L’imprenditore che trae vantaggio dall’incontro con Cosa Nostra è colluso, non partecipe

Può considerarsi concorrente esterno, cioè colluso” con la mafia, l’imprenditore che stabilisce un rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse, servizi o utilità.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37726, depositata il 15 settembre 2014. Il caso. In primo grado, gli odierni imputati, tutti imprenditori, venivano riconosciuti, dal Tribunale, legati, a vario titolo, al sodalizio mafioso denominato Cosa Nostra. La Corte d’Appello, decidendo sulle impugnazioni del pubblico ministero e degli imputati, riformava parzialmente la decisione di prime cure e, seppur confermandone l’impostazione di base, pronunciava alcune assoluzioni, riduceva la pena nei confronti di alcuni imputati e ribadiva la condanna per partecipazione ad associazione mafiosa per altri. Quattro degli allora imputati proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte territoriale. Il concorrente esterno. Secondo la giurisprudenza di legittimità, assume il ruolo di concorrente esterno colui che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione, quindi privo dell’ affectio societatis , fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, che si configuri come condizione necessaria quantomeno per il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, anche in relazione ad un suo particolare settore e ramo di attività o di articolazione territoriale, e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso rafforzamento che deve essere in relazione eziologica con la condotta attuata dal concorrente, la cui verifica è praticabile soltanto in virtù di un accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza di tale condotta nella vita e nell’operatività del sodalizio criminoso Cass., Sez. VI, n. 542/07 Cass., SS.UU., n. 33748/05 . L’imprenditore colluso”. Con riferimento alla figura dell’imprenditore, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che può considerarsi concorrente esterno, cioè colluso” con la mafia, quello che stabilisce un rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse, servizi o utilità, precisando che l’imprenditore vittima” è quello che, soggiogato dall’intimidazione, non tenta di venire a patti col sodalizio, ma cede all’imposizione e subisca il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno Cass., Sez. I, n. 30534/10 Cass., Sez. V, n. 39042/08 . La mancanza dell’affectio societatis. Nel caso di specie, nelle condotte poste in essere dai ricorrenti non si rinviene una totale, seppur temporanea, messa a disposizione dell’organizzazione criminale, quanto piuttosto una sorta di cointeressenza tra associazione mafiosa e imprenditore, che sembrerebbe collocare quest’ultimo non all’interno, ma semmai all’esterno della stessa associazione. Sicché non sembra essere dinanzi a partecipazione all’associazione mafiosa, bensì alla figura dell’imprenditore colluso, cioè di chi ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere venuto in relazione col sodalizio mafioso. Per questi motivi la Corte accoglie i ricorsi e annulla con rinvio la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 10 aprile– 15 settembre 2014, n. 37726 Presidente Agrò– Relatore Fidelbo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa dal Tribunale di Sciacca il 10 febbraio 2011 gli odierni imputati, tutti imprenditori, sono stati riconosciuti, assieme ad altri coimputati, legati, a vario titolo, al sodalizio mafioso denominato cosa nostra, nella sua articolazione territoriale agrigentina. Le vicende si sono sviluppate nell'ambito delle attività economiche, aventi ad oggetto soprattutto forniture di calcestruzzo, che sarebbero state gestite, direttamente o indirettamente, da appartenenti all'associazione mafiosa denominata cosa nostra nonché da alcuni imprenditori locali, realizzando un sistema di controllo degli appalti attraverso l'utilizzo di metodi mafiosi e riuscendo così a evitare la concorrenza di altre ditte nel territorio della provincia di Agrigento. La Corte d'appello di Palermo, decidendo sulle impugnazioni del pubblico ministero e degli imputati, con la