Paga con assegno scoperto, ma ostenta ricchezza … è un truffatore

Se il semplice pagamento effettuato mediante assegni privi di copertura non è sufficiente ad integrare il delitto di truffa, va diversamente valutata la suddetta condotta accompagnata da un quid pluris idoneo a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull’apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sulla sua serietà negoziale quali l’atteggiamento volto a dimostrare una condizione di benessere e disponibilità economiche, dando informazioni su acquisti simili già effettuati presso altri esercizi commerciali o informazioni inesistenti sulla propria attività professionale.

La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 33669 del 31 luglio, precisa i requisiti necessari ad integrare gli artifici e raggiri, tipizzanti la condotta di truffa. Rilevanza della dazione dell’assegno scoperto. Lungamente ci si è interrogati sulla possibile valenza penale della dazione a titolo di pagamento di un assegno privo di provvista, quale artificio o raggiro caratterizzante la condotta tipica del delitto di truffa di cui all’art. 640 c.p A fronte della condivisibile osservazione che dopo la depenalizzazione della emissione di assegni a vuoto” non poteva essere possibile che detta condotta integrasse sempre e comunque ed inevitabilmente quella del delitto di truffa, non sono, tuttavia, mancate pronunce, soprattutto di merito, che, invero, non si spingevano assai lontano da tale, non condivisibile, equiparazione. Si era ad esempio affermato che la creazione di una apparenza di solvibilità e di una volontà contrattuale mediante il ricorso ad artifici, quale deve essere considerato l'emissione di un assegno bancario in assenza della provvista, integra il reato di truffa. Tribunale Varese, 19 marzo 2007, in Foro ambrosiano 2007, 3, 328 . Anche la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che non v’è dubbio che il reato di truffa possa essere integrato dal rilascio di un assegno, in pagamento della merce acquistata, che si riveli successivamente inesigibile. Cass. penumero Sez. II, 30 ottobre 2003 numero 227683 Cass. penumero Sez. II, 10 giugno 1998 numero 21109 . Invero, una più attenta lettura della giurisprudenza di legittimità induce a trarre conclusioni parzialmente difformi allorché si consideri che anche di recente si è affermato che l'emissione di un assegno privo di copertura può integrare il reato di truffa solo se sia accompagnata da un comportamento dell'agente idoneo ad indurre in inganno chi riceve il titolo, vincendone le resistenze mediante assicurazioni sulle proprie intenzioni di pagare, atte ad ingenerare fiducia nella propria solvibilità. Cass. penumero , sez. II 15 maggio 2012, numero 20966 . Alle radici della problematica . Per il vero la soluzione della questione appena esaminata ha le sue radici nella annosa, assai risalente e dibattuta questione della rilevanza della menzogna o del silenzio quale elemento integrante gli artifici o i raggiri del delitto di truffa. Sul punto, infatti, in tema di menzogna non sono mancate, da un lato, pronunce che hanno riconosciuto penale rilevanza alla mera condotta menzognera, dall’altro, diverse sentenze che richiedevano la necessità che la stessa fosse accompagnata da una ulteriore attività dell’agente diretta a rendere più credibile e veritiera la dichiarazione menzognera. Il dibattito non difetta neppure in ordine alla rilevanza del silenzio”. Se infatti la giurisprudenza è consolidata nel riconoscere penale rilevanza al silenzio maliziosamente serbato da parte di chi aveva il dovere giuridico di far conoscere la circostanza occultata, non mancano in dottrina coloro che ritengono la truffa un reato a condotta positiva e vincolata , con conseguente inapplicabilità della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p È allora evidente come riconoscere penale rilevanza quale artificio o raggiro alle mera consegna di un assegno, risultato poi privo di copertura, significa riconoscere o meno valenza a condotte menzognere o di silenzio. La soluzione del caso. Quanto sopra osservato evidenzia immediatamente la rilevanza della pronuncia in questione, su una problematica peraltro, quella del pagamento con assegno risultato poi impagato, che è di frequentissimo riscontro e rispetto alla quale dunque il possibile ricorso allo strumento penale costituisce, senza dubbio, una importante opportunità per la persona offesa. Nel caso sottoposto al vaglio degli Ermellini nella vicenda, che si commenta, il ricorrente lamentava infatti proprio la penale irrilevanza della propria condotta per essersi la stessa risolta nel rilascio di assegni postali risultati