Pur essendo il rapporto di parafamiliarità in astratto riconducibile anche in strutture aziendali complesse non bisogna confonderlo con la confidenza

Per il principio di tipicità dell’illecito penale, ed il divieto di analogia, nella constatata mancanza di recepimento delle sollecitazioni delle autorità europee competenti tendenti alla configurazione quale fattispecie penale delle condotte persecutorie del datore di lavoro, inquadrabili nel mobbing, per sussumere tale comportamento vessatorio e discriminatorio nella fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p. è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura parafamiliare. Tale rapporto parafamiliare, pur essendo in astratto riconducibile in strutture complesse, è essenziale che si sviluppi con l’isolamento del lavoratore e non per effetto della mera frequentazione o confidenza.

Lo ha stabilito la Sesta sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31713 depositata il 17 luglio 2014. Il caso. I giudici di merito di prime e seconde cure assolvevano l’amministratore unico della società datrice di lavoro ed i responsabili di specifici reparti produttivi dell’azienda dal delitto di maltrattamenti per il mancato accertamento di un rapporto familiare all’interno della struttura aziendale. Ricorreva in Cassazione il Procuratore Generale sostenendo che la Corte d’appello ha violato la legge penale avendo ritenuto erroneamente, quale necessario elemento della figura delittuosa di cui all’art. 572 c.p., l’unicità del rapporto datore di lavoro-dipendente . Inoltre, si rileva il difetto di motivazione ove la sentenza impugnata ha ritenuto, in maniera assiomatica, l’impossibilità di accertare la natura parafamiliare del rapporto di lavoro nel caso di pluralità di persone peraltro in presenza di dodici dipendenti, numero che si ritiene non eccessivo , pur in presenza della sostanziale sottoposizione del dipendente, per la struttura dell’attività di lavoro, all’illecita condotta dei responsabili dell’azienda. Insomma, il Giudice d’appello avrebbe ingiustamente svalutato il dato delle concrete modalità di lavoro nelle quali le vittime offrivano le loro prestazioni lavorative, del tutto isolate dal contesto amministrativo e relazionale dell’azienda. Infine, in via subordinata, si chiede di riqualificare i fatti in violenza privata aggravata dall’abuso di autorità, ai sensi degli artt. 610 e 61, numero 11, c.p. per avere i datori di lavoro imposto ai lavoratori condotte attive e passive sotto la minaccia del licenziamento. Manca il reato ad hoc di mobbing in Italia. I giudici di legittimità dichiarano inammissibile il ricorso affermando innanzitutto che non vi è nell’ordinamento penale italiano una fattispecie che punisce il mobbing , nonostante le spinte dell’Unione europea. In particolare, la Risoluzione del Parlamento europeo A5-0283/2001 del 20 settembre 2001, relativa al mobbing sul posto di lavoro, al § 10, esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro , nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing . In assenza di un reato ad hoc nell’ordinamento giuridico italiano per reprimere le vessazioni sul lavoro previsto, ad esempio in Francia, il reato di harcèlement moral , la tutela penale del mobbing risulta essere indiretta e incompleta. Solo indirettamente è possibile sussumere le condotte mobbizzanti in fattispecie incriminatrici, in quanto la giurisprudenza riconosce la rilevanza penale di alcune sue manifestazioni, riconducendolo a fattispecie già esistenti all'interno del codice penale maltrattamenti, minacce, violenza privata, lesioni personali, estorsione, abuso d'ufficio, violenza sessuale, atti persecutori, ecc. . Tale tutela penale del mobbing , tuttavia, finisce per essere incompleta in quanto deve adattarsi alle ontologiche caratteristiche strutturali delle varie figure criminose, così come avviene per il delitto di maltrattamenti in famiglia che richiede la natura parafamiliare del rapporto di lavoro. Non sempre il mobbing integra il reato ex art. 572 c.p La sentenza in rassegna ribadisce l’orientamento, ormai cristallizzato in Cassazione, secondo il quale non ogni fenomeno di mobbing attuato nell'ambito di un ambiente lavorativo, integri gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla L. n. 172 del 2012, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura parafamiliare perché connotato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, da una situazione di soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia Cass., n. 18832/2014 rapporto di soggezione anche psicologica che può assumere siffatte caratteristiche parafamiliari in ragione delle peculiarità dell'attività lavorativa prestata si pensi alla relazione tra un maestro d'arte ed il suo apprendista ovvero delle dimensioni e natura organizzativa del luogo di lavoro si pensi alla relazione tra padrone di casa e lavoratore domestico , ovvero delle dimensioni e della natura organizzativa del luogo di lavoro, cioè in situazioni nelle quali è possibile