sentenza del 18 luglio 2012 ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale e, seppur confermandone l'impostazione di base, ha pronunciato alcune assoluzioni, ridotto la pena nei confronti di alcuni imputati, tra cui Ca.Gi. , ribadendo le condanne di Ca.Fi. e B.V. per partecipazione ad associazione mafiosa infine, ha ritenuto C.R. colpevole del reato di associazione mafiosa dal quale era stato assolto. Alla base delle pronunce di merito vi sono soprattutto i risultati delle intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte nella fase delle indagini preliminari, nonché le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in particolare di D.G.M. , S.G. e R.C. . 2. Con sentenza del 21 ottobre 2013 le posizioni di B.V. , C.R. , Ca.Gi. e Ca.Fi. sono state separate, rinviando a nuovo ruolo la discussione dei rispettivi ricorsi al fine di consentire la difesa anche in ordine alla possibile riqualificazione giuridica del reato associativo, per il quale è stata ritenuta la loro responsabilità, in quello di concorso esterno in associazione. 3. B.V. . 3.1. La Corte d'appello ha confermato la condanna di B.V. a dodici anni di reclusione inflitta dal primo giudice per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa, aggravato ai sensi dell'art. 416-bis commi 4 e 6 c.p., contestato al capo A . I giudici di appello hanno ritenuto provata la sua partecipazione al sodalizio criminoso sulla base delle numerose intercettazioni da cui sarebbe emerso che l'imputato, assieme ai Ca. , fosse un imprenditore allineato nell'organizzazione mafiosa, disponibile ad operare in favore di essa in cambio di un proprio ritorno economico. Il riferimento è ad alcune conversazioni intercettate, come quelle del 5.5.2006 e del 21.6.2007 tra G.G. capo mandamento di Sambuca e L.R.G. o quelle del 22.9.2006 e del 19.10.2006 tra lo stesso B. e D.C.L. , su cui la sentenza si sofferma per ricavarne la dimostrazione del pregresso inserimento del B. nell'organizzazione mafiosa nel territorio di Menfi, dei suoi risalenti collegamenti con esponenti di spicco della mafia agrigentina, del suo spasmodico attivarsi nell'interesse dell'impresa gestita assieme ai fratelli Ca. per ottenere l'aggiudicazione di forniture di calcestruzzo e dell'esistenza di veri e propri accordi stretti con il sodalizio mafioso finalizzati alla realizzazione di reciprochi interessi, così integrando la veste dell'imprenditore colluso con la mafia. In base all'analisi del contenuto delle conversazioni indicate i giudici di secondo grado hanno ritenuto dimostrata la sua diretta partecipazione, seppure di fatto, alla consorteria mafiosa. Inoltre, i giudici hanno sostenuto che a supporto di tale materiale probatorio si pongano anche le accuse del collaboratore di giustizia R.C. , il quale ha sostenuto che B. , assieme ai Ca. , fosse stato incaricato sin dagli anni 90 di curare nel territorio di Menfi, privo di una famiglia mafiosa, gli interessi di cosa nostra nel campo delle estorsioni. 3.2. Gli avvocati Tommaso Farina e Sandro Furfaro hanno proposto ricorso per cassazione nell'interesse dell'imputato. Con il primo motivo denunciano il vizio di motivazione e la violazione degli artt. 192, 526 e 533 c.p.p., sostenendo che l'attribuzione al B. di una condotta di partecipazione all'associazione mafiosa non è stata provata né in via diretta, attraverso l'individuazione di una posizione rivestita dallo stesso all'interno dell'organizzazione, né in via indiretta, mediante il riferimento a condotte sintomatiche di una intraneità nel sodalizio criminale. Nel ricorso si sottolinea che la chiamata in correità del collaboratore di giustizia, R.C. , non risulta riscontrata, anzi è contraddetta dalle dichiarazioni di altri soggetti, tra cui, in particolare, D.C. inoltre, si rileva come i giudici non abbiano effettuato una verifica attenta sulla credibilità del R. , omettendo di considerare i motivi di astio esistenti con l'imputato. Con il secondo motivo si contesta la ritenuta sussistenza dell'aggravante del cd. riciclaggio, su cui mancherebbe la motivazione. Con il terzo motivo si contesta la ritenuta sussistenza dell'aggravante delle armi, non emergendo elementi da cui desumere né la disponibilità di armi da parte di un'associazione che è stata definita come semplicemente inserita in cosa nostra , né che l'imputato ne fosse comunque a conoscenza. Con l'ultimo motivo si lamenta la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la eccessività della pena, anche sotto il profilo della mancata motivazione. 