La prova del dolo non può ritenersi sussistente “in re ipsa”

In tema di reato di violazione di sigilli, e segnatamente di elemento psicologico dell’illecito penalmente rilevante, trattandosi di reato doloso, la sussistenza di tale elemento non può ritenersi di per sé presente, ma deve essere oggetto di specifico accertamento. Di tale prova deve farsi carico la pubblica accusa, non potendo certo esserne onerato l’imputato. La prova del dolo può essere tratta da ogni elemento utile allo scopo, purché il convincimento del giudice derivi da una motivazione logica, coerente e fondata su fatti concreti, senza l’impiego di formule apodittiche del tipo risulta difficile immaginare che l’imputato non avesse conoscenza .

Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31156, depositata il 16 luglio 2014. Gli approdi della giurisprudenza di legittimità La sentenza in commento, nell’escludere la responsabilità penale per violazione di sigilli del custode di un immobile, posto sotto sequestro per abuso edilizio, richiama i principali arresti giurisprudenziali in materia. In primo luogo, qualora venga riscontrata la violazione dei sigilli, di essa risponde, da solo o in concorso con altri, il custode giudiziario della cosa sottoposta a sequestro, il quale aveva il dovere giuridico di impedire che il fatto si verificasse. In tal caso si verte in ipotesi di responsabilità personale diretta, non oggettiva, ed incombe sul custode l'onere della prova degli eventuali caso fortuito o forza maggiore, quali cause impeditive dell'esercizio del dovere di vigilanza e custodia. Inoltre, il custode è obbligato ad esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro, e sulla integrità dei relativi sigilli, una custodia continua ed attenta. Egli non può sottrarsi a tale obbligo, se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza. Ne consegue che, qualora venga riscontrata la violazione di sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad avvertire dell'accaduto l'autorità, è lecito ritenere che detta violazione sia opera dello stesso custode, da solo o in concorso con altri, tranne che lo stesso non dimostri di non essere stato in grado di avere conoscenza del fatto per caso fortuito o per forza maggiore. Ciò non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva, estranea alla fattispecie, ma un onere della prova che incombe sul custode. ed il novum della sentenza in commento. Con la decisione in esame, la Suprema Corte opta per una soluzione più garantista rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale, sottolineando la necessità di una prova puntuale e precisa, da parte del Pubblico Ministero, dell’elemento psicologico del reato di violazione di sigilli, il quale non può ritenersi presunto per il semplice fatto della vicinanza fisica dell’imputato al luogo dell’illecito. La posizione del proprietario del terreno ove sorge l’immobile abusivo La sentenza in esame dà atto dell’assoluzione dell’imputato per il reato di abuso edilizio, decisa in grado di appello. Ciò consente di richiamare pure la fattispecie di reato dell’abuso edilizio posto in essere dal proprietario del terreno sul quale sorge la costruzione abusiva. Tale figura non è infatti elencata all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 cosiddetto Testo Unico dell’Edilizia o TUE fra i soggetti titolari di una posizione di garanzia rispetto alla corretta edificazione dell’opera. Pertanto, la responsabilità del proprietario, in tali casi, non potrà configurarsi qualora egli non abbia impedito la commissione, da parte di soggetti terzi, dei reati di cui all’art. 44 del TUE, non essendo invocabile il disposto dell’art. 40 cpv del codice penale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo ” . Particolare attenzione merita la fattispecie dell’opera abusivamente realizzata su terreno in comproprietà fra coniugi. In tal caso, se autore del manufatto è uno dei coniugi, non può non tenersi conto della stretta comunanza di interessi con il coniuge non autore, che rendono quest’ultimo naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare. Per vincere tale presunzione, l’interessato ha l’onere di provare l’insussistenza di tali presupposti nel caso concreto. In altri termini, occorre accertare di volta in volta l’effettiva rilevanza dell’apporto fornito dal proprietario nella realizzazione dell’opera abusiva, dovendosene escludere la responsabilità tutte le volte in cui non emerga un coinvolgimento del proprietario che sia rimasto estraneo all’abuso, in quanto il destinatario delle sanzioni penali edilizie deve essere il responsabile dell’abuso stesso. Nel caso in cui un immobile venga dato in locazione, responsabile della costruzione abusiva che venga successivamente realizzata è l’inquilino, e non il proprietario su quest’ultimo, infatti, non ricade l’obbligo di impedire l’evento. e la soluzione