riconoscere quella sottoposizione all'altrui autorità ovvero quell'affidamento per l'esercizio di una professione o di un'arte, cui fa espresso riferimento l’art. 572 c.p. Cass., n. 26803/2013 . Si confonde il rapporto di familiarità con quello di confidenza. La Suprema Corte rileva l’errata impostazione metodologica del ricorrente in quanto la sottoposizione dei dipendenti ad ingiurie e minacce, comprendenti la svalutazione della loro capacità lavorativa, avveniva dinanzi a tutti e nei confronti di più persone così da escludere l’effetto del lamentato isolamento e non denotanti l’intento persecutorio nei confronti del singolo. In sostanza, più che di mobbing , è più corretto parlare di una politica aziendale di relazioni personali estremamente discutibile, attuata nei confronti di molti lavoratori, e realizzata anche da chi non rivestiva posizioni apicali nell’azienda. Ed in tal senso, si confonde il rapporto di familiarità con quello di confidenza, quest’ultimo potenzialmente sussistente anche in strutture complesse e non è per ciò solo produttivo di minorata difesa del sottoposto che discende invece solo nel caso in cui tale confidenza trasmodi in rapporto familiare. Sotto quest’ultimo aspetto, gli Ermellini, pur riconoscendo che tale rapporto di familiarità sia in astratto riconducibile anche in strutture complesse con ciò ponendosi in contrasto con la sua precedente giurisprudenza secondo cui il mobbing lavorativo non è configurabile nell'ambito di una realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare Cass., n. 13088/2014 ritengono che sia essenziale che si sviluppi con l’isolamento del lavoratore e non per effetto della mera frequentazione o confidenza. Niente riqualificazione dei fatti in violenza privata . Non essendo individuata la condotta imposta ai lavoratori con la minaccia del licenziamento se non quella dell’adesione alle modalità esecutive delle attività richiesta dal datore di lavoro, secondo un’ordinaria contrapposizione contrattuale degli interessi, sia pure esercitata da parte datrice con modalità incivili , per i giudici di Cassazione non è possibile sussumere i fatti neanche nel delitto di cui all’art. 610 c.p., in quanto la pretesa coartazione della libertà non risulta espressa quale alternativa concreta, idonea a connotare la finalità della minaccia del licenziamento, ma risulta implicita nei rapporti di forza sussistenti tra le parti.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 26 giugno – 17 luglio 2014, n. 31713 Presidente Garribba – Relatore Petruzzelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 18/10/2013 la Corte d'appello di Torino ha confermato la pronuncia del Tribunale di quella città del 05/07/2012 impugnata dal P.m. e dalle parti civili, che aveva disposto l'assoluzione di L.P. , L.R. , F.A.M. , G.F. e M.M.G. , in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen. consumato in danno delle dipendenti della Cailand's srl, nell'arco temporale in cui i primi due si erano succeduti nella qualità di amministratore unico della società datrice di lavoro, e le altre tre avevano svolto le funzioni di responsabili di specifici reparti produttivi dell'azienda. Le pronunce liberatorie sono fondate sull'assunto della necessaria limitazione nell'individuazione del reato a fattispecie nelle quali sia ravvisabile un rapporto parafamiliare all'interno dell'azienda, che non è stato accertato nel caso di specie. 2. Nel suo ricorso il P.g., dopo aver premesso che nei gradi di merito si è verificato l'oggettivo accertamento delle aggressioni ai danni delle denuncianti, mai poste in dubbio nella loro materialità, deduce violazione di legge penale, nella parte in cui la Corte ha erroneamente ritenuto necessario quale elemento costitutivo del reato l'unicità del rapporto datore di lavoro dipendente, che si assume non ricavabile né dal testo della disposizione incriminatrice, né dalla sua pacifica applicazione. 3. Si rileva inoltre difetto di motivazione, ove la pronuncia ha ritenuto, in maniera assiomatica, l'impossibilità di accertare la natura parafamiliare del rapporto di lavoro nel caso di pluralità di persone, pur in presenza della sostanziale sottoposizione del dipendente, per la struttura dell'attività di lavoro, all'illecita condotta dei responsabili dell'azienda, sia pur operanti a vario livello, ma posti in posizione sovraordinata rispetto alle vittime, il cui isolamento all'atto della sottoposizione a condotte violente, non è escluso dal concomitante esercizio in danno i colleghi di analoghe condotte. 