagamento di una rata trimestrale oppure a plurimi inadempimenti. Alla mancanza di chiarezza, invece, non è fatto uno specifico riferimento, salvo che ad essa si debba raccordare il rilievo che non sarebbe chiaro se a far scattare la clausola sia il semplice ritardo oppure l'entità dello stesso. p.9.1. Tanto rilevato, il Collegio osserva anzitutto che non è revocabile in dubbio che la clausola contrattuale dell'art. 22 integrasse una idonea clausola risolutiva espressa, atteso che il suo tenore non fa riferimento genericamente all'inadempimento di tutte le obbligazioni o delle clausole contrattuali, ma ne elenca alcune ben individuate. Non può venire, dunque, in evidenza quel condivisibile orientamento di questa Corte da ultimo Cass. n. 1950 del 2009 secondo cui Per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell'inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, restando estranea alla norma di cui all'art. 1456 cod. civ. la clausola redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto, con la conseguenza che, in tale ultimo caso, l'inadempimento non risolve di diritto il contratto, sicché di esso deve essere valutata l'importanza in relazione alla economia del contratto stesso, non essendo sufficiente l'accertamento della sola colpa, come previsto, invece, in presenza di una valida clausola risolutiva espressa”. Premesso tale rilievo, si deve innanzitutto osservare che il tenore della clausola quanto al richiamo alla clausola 3 come alle altre è fatto con l'espressione per cui la violazione pertanto anche di una soltanto di tali clausole darà diritto alla locatrice di ritenere risolto il presente contratto ai sensi dell'art. 1456 c.c.”. Ebbene, essa è idonea a sussumere come violazione, idonea a giustificare la risoluzione in forza della clausola risolutiva espressa, di quanto nella clausola 3 è previsto come obbligazione della conduttrice. Ora, tale clausola stabiliva che il canone doveva essere pagato in rate trimestrali anticipate nei primi cinque giorni di gennaio, aprile, luglio e ottobre di ogni anno”. Ne segue che, secondo il richiamo della clausola 22, integrava senza dubbio una violazione della clausola 3 il mancato pagamento di una rata entro i primi cinque giorni da ciascuna scadenza fissata. Non è dato allora comprendere come possa reputarsi generica la clausola risolutiva espressa in quanto ricollegata alla violazione della clausola dell'art. 3, poiché, per come tale clausola esprimeva ed identificava con puntualità e specificità il momento di adempimento dell'obbligazione periodica di pagamento del canone, la sua violazione non poteva che verificarsi non solo con riferimento al mancato pagamento di ciascuna rata, ma, data la previsione di un termine di adempimento specifico i primi cinque giorni di ogni mese indicato per le quattro rate , anche con riferimento alla inutile scadenza di tale termine. Il richiamo dell'art. 22 alla violazione della clausola 3, una volta coordinato con il suo chiaro tenore, palesava, dunque, l'assoluta specificità dell'inadempimento assunto come giustificativo dell'effetto risolutivo espresso ciò, come mero riflesso della specificità delle previsioni della clausola 3 circa il pagamento del canone, cioè in ordine all'obbligazione contemplata da quest'ultima. Non si comprende, dunque, come la Corte veneziana possa avere supposto la genericità della clausola dell'art. 22, in quanto richiamante la violazione dell'art. 3, affermando che non si riesce a comprendere se secondo detta clausola fosse sufficiente a giustificare la risoluzione di diritto l'inadempimento di una rata o di più rate”. Invero, assumendo l'art. 22 la violazione della clausola di cui all'art. 3 e contenendo questa chiaramente la previsione di quattro rate di pagamento dell'obbligazione di corresponsione del canone con l'individuazione dei termini di scadenza di ognuna, detta violazione risultava necessariamente contemplata come rilevante proprio con rifermento a tale specifico ripartizione dell'adempimento di detta obbligazione. Del tutto contraria al tenore della clausola di cui all'art. 3 è la valutazione di mancanza di chiarezza sul se fosse rilevante il semplice ritardo, atteso che l'obbligazione di pagamento del canone siccome individuata dall'art. 3 risultava violata comunque ove il pagamento di una rata non fosse avvenuto nei primi cinque giorni dalla scadenza fissata, dato che questo comportamento, secondo la previsione dell'art. 3 integrava senza possibilità di dubbio la violazione del suo disposto evocata dall'art. 22. Il criterio di esegesi di cui all'art. 1363 c.c., invocato come non applicato dal settimo motivo, sulla base del chiaro disposto dell'art. 8, sebbene fondato e del tutto pretermesso dalla Corte lagunare, diventa a questo punto - data l'esaustività dell'esegesi dell'art. 22 e dell'art. 3 - perfino superfluo, perché ciò che in esso si ribadisce, cioè il restar ferma la facoltà della locatrice di avvalersi della clausola risolutiva sarebbe stato già pienamente espresso dalla stessa clausola di cui all'art. 3, giusta quanto appena sopra osservato, sicché la previsione dell'art. 8 assume solo valore certamente confermativo di quanto dalla clausola risolutiva espressa risultante dalla combinazione fra art. 22 e art. 3 già emergeva pienamente. Semmai sarebbe stata la previsione contraria dell'esclusione dell'operatività della clausola risolutiva espressa ad assumere