3.3. In data 14 marzo 2014 il difensore dell'imputato ha depositato motivi nuovi in cui contesta la sussistenza del concorso esterno nel reato associativo e, in ogni caso, sottolinea come l'eventuale riconoscimento di tale forma di concorso dovrebbe comunque fermarsi al 2006, con conseguente necessità di fare applicazione della pena più mite prevista dall'art. 416-bis c.p. prima delle ultime modifiche apportate con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125. 4. Ca.Gi. . 4.1. La Corte d'appello ha confermato l'affermazione di responsabilità di Ca.Gi. per il reato di cui all'art. 416-bis commi 1, 4 e 6 c.p. contestato al capo H , ma ha ridotto la pena inflitta dal primo giudice a dodici anni di reclusione. L'imputato è stato accusato, assieme al fratello Fi. , di aver fatto parte, quale uomo d'onore , della famiglia mafiosa di Menfi, svolgendo compiti di raccordo con gli associati e, soprattutto, gestendo le attività estorsive nel territorio in particolare, nella veste di imprenditore e titolare della CA.C.F. s.n.c. di Ca.Gi. e Fi. si sarebbe avvalso della forza di intimidazione della consorteria mafiosa, aggiudicandosi illecitamente forniture di cemento ed altro materiale per la realizzazione di opere pubbliche, ponendo in essere condotte estorsive ai danni di altri imprenditori e fornendo informazioni ai vertici del mandamento di Sciacca, nelle persone di R.C. e G.G. , circa i lavori pubblici in corso nella zona e le imprese impegnate, così consentendo le attività estorsive da parte dell'organizzazione criminale. In altri termini, l'imputato è stato ritenuto un imprenditore colluso , legato con l'associazione mafiosa da un rapporto sinallagmatico, in cui rendeva favori al sodalizio criminoso, che in cambio assicurava il controllo del mercato del calcestruzzo, impedendo ad altre imprese di ingerirsi nel territorio e dirigendo il traffico imprenditoriale anche imponendo l'obbligo del rispetto dei patti. Le prove, secondo la sentenza impugnata, sarebbero costituite dagli esiti delle intercettazioni, dalle dichiarazioni dei collaboratori R. e S. , dalle testimonianze di D.C. e T. . 4.2. Nell'interesse dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione l'avvocato R.G. . Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 210, 197-bis, 192 comma 3 e 546 comma 1 c.p.p., nonché il vizio di motivazione. Innanzitutto, si assume che i giudici di merito non hanno compiuto alcuna valutazione sulla attendibilità intrinseca di R.C. , collaboratore di giustizia e fonte di accusa dell'imputato. Sotto altro profilo il ricorrente evidenzia la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal R. a proposito dei fratelli Ca. , sottolineando la inconciliabilità e inverosimiglianza dei fatti riferiti, secondo cui prima sarebbero stati incaricati dai vertici del mandamento mafioso di Sambuca Su.Le. e Ca.Pi. di controllare il territorio menfitano, dopodiché i rapporti si sarebbero incrinati a causa della discussione insorta a seguito della vicenda , tanto da indurre lo stesso R. e il G. a progettare l'eliminazione dei Ca. , per poi, inaspettatamente, riferirsi alla successiva affiliazione dei Ca. a cosa nostra . Inoltre il ricorrente deduce il travisamento del fatto per omessa valutazione di prove decisive. Il riferimento è alle dichiarazioni dei collaboratori Ga.Ma. e S.G. che avrebbero smentito quanto riferito dal R. circa il ruolo svolto dai fratelli Ca. nel territorio di Menfi su incarico dei capo mandamento entrambi i collaboratori hanno escluso di conoscere i Ca. e di avere mai sentito parlare di loro come di imprenditori vicini a cosa nostra ovvero collusi con essa. Il travisamento riguarderebbe anche la vicenda in relazione alla quale i giudici avrebbero operato una ingiustificata parcellizzazione delle risultanze