4. Si deduce violazione di legge nella parte in cui si è tratta la natura non parafamiliare del rapporto dal numero delle persone alle dipendenze della ditta, estremo mai valutato dirimente dalle pronunce di questa Corte, sulla cui interpretazione la sentenza si è fondata. Peraltro si contesta l'entità non irrilevante della società a cui facevano capo gli imputati, accertata in base alla verifica della presenza di dodici dipendenti, numero che si ritiene non eccessivo, mentre il giudice ha ingiustamente svalutato il dato delle concrete modalità di lavoro nelle quali le vittime offrivano la loro prestazione, del tutto isolate dal contesto amministrativo e relazionale dell'azienda. La Corte ha poi omesso di considerare le forti connotazioni personalistiche del rapporto di lavoro, dimostrate dall'abitudine degli odierni imputati di omaggiare le dipendenti dell'abito da sposa in occasione del loro matrimonio, atto che simbolicamente per consuetudine connota i legami tra padre e sposa, o di una consistente somma di denaro e della festa in azienda, in occasione della nascita del primo figlio, ulteriore segno di intimità di rapporti, del tutto estranea ad una fredda logica aziendale, quale invece ricostruita dai giudici di merito. 5. Ulteriore difetto di motivazione si deduce sulla mancata equiparazione tra il rapporto di lavoro intercorrente con le dipendenti, quasi tutte alla prima esperienza lavorativa e quindi sottoposte all'autorità del formatore, con il rapporto di apprendistato, non equamente retribuito, cui si assume circoscritta l'ipotesi delittuosa, ritenendo in senso contrario che, anche nel caso concreto, proprio per l'assoluto affidamento per la formazione, si riproponesse quella dipendenza, anche psicologica, che caratterizza la fattispecie cui si ritiene pacificamente applicabile la disposizione in esame, mentre si assume del tutto estraneo per la sua configurazione l'esame dei rapporti economici tra le parti, sulla base della costante interpretazione sul punto, rapporti il cui affidamento cementava ulteriormente l'investimento del dipendente, in termini di fiducia, nei confronti dei datori di lavoro. 6. Si rileva vizio di motivazione quanto al mancato accoglimento dell'istanza subordinata di riqualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 610-61 n. 11 cod. pen. fondata sull'erroneo presupposto che le parti non avessero indicato la presenza di condotte attive o passive loro imposte, circostanza contraddetta dai richiami costanti, eseguiti dagli imputati, alla possibilità di riferire le condotte delle lavoratrici ai titolari, ed alla minaccia di licenziamento che, in linea con altre fattispecie analoghe oggetto di valutazione giudiziaria, si ritiene di poter ricondurre al reato ipotizzato. 7. La difesa degli imputati ha depositato memoria con la quale si contesta la configurazione del reato, applicabile a fattispecie lavorative solo nell'ipotesi di rapporti para familiari, non ravvisabili nel caso oggetto di esame. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile, risultando fondato sulla mera riproposizione di elementi di fatto, già valutati dal giudice di merito, con i quali il ricorrente non si confronta. 2. In particolare risulta ampiamente condivisa, anche dall'autorità impugnante che, per il principio di tipicità dell'illecito penale, ed il divieto di applicazione analogica, nella constatata mancanza di recepimento delle sollecitazioni delle autorità Europee tendenti alla configurazione quale fattispecie penale delle condotte persecutorie del datore di lavoro, inquadrabili nel mobbing, a cui allo stato è limitata la tutela risarcitoria, sia possibile rapportare a tale fattispecie l'ipotesi di lavoratore perseguitato dal datore di lavoro a cui questi sia legato da un rapporto personale, parificabile a quello familiare, che ne comporti, proprio come in tutte le strutture familiari, da un canto il pieno affidamento alla figura autorevole di riferimento, dall'altro il sostanziale isolamento rispetto all'esterno, con l'effetto, da un canto, di una incapacità di individuazione delle mortificazioni, che risultano quasi accettate con il rischio di autosvalutazione, proprio per il rapporto fiduciario a monte, e l'amplificazione del rischio di lesione nell'autostima, derivante dal richiamato isolamento. Perfettamente coerente con tali caratteristiche tipiche risultano le fattispecie astratte ritenute sussumibili in tale categoria, quale quella del collaboratore domestico e dell'apprendista affidato al ed maestro d'arte, cui il primo risulta legato, prima ancora che da un vincolo contrattuale, spesso neppure tipizzato, da un completo affidamento per la sua formazione, personale e professionale. Premessa tale comune ricostruzione, non appare fondato il rilievo di violazione di legge formulato con il primo motivo, sulla base dell'illegittima individuazione di un rapporto esclusivo quale elemento fondante la fattispecie concreta, poiché in senso contrario, da un canto gli esempi ripetutamente richiamati dai precedenti di questa Corte, dall'altro il necessario parallelismo con la formazione familiare che il riferimento normativo testuale impone, confermano la necessità di un rapporto diretto tra le parti ed escludente intromissioni esterne, che renda più difficile il disvelamento e l'affrancamento da tali pratiche da parte della vittima. 