giurisprudenziale preferibile. Secondo l’orientamento della Cassazione che appare più condivisibile, la qualità di proprietario dell’area ove vengono compiute opere abusive, pur essendo un indizio grave, non è sufficiente per affermare la responsabilità penale. In ogni caso, il proprietario non patisce un’autonoma forma di responsabilità colposa per omesso impedimento dell’abuso edilizio perpetrato. Diversamente opinando, nei confronti del proprietario si dovrebbe ritenere configurabile una responsabilità oggettiva per le opere abusive edificate sul suo terreno o sulla sua superficie, in contrasto con il principio della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost In primo luogo, è da escludere una responsabilità oggettiva del proprietario per le opere abusive, per il solo fatto di rivestire siffatta qualità. E’ infatti necessaria pure la sussistenza di indizi idonei a sostenere la compartecipazione anche morale al reato, quali la piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche in tema di accessione, nonché in generale tutte quelle condotte attive od omissive da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa il concorso, anche morale, nella realizzazione del fabbricato. Di contro, la responsabilità del proprietario del manufatto nel quale l’abuso è stato effettuato può dedursi da indizi precisi e concordanti quali la qualità di coniuge del committente, la presentazione di istanze per la realizzazione di opere edilizie di portata di gran lunga minori di quelle realizzate o la presenza, sul luogo in cui l’edificio è ubicato, all’atto dell’accertamento, effettuato mediante sopralluogo da parte della Polizia Giudiziaria o dei competenti Uffici comunali.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 marzo – 16 luglio 2014, n. 31156 Presidente Squassoni – Relatore Aceto Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 20 aprile 2012, la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa il 24 novembre 2010 dal Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Ischia, assolveva M.G.G. dai reati di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., 44, lett. c , d.P.R. 6 giugno 2011, n. 380 capo A , artt. 81, cpv., cod. pen., 95, in relazione agli artt. 93 e 94, d.P.R. 6 giugno 2011, n. 3,50 capo B , art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 capo C , e rideterminava la residua pena, inflitta per il delitto di cui agli artt. 81, cpv., 349 cpv., cod. pen. capo E , nella misura di mesi 9 di reclusione ed € 300,00 di multa. La Corte territoriale affermava l'estraneità dei M. ai reati urbanistici, edilizi e paesaggistici, consumati dalla figlia sull'immobile da quest'ultima abitato insieme con il proprio marito ed i figli, e già gravato da sequestro il 18 dicembre 2006. Con riferimento, invece, al reato di violazione dolosa di sigilli cui al capo E della rubrica, la Corte di appello osservava che l'imputato era stato nominato custode dell'immobile già da epoca precedente la prosecuzione dei lavori di ampliamento abusivo del manufatto, lavori riscontrati dalla polizia locale il 25 luglio 2008, in sede di nuovo sequestro dell'immobile. Resta difficile da immaginare, sosteneva la Corte, che l'imputato, che abitava a circa 500 metri, non si fosse reso conto e non avesse conoscenza di quello che stava accadendo. Del resto, osservavano i giudici di secondo grado, in applicazione di alcuni principi fissati in sentenze di questa Suprema Corte puntualmente richiamate , sarebbe stato onere dell'imputato fornire la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli avevano impedito di adempiere ai propri doveri di vigilanza e custodia. 2. Ricorre per Cassazione il M. eccependo, per il tramite del difensore di fiducia, con unico motivo, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. pen., l'erronea applicazione delle legge penale, nonché la mancanza, la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, emergente dal testo dei provvedimento impugnato. La Corte territoriale, osserva il ricorrente, è incorsa in gravi ed evidenti vuoti motivazioniali avendolo ritenuto comunque colpevole del delitto di cui all'art. 349 cod. pen. tale affermazione, aggiunge, si pone in contrasto logico con quella parte della sentenza nella quale si sancisce la sua totale estraneità, anche soggettiva, ai reati urbanistico-edilizi posti in essere dalla figlia. Non avendo lui concorso, sotto ogni profilo, all'ampliamento abusivo dell'immobile condotta che, nell'ottica ricostruttiva della Corte territoriale e secondo la stessa impostazione accusatoria, integrava anche il reato di cui all'art. 349 cod. pen. e costituiva il naturale precipitato dell'imputazione dei reati urbanistici ascritti anche alla figlia , non è logicamente accettabile che abbia potuto dolosamente violare i sigilli. Si tratta di conclusione che crea un cortocircuito logico con le premesse. Al più