processuali, estromettendo una serie di elementi probatori favorevoli all'imputato. Inoltre, si sottolinea come quanto riferito in ordine all'affiliazione dei Ca. abbia ricevuto una smentita dalle dichiarazioni di g.t. , nella cui casa di campagna, secondo il R. , avvenne l'affiliazione dei Ca. alla presenza di Gu. , in quanto g. , sentito nell'udienza del 12.11.2010, ha escluso che vi sia stata mai una riunione presso la sua abitazione la Corte d'appello, contrariamente a quanto aveva fatto il Tribunale, ha ritenuto non inficiata l'attendibilità del R. e, nonostante la presenza di prove contrarie, dimostrata l'affiliazione. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 416-bis c.p. e il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta appartenenza all'associazione mafiosa. Viene criticata la sentenza per aver affermato che l'imputato, assieme al fratello, avrebbe assunto la veste di imprenditore colluso con la mafia, nonostante negli atti manchi ogni prova dell'affectio societatis più precisamente si sostiene che l'imputato, nella sua veste di imprenditore, non avrebbe mai stabilito relazioni stabili e continuative con la mafia al fine di ottenere una serie di vantaggi per sé e per la stessa organizzazione, ma sarebbe stato uno dei tanti imprenditori vittime delle pretese estorsive mafiose, cioè non un imprenditore colluso, ma subordinato all'organizzazione criminosa. Con il terzo ed ultimo motivo si deduce l'erronea applicazione delle circostanze aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell'art. 416 c.p Il ricorrente assume che nella stessa ottica della sentenza l'aver qualificato l'imputato come imprenditore colluso, in assenza della prova della sua affiliazione, non consente di ritenere applicabili, quasi automaticamente, le due aggravanti, dovendo riconoscersi l'estraneità del Ca. alle dinamiche strutturali ed organizzative della consorteria. Sotto un ulteriore profilo della mancanza di motivazione si censura la sentenza per avere negato le circostanze attenuanti generiche. 4.3. L'avvocato R.G. ha depositato due memorie difensive il 4 e il 10 aprile 2014 in cui, preso atto del rinvio disposto nella scorsa udienza e finalizzato a consentire alla difesa degli imputati di interloquire sull'ipotesi del concorso esterno, assume la necessità che per garantire appieno il contraddittorio in ordine alla possibile diversa qualificazione giuridica del fatto contestato al Ca. occorrerebbe procedere ad un nuovo grado di merito. In ogni caso, sostiene l'estraneità dell'imputato anche con riferimento all'ipotesi del concorso esterno nel reato associativo, ribadendo che è stato non un imprenditore colluso o vicino alla mafia, ma una vittima dell'organizzazione delittuosa. 5. Ca.Fi. . 5.1. Anche in relazione alla posizione di Ca.Fi. la Corte d'appello ha confermato la decisione di primo grado che aveva ritenuto l'imputato responsabile del reato di associazione mafiosa aggravato ai sensi dei commi 4 e 6 dell'art. 416-bis c.p. capo H , condannandolo alla pena di dodici anni di reclusione. I giudici hanno richiamato le argomentazioni spese nell'esaminare la posizione del fratello Gi. , rilevando che si tratta di situazioni che hanno molti aspetti in comune, avendo i due condiviso la gestione della medesima società, la CACF s.n.c. di Ca.Gi. & amp Fi. , realizzando un rapporto di collusione stretto con il sodalizio mafioso in vista della realizzazione dei propri interessi economici. 5.2. Nell'interesse dell'imputato sono stati proposti due distinti ricorsi per cassazione, da parte dei suoi difensori di fiducia. Nel ricorso redatto dall'avvocato Tommaso De Lisi sono stati proposti quattro motivi ed allegati una serie di documenti per dimostrare l'esistenza del vizio di motivazione anche in rapporto ad atti processuali. Il primo deduce il vizio di motivazione sostenendo, da un lato, che i giudici d'appello hanno fatto un uso erroneo della motivazione per relationem alla posizione del fratello Gi. , omettendo di esaminare la specificità della situazione del ricorrente e incorrendo nel mancato rispetto del principio della personalità della responsabilità penale facendo