3. Proprio l'accettazione di tale premessa metodologica, la cui correttezza si ricava dal testo della disposizione giustifica l'esclusione della fattispecie da rapporti quali quelli in esame, in cui, al di là del numero dei dipendenti e dell'ampiezza degli spazi lavorativi, la sottoposizione di questi ad ingiurie e minacce, comprendenti la svalutazione della loro capacità lavorativa, avveniva per un verso dinanzi a tutti, per altro nei confronti di più persone, così da escludere l'effetto dell'isolamento sopra richiamato, ma anche da evitare nella vittima la possibilità di una singola autosvalutazione che costituisce uno degli aspetti più insidiosi della condotta di cui all'art. 572 cod. pen., nella specie preclusa dalla palmare constatazione di una politica aziendale di relazioni personali estremamente discutibile, attuata nei confronti di molti lavoratori, e realizzata anche da chi non rivestiva posizioni apicali nell'azienda. Ed in tal senso nello specifico motivo di ricorso con il quale si contesta il difetto di motivazione si confonde il rapporto di parafamiliarità con quello di confidenza, dimenticando che quest'ultimo, potenzialmente sussistente anche in strutture complesse, non è per ciò solo produttivo di minorata difesa del sottoposto, che discende invece solo nel caso in cui tale confidenza trasmodi in rapporto parafamiliare, con tutte le limitazioni della lettura critica da esso derivante. 4. Sotto tale profilo non sussiste neppure la violazione di legge che si assume, ancora una volta, incentrata sulla confusione tra rapporto parafamiliare e rapporto uno ad uno, inconciliabile in strutture complesse, laddove invece pur ammesso in astratto che in strutture complesse tale dipendenza sia riproducibile, è però essenziale che questa si sviluppi con l'isolamento del lavoratore, e non per effetto della mera frequentazione e confidenza, per quanto già esposto, e direttamente derivante dal limite insito nella fattispecie contestata. La circostanza che indiscutibilmente, sulla base di quanto esposto nel ricorso, oltre che direttamente emergente dalla formulazione dei capi di imputazione, tale rapporto non si sia realizzato rispetto a nessuno dei dipendenti ed in relazione ad alcuno dei resistenti evidenzia la manifesta infondatezza del rilievo. 5. Sotto tale profilo è manifestamente insussistente l'eccepito vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza di logicità e completezza, con il quale si lamenta la mancata valutazione degli elementi d fatto denotanti confidenza e familiarità tra le parti, genericamente intesa, oltre che irrilevanza della dimensione numerica della composizione aziendale, poiché nessuno degli elementi portati alla cognizione della Corte risulta idoneo a superare il difetto probatorio sull'elemento costitutivo della parafamiliarità sopra tratteggiato, risultando i riprovevoli comportamenti assunti nei confronti dei dipendenti espressi platealmente alla presenza degli altri, e per ciò solo non denotanti una volontà persecutoria nei confronti del singolo, e l'assenza di un rapporto esclusivo con questi limitante la potenzialità di reazione della vittima. 6. Il ricorso risulta generico anche sotto l'ulteriore profilo del mancato inquadramento delle condotte nel reato di violenza privata, poiché non risulta, neppure nell'odierno ricorso, individuata la condotta imposta ai lavoratori con la minaccia del licenziamento, se non quella dell'adesione alle modalità esecutive dell'attività richieste dal datore di lavoro, secondo un'ordinaria contrapposizione contrattuale degli interessi, sia pure esercitata a cura dei resistenti con modalità incivili. È bene rimarcare sotto tale profilo che non è ravvisabile vizio di motivazione neppure in rapporto alla difformità della valutazione rispetto a decisioni analoghe di questa Corte ed in particolare a quella Sez. 6, n. 31413 del 08/03/2006 - dep. 21/09/2006, Riva e altri, Rv. 234854 atteso che, contrariamente a quanto rilevato nella specie, in quel procedimento risulta pienamente individuata la finalità della condotta costrittiva, identificabile nell'accettazione di condizioni contrattuali penalizzanti, particolari di fatto la cui sussistenza non è ravvisabile nel caso concreto, mentre nelle ulteriori fattispecie considerate in precedenti sul punto vi è un richiamo ad accertamenti di situazioni concrete di costrizione intervenute nelle fasi di merito, escluse da quanto verificato dal giudice dell'appello e non emergenti da elementi di prova di cui si assume travisamento nel proposto ricorso. In definitiva la pretesa coartazione della volontà, come indicata nell'atto di impugnazione, non risulta espressa quale alternativa concreta, idonea a connotare la finalità della minaccia del licenziamento, ma risulta implicita nei rapporti di forza sussistenti tra le parti e conseguentemente non appare idonea ad integrare la fattispecie autonoma prospettata, quale unica ipotesi di reato procedibile di ufficio rinvenibile nei comportamenti tenuti dai resistenti. 7. Il difetto degli elementi di sostegno dei rilievi proposti impone l'accertamento di inammissibilità del ricorso. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.