Animo particolarmente sensibile dell’offeso, ma il giudice non può fare il “tenerone”

Ai fini della ravvisabilità del reato di ingiuria, deve essere dato rilievo al contenuto della frase pronunciata ed al significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo, oltre che dalle intenzioni inespresse dell’offensore, anche dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può aver provocato nell’offeso.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 31812, depositata il 18 luglio 2014. Il caso. Il tribunale di Messina condannava un uomo per il reato di ingiuria, in quanto, durante un’udienza in tribunale, si era rivolto al giudice di udienza ed aveva definito provocatrice una donna, la quale, a giudizio dell’imputato, lo aveva sfidato” mediante ammiccamenti e sorrisi ironici. L’imputato ricorreva in Cassazione, denunciando la manifesta illogicità della motivazione. Il contesto non è irrilevante. Analizzando il contenuto del ricorso, la Corte di Cassazione ricordava che, in tema di tutela dell’onore e del decoro è necessario fare riferimento ad un criterio di medietà convenzionale in rapporto alla personalità dell’offeso e dell’offensore ed al contesto in cui la frase sia stata pronunciata. Nel caso di specie, in un momento di tensione durante l’udienza, un avvocato aveva chiesto al giudice di allontanare l’imputato dall’aula e ciò lo aveva spinto ad esprimersi in maniera polemica e con parole scortesi. Tuttavia, nonostante le sue affermazioni avessero prodotto nella persona offesa un senso di imbarazzo e di mortificazione, non potevano considerarsi oggettivamente offensive, in quanto, per considerarle tale, devono essere ritenute inaccettabili in qualsiasi contesto, per l’intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario. La sensibilità della persona offesa non basta. Pertanto, erroneamente i giudici di merito avevano dato enorme rilievo alla personale sensibilità e fragilità emotiva della persona offesa. Infatti, ai fini della ravvisabilità del reato, deve essere dato rilievo al contenuto della frase pronunciata ed al significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo, oltre che dalle intenzioni inespresse dell’offensore, anche dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può aver provocato nell’offeso. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso ed annullava la sentenza senza rinvio perché il fatto non sussisteva.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 4 aprile – 18 luglio 2014, n. 31812 Presidente Dubolino – Relatore Bevere Fatto e Diritto Con sentenza 24.1.2013, il tribunale di Messina ha confermato la sentenza 10. 1.2012 del giudice di pace di Messina, con la quale G.A. era stato condannato alla pena di € 200 di multa, al risarcimento dei danni, alla rifusione delle spese in favore della parte civile, per il reato di ingiuria in danno di S.L Nell'interesse dell'imputato è stato presentato ricorso per violazione di legge in relazione all'art. 594 c.p. e per manifesta illogicità della motivazione. Secondo il ricorrente , l'espressione E' la S. la provocatrice risulta priva di rilevanza penale , in quanto con essa era stata esposta la doglianza sull'atteggiamento tenuto dalla donna , durante l'udienza in corso dinanzi al tribunale di Messina, nel processo in cui la propria moglie, S.E., era persona offesa e A.G., cognato della S., era testimone. Prima della deposizione della S., la S. aveva fissato lo sguardo negli occhi del G., ammiccando, con sorrisetti, a mo' di sfida. A questo comportamento, il ricorrente aveva reagito con la suddetta frase, formulata a titolo di denuncia indirizzata al giudice di udienza. Nella sentenza di appello, l' efficacia offensiva di queste parole è stata affermata con carente motivazione, mediante la sibillina affermazione non vi è dubbio che l'espressione proferita dall'imputato avesse una carica offensiva e la stessa persona offesa ha riferito di essersi sentita mortificata nel sentire le parole .] Il ricorso merita accoglimento a causa della evidente inidoneità delle espressioni usate polemicamente dal G., a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice prevista dall'art. 594 c.p. . In tema di tutela dell'onore e del decoro è necessario fare riferimento ad un criterio di medietà convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase sia stata pronunciata. Nel caso in esame è risultato che in un momento di tensione tra i presenti, uno dei difensori aveva chiesto al giudice di allontanare il G. dall'aula e ciò aveva determinato quest'ultimo a esprimersi in maniera sicuramente polemica, usando parole scortesi. Queste parole -pronunciate nel corso dell'udienza dinanzi al giudice di primo grado in un procedimento in cui protagonisti erano familiari dell'imputato e della persona offesa - sebbene abbiano prodotto nella donna il senso di imbarazzo e di mortificazione rilevato dal giudice di appello, non sono da considerarsi oggettivamente offensive non sono cioè inaccettabili in qualsiasi contesto per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario sez. 5 n. 11632 del 14.3.08 rv 239479 . E' pertanto manifestamente illogica la rilevanza penale , riconosciuta dal giudice di appello a tali espressioni , facendo ricorso a un non giustificabile ruolo determinante riconosciuto alla personale sensibilità e alla fragilità emotiva della S Tale conclusione si pone in contrasto, senza adeguata argomentazione, con un orientamento interpretativo che fissa un minimo di oggettività nella delimitazione tra ingiuria e inoffensiva espressione di divergenza di opinioni. Secondo sez. l, n. 7157 del 6.12.2006, rv 235891, ai fini della ravvisabilità del reato va dato rilievo al contenuto della frase pronunziata e al significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo oltre che dalla intenzioni inespresse dell'offensore, anche dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può aver provocato nell'offeso. La sentenza va quindi annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. Consegue la condanna della querelante al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste. Condanna la querelante al pagamento delle spese del procedimento.