continuo riferimento ai fratelli Ca. , dall'altro, che il ricorso a questo tipo di motivazione ha comportato l'elusione dell'obbligo di motivare in rapporto alle specifiche doglianze fatte valere con l'appello. Il secondo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione anche in rapporto alle dichiarazioni rese dal collaboratore R.C. . In particolare, le dichiarazioni del collaboratore vengono sottoposte ad una serie di critiche con riferimento sia alla loro mancata spontaneità e genuinità, rilevata nei motivi d'appello ai quali sarebbe mancata ogni risposta da parte dei giudici, sia alla mancanza di riscontri. Riguardo ai riscontri rappresentati dalle dichiarazioni di S. e di D.G. il ricorrente assume che siano state travisate dai giudici i quali non avrebbero considerato che entrambi hanno escluso ogni coinvolgimento di Ca.Fi. con la consorteria mafiosa stesso discorso per quanto concerne il preteso ruolo di riscontro delle dichiarazioni di D.C. e di T. . Il terzo motivo riguarda anch'esso il vizio di motivazione, con particolare riferimento alla valenza che la sentenza ha dato alle intercettazioni. Si evidenzia come la sentenza non abbia risposto alle critiche riguardanti il contenuto delle intercettazioni finendo per dare dei risultati delle conversazioni captate una valutazione determinante in funzione dell'affermazione della responsabilità dell'imputato. In sostanza, viene sottoposta a critica la sentenza per avere ritenuto l'imputato un imprenditore intraneo alla mafia, senza alcuna prova dell'esistenza di un rapporto sinallagmatico con l'associazione criminosa in forza del quale avrebbe assunto una posizione dominante sul mercato consentendo all'associazione stessa di ottenere utilità di vario genere. Si sottolinea, inoltre, come le dichiarazioni di g. , che ha escluso la presenza dell'imputato nella sua abitazione di campagna, non siano state considerate e valutate per sconfessare quanto sostenuto da R. circa l'affiliazione di Ca. e per mettere in crisi l'intera costruzione accusatoria. Il quarto motivo riguarda l'immotivata esclusione delle attenuanti generiche. 5.3. Il ricorso presentato dall'avvocato Roberta Minotti contiene otto motivi. Il primo attiene alla mancata dimostrazione della sussistenza dell'elemento soggettivo nel reato di associazione mafiosa. Il secondo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 416-bis c.p. e il vizio di motivazione in relazione alla mancata qualificazione della condotta nel reato di favoreggiamento personale, stante la mancanza di una relazione stabile e di una manifesta compenetrazione nell'impresa criminale. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell'art. 192 comma 3 c.p.p. e il conseguente vizio di motivazione, in quanto i giudici non hanno accertato l'attendibilità della dichiarazioni del collaboratore di giustizia R. , né hanno verificato la presenza dei necessari riscontri. Si sottolinea che il R. ha iniziato il suo percorso di collaborazione solo dopo aver letto gli atti del processo sicché le sue dichiarazioni non avrebbero potuto essere ritenute spontanee e genuine inoltre, i giudici hanno ritenuto riscontrate le sue accuse utilizzando in modo circolare il materiale probatorio. Con il quarto motivo il vizio di motivazione viene dedotto in relazione ad alcuni episodi su cui la sentenza ha costruito la sua decisione, ritenendoli riscontri delle accuse del R. . Innanzitutto si contesta quanto sostenuto dal collaboratore circa il fatto che l'imputato avrebbe avuto, assieme al fratello G. , il ruolo di incaricato della famiglia mafiosa di Menfi, evidenziando una serie di contraddizioni in cui sarebbe caduto il dichiarante, peraltro sconfessato da quanto riferito dai collaboratori D.G.M. e S.G. inoltre, si rileva il travisamento dei fatti con riferimento alla ricostruzione delle vicende legate all'acquisto dell'impianto del D. , osservando che se i Ca. fossero stati effettivamente i rappresentanti della famiglia di Menfi non sarebbero stati scavalcati dai C. nella trattativa per tale impianto. Il quinto motivo è dedicato all'episodio della , relativo al subappalto per la fornitura del calcestruzzo per il