poi sprovvisti di copertura. La soluzione rinvenuta dalla Corte si fonda invero su una diversa, per non dire opposta, rispetto alla versione del ricorrente, ricostruzione dei fatti. Infatti, evidenziano i giudici della II Sezione Penale del Palazzaccio, nel caso in esame appare assolutamente comprovato che l’imputato per carpire il consenso della vittima vantò di disporre di ingenti somme di denaro, di fare il commerciante, di aver appena compiuto acquisti similari in altro limitrofo negozio, accompagnando le frasi ad un abbigliamento ed atteggiamento da persona assolutamente benestante. Nessun dubbio dunque, conclude la Corte, che nel caso di specie siano integrati tutti gli elementi costitutivi del delitto di truffa, con conseguente rigetto del ricorso proposto. Meno scontata, seppur incidentale, l’affermazione, pure esplicitamente affermata dalla Suprema Corte, che il semplice pagamento effettuato mediante assegni privi di copertura non è, invece, e per contro, sufficiente ad integrare il delitto di truffa. È tale affermazione, seppur incidentale, che invero pare rivestire il maggior rilievo, in quanto nega in termini assoluti la possibile valenza penale della mera condotta di emissione di un assegno poi risultato privo di provvista, qualora la stessa difetti di un quid pluris che la connoti ulteriormente sì da integrare un artificio o un raggiro.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 6 maggio – 30 luglio 2014, n. 33669 Presidente Gentile – Relatore De Crescienzo Motivi della decisione S.E. , tramite il difensore ricorre per Cassazione avverso la sentenza 11.7.2012 con la quale la Corte d'Appello di Bologna, in parziale riforma della decisione 10.3.2011 del Tribunale di Ferrara, riconosciuta la continuazione tra i fatti del presente procedimento penale e quelli di cui alla sentenza 6.2.2006 del Tribunale di Bologna, ritenuto più grave il delitto di ricettazione di cui al capo a del presente procedimento, lo ha condannato alla pena di anni sei, mesi tre di reclusione e 8.000,00 Euro di multa. Il ricorrente chiede l'annullamento della decisione impugnata per i seguenti motivi, così sintetizzati ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1 p.1. Vizio di motivazione ed erronea applicazione dell'art. 640 cp, perché la Corte d'Appello ha affermato la penale responsabilità dell'imputato con riferimento al capo C della rubrica, non essendovi la prova che l'imputato avesse posto in essere artifici e raggiri la difesa sostiene che l'imputato si è limitato solo a pagare la mercé acquistata utilizzando un assegno postale scoperto , senza peraltro formulare vanterie o espressioni tali da indurre in errore la persona offesa, così come erroneamente ritenuto dai giudici di merito che non hanno correttamente valutato il contenuto della deposizione della persona offesa. p.2. Vizio di motivazione e lesione del diritto di difesa ex art. 606 comma 1 lett. d cpp perché la Corte d'Appello non ha ritenuto di ammettere la richiesta di espletamento della prova antropometrica volta ad accertare la identità tra le sembianze fisiche dell'imputato e la persona effigiata nei fotogrammi che costituiscono la prova della responsabilità per i fatti di cui ai capi E ed F della rubrica. La difesa in particolare afferma che il giudizio di somiglianza espresso dal giudice di merito è insufficiente a fondare la dichiarazione di penale responsabilità. p.3. vizio di motivazione e lesione del diritto di difesa ex art. 606 comma 1 lett. d , perché la Corte d'Appello non ritenuto di ammettere, con riferimento al delitto di cui al capo G una perizia grafologica sul documento costituente prova della commissione del reato da parte dell'imputato. Ritenuto in diritto Il ricorso è manifestamente infondato per le seguenti ragioni. Il ricorrente con il primo motivo si duole dell'applicazione dell'art. 640 cp negli stessi termini già proposti alla Corte d'Appello che sul punto ha dato risposta esauriente e specifica. La Corte territoriale afferma pp. 7 ed 8 della sentenza impugnata che l'imputato, presentatosi nella gioielleria della persona offesa, non si è limitato a pagare l'anello con pietre preziose tramite un assegno postale, esibendo la propria carta di identità, ma ha anche dichiarato di essere un facoltoso commerciante, così ponendo in essere artifici e raggiri idonei ad indurre in errore la controparte carpendone la buona fede. In diritto la decisione è corretta infatti se il semplice pagamento effettuato mediante assegni privi di copertura non è sufficiente ad integrare la fattispecie di cui all'art. 640 cp, va diversamente valutata la suddetta condotta se accompagnata da un quid pluris , idoneo