avrebbe potuto essere ritenuto autore dell'illecito amministrativo di cui all'art. 350 cod. pen. Considerato in diritto 3. Il ricorso è fondato. Non è contestato che l'imputato fosse stato nominato custode dell'immobile sottoposto a sequestro il 18 dicembre 2006. Tale immobile era stato oggetto di ulteriori interventi edilizi abusivi al 25 luglio 2008 data di accertamento del reato contestato al M. risultava integralmente ultimato, rifinito e abitato dalla figlia dell'imputato. La Corte d'appello ha assolto il M. dai reati urbanistici ed edilizi connessi all'abusiva ultimazione dell'immobile già sequestrato sul rilievo che non potessero essergli attribuiti, con certezza, né la volontà dell'edificazione, né il ruolo di committente, ma ha ritenuto provata la sua responsabilità per il reato di cui all'art. 349, cpv., cod. pen., sul rilievo che risulta . difficile immaginare che . solo perché dimorante a circa 500 mt. dall'immobile abusivo non avesse conoscenza della realizzazione della prosecuzione delle opere abusivamente eseguite, attesa peraltro la sua presenza in loco . A sostegno della decisione, i giudici distrettuali hanno citato due sentenze di questa Suprema Corte 1 la Sez. 6, n. 4815 del 26/02/1993, Pistillo, Rv. 194548 In tema di violazione di sigilli art. 349, comma secondo, cod. pen. , il custode è obbligato ad esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro, e sulla integrità dei relativi sigilli, una custodia continua ed attenta. Egli non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza. Ne consegue che, qualora venga riscontrata la violazione di sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad avvertire dell'accaduto l'autorità, è lecito ritenere che detta violazione sia opera dello stesso custode, da solo o in concorso con altri, tranne che lo stesso non dimostri di non essere stato in grado di avere conoscenza del fatto per caso fortuito o per forza maggiore. Ciò non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva, estranea alla fattispecie, ma un onere della prova che incombe sul custode 2 la Sez. 3, n. 2989 del 28/01/2000, Capogna, Rv. 215767 In tema di violazione di sigilli il custode è obbligato ad esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro una custodia continua ed attenta, e non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e chiedendo ed ottenendo, per esse, di essere esonerato dall'incarico e sostituito nella funzione di custodia o, qualora non abbia avuto la possibilità ed il tempo di chiedere il detto esonero, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore come cause impeditive dell'esercizio, da parte sua, del menzionato dovere di vigilanza . I principi di diritto cui ha fatto riferimento la Corte territoriale devono essere confermati in questa sede, ma la loro concreta portata applicativa va precisata alla luce della natura necessariamente dolosa del reato di cui all'art. 349, cod. pen., la prova della cui sussistenza, sotto il profilo soggettivo, non può essere elusa mediante il ricorso a formule che, a fronte di un addebito formalmente doloso, dissimulino un rimprovero per un atteggiamento sostanzialmente colposo. Secondo il costante orientamento di questa Suprema Corte, infatti, il reato di violazione di sigilli punito dall'art. 349 cod. pen. si distingue dalla ipotesi di agevolazione colposa di cui all'art. 350 per l'elemento psicologico, poiché quest'ultima norma comprende tutte le ipotesi di trascuratezza e negligenza imputabili al custode, mentre l'ipotesi di cui all'art. 349 cod. pen. si caratterizza per la condotta del custode dolosamente diretta a porre in essere la violazione Sez. 6, n. 6246 dei 01/03/1984, Amodio, Rv. 165146 Sez. 3, n. 1945, dei 24/11/1993, Cavagnoli, Rv. 197265 Sez. 3, n. 22784 del 05/03/2004, Castiello, Rv. 228611 Sez. 3, n. 50984 del 10/10/2013, Saladino, Rv. 257920 . Trattandosi di reato doloso, la sussistenza dell'elemento psicologico non può essere ritenuta in re ipsa , ma deve essere oggetto di specifico accertamento, e della relativa prova deve farsi carico la pubblica accusa, non potendo certo esserne onerato l'imputato la prova dell'elemento psicologico dei reato può esser tratta da ogni elemento utile allo scopo, purché il convincimento dei giudice sia supportato da motivazione logica, coerente e fondata su fatti concreti, e all'imputato non venga surrettiziamente attribuito il compito di colmare l'eventuale vuoto probatorio che dovesse essere causato da indagini carenti sullo specifico punto. Del resto, nei casi in cui è stato evocato il principio utilizzato dalla Corte territoriale per supportare le proprie conclusioni, sussisteva già, a carico del custode, la prova che egli fosse direttamente a conoscenza della violazione dei sigilli consumata da altri o che comunque si trovasse in una condizione tale da rendere ragionevolmente ed altamente probabile che ne fosse