rifacimento della strada statale 115 di Sciacca a questo proposito si denuncia un ennesimo vizio di motivazione in quanto la sentenza non avrebbe dato credito alle dichiarazioni rese dai fratelli Ca. secondo cui avrebbero consegnato a R. i 35.000 Euro per ottenere il subappalto tramite il geometra P. , nonostante tale versione risultasse confermata dall'intercettazione del 5.5.2006 presso l'officina di g.t. tra G.G. e L.R.G. . Con il sesto motivo si lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche nonostante l'incensuratezza di Ca.Fi. . Il settimo motivo contiene critiche alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell'art. 416-bis c.p Con l'ottavo motivo si deduce la violazione dell'art. 438 comma 5 c.p.p. per il mancato accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, formulata all'udienza preliminare e reiterata in dibattimento. 5.4. Successivamente l'avvocato Roberta Minotti ha depositato un nuovo motivo di ricorso deducendo l'illegittimità della pena irrogata per violazione dell'art. 2 c.p., in quanto nella specie andava applicata la sanzione prevista dall'art. 416-bis c.p. prima delle modifiche intervenute con la legge 23.7.2008 che ha inasprito la pena originariamente prevista. 5.5. In data 26 e 27 marzo 2014 gli avvocati Roberta Minotti e Tomaso De Lisi hanno depositato motivi nuovi con cui da un lato ribadiscono l'illogicità della motivazione che ha affermato la responsabilità dell'imputato in qualità di partecipe dell'associazione mafiosa, dall'altro deducono l'erronea applicazione della legge penale per non avere riconosciuto la sussistenza del diverso reato di concorso esterno in associazione. Inoltre, con ulteriori motivi censurano le riconosciute aggravanti di cui ai commi 4, 5 e 6 dell'art. 416-bis c.p 6. C.R. . 6.1. In primo grado C.R. è stato assolto dai reati di estorsione di cui ai capi I e N perché il fatto non sussiste per il reato associativo di cui al capo A è stato assolto per non aver commesso il fatto, limitatamente al periodo successivo al 29 aprile 1997, mentre per il periodo precedente 28.5.1994-29.4.1997 il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere per l'esistenza di giudicato. Sull'appello del pubblico ministero la Corte territoriale ha confermato le assoluzioni per gli episodi di estorsione, mentre ha riformato la decisione di primo grado in ordine al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, condannando l'imputato alla pena di dodici anni di reclusione, oltre alle pene accessorie e la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni due. I giudici di secondo grado sono pervenuti a conclusioni diverse dalla prima sentenza, da un lato, prendendo in considerazione le sentenze irrevocabili che hanno accertato il suo inserimento nell'associazione mafiosa, in particolare nell'ambito del gruppo facente capo ad Si.An. , dall'altro, con specifico riferimento al processo in questione, valorizzando le dichiarazioni accusatorie di Di.Gi. , confermate da quelle del fratello Fr. , dalle quali emergerebbe che anche successivamente al 1997 C.R. era partecipe dell'associazione mafiosa, come dimostrerebbe il suo interessamento diretto ad evitare che altre imprese potessero occuparsi delle forniture di calcestruzzo nel territorio di sua competenza. A questo proposito la sentenza si riferisce ad un incontro organizzato in un casolare di Roccamena, risalente al 2001/2002, in cui, presente anche C.R. , venne intimato allo stesso Di. di non portare il calcestruzzo nei comuni di Poggioreale, Salaparuta, Santa Margherita Montevago in quanto quelli erano gli ordini di gu.fi. , cognato di M.D.M. , al quale si erano rivolto proprio i fratelli C. , proprietari di un impianto a Montevago analoga situazione si sarebbe verificata in un altro incontro, sempre riferito dal Di. e risalente al 2006/2007, avvenuto tra quest'ultimo e G.G. , in cui quest'ultimo ribadì che il calcestruzzo non poteva essere fornito nei comuni di Santa Margherita e Montevago, nonché nel trapanese, in quanto vi erano accordi trentennali in base ai quali in quelle zone lavoravano i C. . Inoltre, dalle dichiarazioni rese da Di.Fr. , nonché da V.A. e da R. , la Corte d'appello ha tratto la convinzione che la divisione delle proprietà e delle società dei fratelli C. , collocabile nel dicembre 2003, è stata solo formale, in quanto C.R. ha continuato ad occuparsi, assieme al fratello V. , delle imprese operanti nel settore del calcestruzzo, come dimostrerebbe l'episodio dell'acquisto dell'impianto di D. , cui prese parte attivamente lo stesso imputato, provato anche dalle intercettazioni acquisite. 