a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull'apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sulla sua serietà negoziale Cass. n. 46890/2011 quali l'atteggiamento volto a dimostrare una condizione di benessere e disponibilità economiche anche utilizzando abbigliamento adeguato alla situazione , dando informazioni con riferimento ad acquisti simili già effettuati anche presso altri esercizi commerciali, dando informazioni sulla propria attività professionali simulando il compimento di attività inesistenti simili a quella del soggetto circuito. Nella specie, dalla sentenza di primo grado e da quella di appello che possono essere lette congiuntamente perché uniformi nell'apparato argomentativo e omogenee nella valutazione delle prove Cass. n. 1309/1993 Cass. n. 10163/2002 Cass. n. 5606/2007 Cass. n. 13926/2011 Cass. n. 44418/2013 si evince che l'imputato non si è limitato a compiere il solo gesto del pagare la mercé acquistata mediante un titolo di credito scoperto così come sostiene la difesa , ma ha compiuto ulteriori atti volti a trarre in inganno la parte offesa per carpire il consenso della vittima, l'imputato vantò di disporre di denaro, di fare il commerciante, di avere già compiuto nella stessa giornata un precedente acquisto presso altra gioielleria mostrò infatti la sportiva di altro negozio e che non sarebbe riuscito ad andare in banca poiché di pomeriggio gli istituti erano chiusi. Tutto ciò, unitamente all'impressione di persona distinta e ben vestita . Così risultando la situazione di fatto, la decisione dei giudici di merito di ritenere che l'imputato ha consumato un truffa quale quella descritta al capo C è corretta in diritto avendo indicato in modo preciso e puntuale le condotte costituenti gli artifici e i raggiri che integrano la fattispecie descritta dall'art. 640 cp. La difesa, richiamando il verbale dell'udienza del 29.6.2010, con l'atto di appello ha sostenuto che la persona offesa mai avrebbe riferito di vanterie formulate da parte dell'imputato, concludendo che la valutazione espressa dai giudici di merito sarebbe erronea. La Corte d'Appello rispondendo in modo puntuale alla censura mossa, ha nuovamente valutato il fatto ribadendo che l'imputato ha tenuto un comportamento che supera la semplice consegna di un titolo di credito scoperto . La difesa ripropone la pertanto questione in questa sede negli stessi termini con i quali l'aveva formulata con il gravame di merito. La censura della difesa è pertanto inammissibile perché formulata in termini generici e all'esclusivo scopo di indurre una nuova valutazione preclusa nel giudizio di legittimità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. La doglianza della difesa non può quindi essere presa in considerazione sotto il profilo del difetto di motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e cpp , avendo la Corte d'Appello risposto puntualmente alla doglianza. Né peraltro la medesima censura può essere presa in considerazione sotto il diverso profilo proposto dalla difesa del vizio per travisamento della prova. Sul punto vanno premesse le seguenti necessarie considerazioni. Il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi dell'art. 606 lett. e cpp, può essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia Cass. n. 47035/2013 a ciò deve aggiungersi che il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto vizio un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima Cass. n. 9338/2013 . Inoltre il vizio di travisamento della prova è ravvisabile quando l'errore sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l'essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta doppia conforme e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio Cass. 24667/2007 . Sotto il profilo dei limiti posti dalla giurisprudenza in ordine alla deducibilità del travisamento in sede di legittimità, deve aggiungersi che il vizio può essere dedotto nel caso di cosiddetta doppia conforme come nella fattispecie concreta in esame , sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice Cass. n. 4060/2013 Cass. n. 5615/2013 Cass. n. 44765/2013 , sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti Cass. 44765/2013 cit . Infine va ancora considerato che la deduzione del vizio di travisamento della prova impone al ricorrente un onere di dimostrazione che è stato ben precisato e delineato in plurime decisioni volte a definire il principio di autosufficienza del ricorso. Infatti è stato affermato che Rispetta il principio di autosufficienza il ricorso in cassazione che, denunciando il vizio di travisamento di una prova testimoniale, dopo aver indicato la citazione saliente della prova