a conoscenza o che fosse l'autore diretto della violazione Sez. 6, 4815/1993, cit., in cui il custode aveva omesso di avvertire l'autorità giudiziaria del fatto che erano stati violati i sigilli Sez. 3, n. 29040 del 20/02/2013, Santini, Rv. 256670 Sez. 3, n. 2989 del 28/01/2000, cit., in cui il custode era anche proprietario dell'immobile oggetto di abusiva trasformazione edilizia in altre sentenze il principio è stato ribadito in casi in cui il custode aveva addirittura concorso nel reato edilizio posto in essere insieme con i propri congiunti sull'immobile oggetto di sequestro Sez. 3, n. 35956 dei 22/09/2010, Fratarcangeli, Rv. 248553 . In questi casi è corretta l'affermazione secondo la quale è onere dei custode addurre gli specifici elementi che gli hanno impedito di attivarsi. Occorre, infatti, pur sempre considerare che la fattispecie aggravata dei reato in questione art. 349, cpv., cod. pen. individua il custode quale autore materiale e diretto della violazione dei sigilli apposti sulla cosa affidata alla sua custodia nel caso in cui tale condotta dovesse esser posta da altri, egli risponderà a dell'illecito amministrativo di cui all'art. 350 cod. pen., ove la violazione dei sigilli dovesse esser stata agevolata, o comunque resa anche solo possibile, dall'esercizio negligente o dal mancato esercizio dei doveri a lui facenti capo b del reato di cui all'art. 349, cpv., cod. pen., ove sia provato il concorso doloso nella condotta dell'autore principale della violazione o comunque la dolosa violazione dell'obbligo di impedirla art. 40, cpv, cod. pen. . Nel caso di specie, è certo che il ricorrente non è stato l'autore materiale dei reato. Sennonché la Corte territoriale, da un lato ha espressamente escluso il concorso volontario dell'imputato nei reati edilizi posti in essere dalla figlia sull'immobile sequestrato, dall'altro, ne ha contraddittoriamente affermato la responsabilità dolosa per il delitto di cui all'art. 349, cpv., cod. pen. che la rubrica gli contestava quale autore diretto degli abusi edilizi sul solo, apodittico rilievo che risulta difficile immaginare che egli non avesse conoscenza della realizzazione della prosecuzione delle opere perché dimorante a 500 metri di distanza. La motivazione, alla luce dei principi sopra espressi, è dunque apodittica e contraddittoria con le premesse da cui muove. Non assolve alla sua funzione una motivazione che fondi l'affermazione della responsabilità penale dell'imputato sulla difficoltà ad immaginare la sussistenza di un elemento a favore di quest'ultimo. Delle due l'una o si afferma che l'imputato era a conoscenza effettiva della prosecuzione dei lavori, oppure si indicano gli indizi gravi, precisi e concordanti dai quali poter trarre la medesima conclusione o comunque la ragionevole ed elevata probabilità che egli fosse nelle condizioni di esserne a conoscenza. Solo in quest'ultima eventualità, l'imputato, come già detto, potrà essere onerato dei compito di provare di non essere a conoscenza della prosecuzione dei lavori. In ogni caso, in ossequio a quanto prevede l'art. 546, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., è necessario che il giudice espliciti in modo positivo il proprio ragionamento, il percorso che lo conduce alla affermazione della responsabilità dell'imputato, le prove vagliate a tal fine. La motivazione è, inoltre, contraddittoria perché, come anche sottolineato dal ricorrente, una volta affermata l'estraneità dell'imputato a quei lavori, sul concorso alla cui materiale realizzazione la rubrica fondava l'addebito di responsabilità diretta per il reato di cui all'art. 349, cpv., cod. pen., la colpevolezza per quest'ultimo reato andava affermata dimostrando, sulla base di prove certe e non di congetture, il concorso doloso dei M. nella violazione dei sigilli posta in essere dalla figlia. E' pur vero, come ricorda la Corte d'appello, che sul custode incombono doveri di vigilanza e custodia, ma, osserva questa Suprema Corte, il mancato adempimento di tali doveri può fondare, al tempo stesso, un addebito di natura dolosa o colposa quel che conta, tenuto conto della giurisprudenza citata in precedenza, è l'atteggiamento psicologico rispetto all'evento, non il solo dato della violazione dei doveri la violazione dei doveri è elemento utile a ritenere il concorso causale nell'evento art. 40, cpv., cod. pen. , ma neutro rispetto all'indagine sul dolo. Poiché la Corte territoriale ha escluso il concorso materiale dell'imputato nella realizzazione dei lavori edili e dunque la violazione diretta dei sigilli , la prova del suo atteggiamento psicologico rispetto al reato consumato dalla figlia andrà ricercata su basi diverse, che non si risolvano in mere congetture e non invertano, di fatto e salve le considerazioni sopra svolte, il principio dell'onere della prova. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.