6.2. Gli avvocati Giovanni Vaccaro e Ugo Castagno, nell'interesse dell'imputato, hanno proposto ricorso per cassazione. Con il primo motivo deducono la violazione dell'art. 521 c.p.p. e la conseguente nullità della sentenza, in quanto non vi sarebbe correlazione con le contestazioni di cui al capo A . Con il secondo motivo, in cui si denuncia la mancanza e l'illogicità della motivazione rispetto alle prove acquisite e alle memorie difensive prodotte, vengono analizzate le due sentenze di merito e si sottolinea come in quella di appello i giudici non avrebbero preso in considerazione tutti gli elementi di prova favorevoli sui quali il Tribunale di Sciacca ha basato la sentenza di assoluzione. In particolare, si evidenzia - che la Corte territoriale non avrebbe minimamente tenuto conto della memoria difensiva del 22.6.2012 - che il riferimento ai rapporti che C.R. avrebbe avuto con Si.An. riguardano epoche diverse da quelle oggetto della contestazione - che non vi è stato nessun controllo del territorio e delle forniture di calcestruzzo da parte dell'imputato, in quanto anche i Di. hanno continuato a fornire inerti nella provincia di Agrigento - che l'attribuzione all'imputato del ruolo di affiliato di fatto non è minimamente provato, anzi le sentenze assolutorie citate escludono la sua appartenenza alla mafia e del resto la stessa sentenza impugnata ricorre ad espressioni incerte quando si riferisce al concetto di verosimiglianza - che le dichiarazioni dei Diesi sono state ritenute attendibili senza considerare che si trattava dei concorrenti dei C. e che, soprattutto, non risultano riscontrate, anzi sono sconfessate dai testimoni sentiti ai sensi dell'art. 507 c.p.p. di cui non vi è alcuna traccia nella motivazione Sa.Fi. , I.F. , F.G. , Pe.Fr. , Ri.Ni. , c.j. - che l'affermazione in ordine alla divisione solo formale delle società tra i fratelli C. non è dimostrata - che la circostanza, riferita in sentenza, della compensazione dei crediti delle società di C.R. in occasione dell'operazione di acquisto dell'impianto di D. non corrisponde al vero, in quanto risulterebbe dalla documentazione in atti l'avvenuto pagamento dei debiti in favore dell'imputato da parte di D.G. - che le dichiarazioni di V. e R. sono del tutto generiche e non appaiono riscontrate - che dall'unica intercettazione in cui risulta la presenza di C.R. 7.5.2006 si evince l'estraneità dell'imputato alle vicende cui si riferiscono i conversanti - che i giudici non hanno considerato i danneggiamento e i furti subiti dalle imprese dell'imputato, circostanze che contraddicono la sua pretesa appartenenza alla mafia - che i giudici di secondo grado non hanno considerato l'assoluzione dell'imputato di cui alla sentenza del 10.6.1998 prodotta in atti. 6.3. L'avvocato Giovanni Vaccaro ha depositato due memorie difensive -in data 4 e 10 aprile 2014 - in cui, preso atto del rinvio disposto nella scorsa udienza e finalizzato a consentire alla difesa degli imputati di interloquire sull'ipotesi del concorso esterno, assume la necessità che per garantire appieno il contraddicono in ordine alla possibile diversa qualificazione giuridica del fatto contestato al Ca. occorrerebbe procedere ad un nuovo grado di merito. In ogni caso, sostiene l'estraneità dell'imputato anche con riferimento all'ipotesi del concorso esterno nel reato associativo, ribadendo che è stato non un imprenditore colluso o vicino alla mafia, ma una vittima dell'organizzazione delittuosa. Considerato in diritto 7. Appare preliminare affrontare la questione della esatta qualificazione giuridica dei fatti contestati agli imputati. 