valore di riduzione dell'ampiezza della stessa. Conclusivamente la Corte veneziana ha erroneamente ritenuto che l'art. 22, in quanto richiamante l'art. 3, non integrasse una idonea clausola risolutiva espressa relativamente all'inadempimento a ciascuna scadenza dell'obbligazione di pagamento rateale del canone annuale. p.10. Sulla base delle considerazioni svolte la sentenza impugnata dev'essere conseguentemente cassata in accoglimento del sesto e settimo motivo, perché la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che la clausola dell'art. 22, in quanto richiamante la clausola dell'art. 3, non attribuisse al mancato pagamento di una rata del canone alla scadenza in esso pattuita l'effetto di determinare la risoluzione di diritto del contratto. Rimane a questo unto assorbito l'ottavo motivo, con cui si fa valere violazione e falsa applicazione dell'art. 1453 c.c. e dell'art. 1455 c.c. art. 360, comma I, n. 3 c.p.c. , censurandosi la valutazione con la quale la sentenza impugnata, una volta escluso che sussistessero le condizioni della risoluzione di diritto sulla base della clausola risolutiva espressa, ha anche negato che sussistessero gli estremi per la risoluzione ai sensi dell'art. 1453 c.c. Il Collegio, infatti, rileva che ricorrano le condizioni per decidere nel merito dell'appello quanto alla esclusione della risoluzione di diritto, perché, una volta superata, per effetto della disposta cassazione, la negazione della sussistenza di una idonea clausola risolutiva espressa nell'art. 22 del contratto in quanto richiamante la violazione dell'art. 3 dello stesso, tale violazione risulta verificata senza che occorrano accertamenti di fatto e, pertanto, la domanda di risoluzione del contratto locativo per la verificazione della fattispecie di risoluzione di diritto sulla base della clausola risolutiva espressa risulta fondata e deve essere accolta. Risulta, infatti, pacifico, come attesta la stessa sentenza quando esamina la domanda di risoluzione per inadempimento ai sensi dell'art. 1453 c.c., che la rata trimestrale di canone venuta a scadere il cinque ottobre del 2004 e posta a base dell'intimazione di convalida di sfratto non venne onorata alla scadenza e che nell'intimazione, notificata il 1 dicembre 2004 la locatrice qui ricorrente dichiarò di volersi avvalere dell'effetto risolutivo così determinatosi. Risulta anche dal tenore della comparsa di risposta depositata all'udienza del 10 gennaio 2005, pure riprodotto nell'esposizione del fatto nel ricorso, che la conduttrice comunicava in data 10 dicembre 2004 di voler sanare il debito e, quindi, provvedeva ad un tentativo di offerta reale il 22 dicembre 2004, del quale la sentenza impugnata si è occupata disattendendo una questione di costituzionalità sollevata con l'appello dalla stessa conduttrice. Emerge, dunque, che con l'esercizio dell'azione nella forma speciale la locatrice aveva dichiarato di volersi avvalere della clausola risolutiva e, quindi, alla data della notifica di intimazione ebbe verificarsi l'effetto della risoluzione del contratto per inadempimento della conduttrice. Non occorrendo alcun accertamento di fatto per pervenire a tale convincimento, il Collegio, pronunciando sul merito dell'appello quanto alla fondatezza dell'azione di risoluzione di diritto della locatrice, ne accerta la fondatezza e dichiara risolto alla data del 1 dicembre 2004 il contratto locativo ai sensi del secondo comma dell'art. 1456 c.c. in forza della clausola risolutiva espressa di cui all'art. 22 del contratto, in quanto richiamante la violazione dell'art. 3 dello stesso contratto, siccome avvenuta per effetto del mancato pagamento alla scadenza della rata di canone che avrebbe dovuto essere corrisposta il 5 ottobre 2004. Mancato pagamento che perdurava al 1 dicembre 2004, cioè quando dell'effetto risolutivo di diritto la locatrice dichiarò di volersi avvalere. p.10.1. La conduttrice dev'essere condannata al rilascio dell'unità immobiliare, se non avvenuto, ed all'uopo si fissa termine ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392 del 1978 di giorni trenta dalla pubblicazione della presente. Su tale circostanza il difensore della ricorrente comparso in udienza, a richiesta del Relatore, non ha saputo fornire risposta, perché privo di informazione al riguardo. p.10.2. Le spese dei due gradi merito possono compensarsi, dato che l'ordinanza di convalida venne pronunciata illegittimamente e considerato che l'appello sulla relativa questione era fondato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. P.Q.M. La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso. Accoglie il sesto ed il settimo motivo. Dichiara assorbito l'ottavo. Cassa la sentenza impugnata in relazione e, pronunciando nel merito, dichiara risolto per inadempimento alla data del 1 dicembre 2004 il contratto di locazione ad uso commerciale corrente fra le parti relativamente al locale di mq. 71, sito nel Centro Commerciale omissis , in omissis . Condanna l'intimata al rilascio dell'unità immobiliare e fissa per l'esecuzione del rilascio, ove già non avvenuto, la data di trenta giorni dopo la pubblicazione della presente sentenza. Compensa le spese dei due gradi di merito. Condanna l'intimata alla rifusione alla ricorrente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro settemilacinquecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generai ed accessori come per legge.