operata dai giudici di merito, riporti, inserendola nel corpo del ricorso, la riproduzione xerografica dello stralcio della trascrizione della testimonianza medesima, in modo da consentire l'effettivo apprezzamento del vizio dedotto Cass. n. 25834/2012 Cass. n. 37892/2008 Cass. n. 6112/2009 Cass. n. 33362/2010 . L'onere di allegazione imposto al ricorrente dipende dalla struttura della doglianza. Infatti è necessario procedere alla trascrizione in ricorso dell'integrale contenuto degli atti ritenuti travisati , nei limiti di quanto dedotto, perché di essi è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto, a meno che il decisum del vizio emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso. Passando quindi alla valutazione del caso in esame si deve osservare che la formulazione della doglianza è in termini generici e del tutto inammissibili per le seguenti ragioni. La censura di travisamento riguarda una c.d. doppia conforme , con la conseguenza che per la regola processuale affermata dalla giurisprudenza sovra richiamata, entrambi i giudici di merito hanno condotto la propria indagine sulla medesima fonte probatoria, valutata in termini del tutto analoghi la tesi della difesa, per i suoi contenuti, si pone fuori dei limiti segnati dalla giurisprudenza, non avendo dimostrato la manifesta evidenza dell'errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito sulla medesima prova utilizzata per giustificare l'affermazione della penale responsabilità in relazione al capo C . In particolare la difesa non ha fornito la prova che nella specie si tratti di un travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale ma croscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti Cass. 44765/2013 cit . Inoltre la difesa non ha assolto al dovere di allegazione dell'atto probatorio oggetto di travisamento e, trattandosi di prova a contenuto dichiarativo, non ha chiaramente ed esattamente definito il punto travisato. La doglianza è pertanto inammissibile perché formulata in termini del tutto generici e tali da impedire a questo giudice di legittimità di condurre lo scrutino necessario della fondatezza della doglianza. Per le suddette ragioni il primo motivo di ricorso è inammissibile. Il secondo e il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente attesa l'identità della questione dedotta in diritto. Con entrambi i motivi la difesa si duole che la Corte d'Appello non abbia rinnovato il dibattimento attraverso il compimento di due perizie la prima di tipo antropometrico riferibile al delitto di cui ai capi e ed f e la seconda di tipo grafologico, riferita al capo g . La Corte d'Appello rigettando entrambe le richieste ha affermato che quanto richiesto dalla difesa non era indispensabile potendo decidere le questioni proposte allo stato degli atti motivando sul punto in modo del tutto adeguato e specifico ed indicando le ragioni le quali non fosse indispensabile rinnovare parzialmente il dibattimento. In diritto la decisione è corretta, posto che oltre ai principi di diritto, correttamente richiamati dalla Corte d'Appello pag. 8 della decisione , deve aggiungersi che la decisione con la quale il giudice respinge la richiesta di una perizia ritenuta decisiva dalle parti non è censurabile ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. d , cod. proc. pen., perché quella decisione costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, in quanto sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione Cass. 7444/2013 e in passato Cass. 13086/1998 Cass. n. 12027/1999 Cass. n. 14130/2007 Cass. n. 43562/2012 ove si sottolinea, secondo un costante indirizzo di legittimità che La perizia non rientra nella categoria della prova decisiva ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. d , cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione . La motivazione del provvedimento impugnato sfugge alla censure mosse ed è infine completamente priva di pregio la doglianza relativa al contenuto del primo capoverso della pagina 9 della sentenza di appello ove afferma, tra l'altro che . un errore nell'individuazione della persona appare del tutto improbabile . . Nella specie non si verte in un vizio di motivazione, trattandosi di espediente argomentativo esplicativo adoperato dall'estensore della sentenza per absurdum ex se non incidente sulla validità logico strutturale della motivazione globalmente considerata. Per le suddette ragioni il ricorso è inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende, così equitativamente determinata la sanzione amministrativa ricorrendo la responsabilià prevista dall'art. 616 cpp. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.