7.1. Come si è già accennato, con sentenza del 21 ottobre 2013 sono state separate le posizioni degli attuali ricorrenti e disposto il rinvio a nuovo ruolo per consentire alla difesa di interloquire anche in ordine alla possibile riqualificazione giuridica del reato associativo, per il quale è stata ritenuta la loro responsabilità, in quello di concorso esterno in associazione. All'esito dell'udienza del 10 aprile 2014, il collegio ritiene che i fatti attribuiti agli imputati possano, astrattamente, essere qualificati nel diverso reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, assume il ruolo di concorrente esterno colui che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione, quindi privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, che si configuri come condizione necessaria quantomeno per il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione, anche in relazione ad un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso, rafforzamento che deve essere in relazione eziologica con la condotta attuata dal concorrente, la cui verifica è praticabile soltanto in virtù di un accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza di tale condotta nella vita e nell'operatività del sodalizio criminoso Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino Sez. VI, 10 maggio 2007, n. 542, Contrada . Con riferimento alla figura dell'imprenditore, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che può considerarsi concorrente esterno, cioè colluso con la mafia, quello che stabilisce un rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l'imprenditore nell'imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell'ottenere risorse, servizi o utilità, precisando che l'imprenditore vittima è quello che, soggiogato dall'intimidazione, non tenta di venire a patti col sodalizio, ma cede all'imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un'intesa volta a limitare tale danno Sez. I, 11 ottobre 2005, n. 46552, D'Orio Sez. V, 1 ottobre 2008, n. 39042, Samà Sez. I, 30 giugno 2010, n. 30534, Tallura . In nessuna delle posizioni esaminate sono evidenti elementi indizianti il pactum sceleris con riferimento al vincolo tra il singolo associato ed il sodalizio criminale, né pare rinvenibile il requisito dell’affectio societatis, in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un'associazione criminosa e di innestare la propria condotta nell'assetto organizzativo ed operativo di essa. Secondo una giurisprudenza consolidata al fine di accertare se l'autore di taluno dei delitti inquadrabili nel programma criminoso sia anche legato al vincolo associativo criminale, è necessario verificare, appunto, l’affectio societatis, cioè la sua consapevolezza, desumibile anche da fatti concludenti, di aver assunto siffatto vincolo, che non necessariamente deve essere indeterminato nel tempo, purché permanga al di là degli accordi particolari relativi alla realizzazione dei singoli episodi criminosi, in modo da costituire, nella sua fruizione propulsiva della criminalità così organizzata, un attentato all'ordine pubblico. Si ha partecipazione all'associazione quando, il contributo offerto, che può essere costituito anche dal semplice inserimento all'interno della compagine criminale, sia comunque tale da potere desumere che il soggetto assicuri la sua completa messa a disposizione dell'organizzazione mafiosa. Nelle condotte poste in essere dai ricorrenti e considerate nella sentenza impugnata non si rinviene una totale, seppure temporanea, messa a disposizione dell'organizzazione criminale, piuttosto risulta una sorta di cointeressenza tra associazione mafiosa e imprenditore, che sembrerebbe collocare quest'ultimo non all'interno, ma semmai all'esterno della stessa associazione, sicché si tratta di verificare se si è dinanzi effettivamente alla figura dell'imprenditore colluso, cioè di chi ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l'essere venuto in relazione col sodalizio mafioso. Tale verifica in concreto non può che spettare al giudice di merito, in sede di rinvio. Peraltro, in questo modo si riconosce agli imputati un grado di merito in cui discutere della nuova qualificazione dei fatti. 8. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo.