Difendere la moglie ? Solo se si è “obbligati” a farlo scatta la scriminante

Ai fini della configurabilità dell’esimenti di cui all’articolo 51 c.p., il diritto di difesa comporta la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva. In altri termini il diritto di difesa non comprende anche il diritto di arrecare offese ulteriori, difatti, non esclude la fattispecie della diffamazione la circostanza che le dichiarazioni rivolte alla Polizia giudiziaria siano rese e riportate in verbale coperto da segreto investigativo posto che le stesse erano comunque ab origine destinate ad essere conosciute da un pluralità di persone.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 17064 del 17 aprile 2014. Il caso. Il Tribunale di La Spezia assolveva l’imputato, riformando la sentenza resa in primo grado, dall’accusa d’aver diffamato la persona offesa avendo rilasciato alla polizia giudiziaria dichiarazioni lesive della reputazione e dell’onere di questa, ritenendo che il fatto non costituisse reato. Proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza il difensore e procuratore speciale della parte civile deducendo vizi motivazionali del provvedimento e, in specie, censurando la ritenuta sussistenza anche nella sola forma putativa dell’esercizio della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento di un dovere in relazione alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, sottolineando come l’imputato si fosse spontaneamente presentato alla stessa ai fini di rilasciarle e come le stesse fossero state raccolte in indagine che non lo riguardava personalmente ma al più avrebbe riguardato la di lui moglie. La Cassazione ha accolto il ricorso formulato con il conseguente annullamento degli effetti civili della pronuncia e rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello. La sussistenza della scriminante La Corte, partendo dall’indubbio poiché accertato dal giudice di prime e seconde cure, disvalore e lesività della condotta posta in essere dall’imputato che appariva integrare la fattispecie incriminatrice, pone la propria attenzione sul contenuto della scriminante invocata dalla difesa e ritenuta sussistente dal giudice dell’appello. Nella propria analisi, il Collegio afferma che la scriminante avrebbe potuto e dovuto ritenersi sussistente, anche nella forma putativa ovvero in quella forma che ne rivela la sussistenza e l’esistenza nella sola costruzione volitiva dei fatti giuridici realizzati dall’imputato, solo nel momento in cui il medesimo si fosse trovato nella concreta necessità di esercitare il proprio diritto di difesa o di dover adempiere attraverso la comunicazione delle circostanze oggetto dell’imputazione sulla scorta di un dovere giuridico specificatamente impostogli in tal senso o da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell’autorità”. e la sua operatività. In altre parole la scriminante tutte le scriminati prende ad operare e a dispiegare i propri effetti solo ed esclusivamente allorché il soggetto che ne invoca la sussistenza si trova in condizione tale dal non poter agire diversamente rispetto alla necessità, assoluta, di tutelare diritti” di rango costituzionale pari a quelli oggetto di aggressione. Dunque l’agente deve trovarsi innanzi ad una sorta di impossibilità, vera o presunta ovviamente facendo riferimento alle ben note teorie elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di scriminanti putative, di agire diversamente. Nel caso di specie l’imputato ha creduto di evitare la situazione di impossibilità in cui pensava di doversi trovare, provando, attraverso un’anticipazione dei tempi, ad eliminarne o a diminuirne effetti o conseguenze. E qui, direbbe un colto commentatore, casca l’asino ! Concludendo. La scriminante putativa non cadrebbe sulla situazione concretamente verificatasi ma su quella che il soggetto riteneva avrebbe potuto verificarsi. Dunque il pensiero” inerente il pericolo era relativo non al pericolo concreto prospettato ma a ciò che l’imputato riteneva potersi prospettare in un ipotetico ed astratto futuro. Il limite della riconoscibilità dell’esigenza di tutelare beni costituzionalmente protetti, come si vede, si poneva ben oltre quel limite della necessaria concretezza ed immediatezza del pericolo oltre il quale le scriminanti non possono essere in alcun modo richieste od invocate. V’è poi da considerare, così come la Suprema Corte mostra di fare, che la situazione di pericolo atta a giustificare l’invocata sussistenza della scriminante, non deve essere causata da scelte” volontarie non obbligate, ovvero dalla volontà di esporsi liberamente e senza alcun obbligo, al pericolo medesimo. Dunque l’atto libero con cui l’imputato ha inteso rilasciare le dichiarazioni ha avuto natura e struttura tipica degli atti liberi, non necessitati né imposti e, quindi, risulta essere del tutto impossibile che ad una simile natura di atto venga applicata la scriminante richiesta e necessitata dal dover adempiere ad un dovere o ad un obbligo che, ontologicamente, presuppone l’esistenza di un ordine o di un dovere imposto e non originato da libera scelta. A volte sarebbe sufficiente ricordare, e ricordarsi, che l’interpretazione della legge deve sempre condursi facendo riferimento a quello che è il senso logico e formale delle affermazioni che essa produce per invocare una scriminante è necessario che sia presente, o sia possibile legittimamente rappresentarsi, quello specifica situazione che in essa è descritta.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 2 – 17 aprile 2014, n. 17064 Presidente Lombardi – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 19 luglio 2012 il Tribunale di La Spezia, in riforma della pronunzia di primo grado, assolveva M.G. dall'accusa di aver diffamato F.M. per aver reso alla polizia giudiziaria dichiarazioni lesive della reputazione e dell'onore di quest'ultimo, ritenendo che il fatto non costituisse reato. 2. Avverso la sentenza ricorre a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale il F. nella sua qualità di parte civile deducendo l'erronea applicazione della legge penale e correlati vizi motivazionali del provvedimento. In proposito il ricorrente censura la ritenuta sussistenza, anche solo nella forma putativa, delle cause di giustificazione dell'esercizio di un diritto e dell'adempimento di un dovere, rilevando come il M. si fosse spontaneamente presentato alla polizia giudiziaria per rendere dichiarazioni in relazione ad indagini che non lo riguardavano in prima persona ma al più concernevano la ditta della moglie e ad oggetto presunte frequentazioni di ambienti criminali del F. e l'assunzione abituale da parte del medesimo di stupefacenti di cui l'imputato avrebbe appreso in maniera indiretta trattandosi per sua stessa ammissione di mere voci correnti . Egli, senza averne alcuna necessità, si sarebbe dunque assunto il rischio della non veridicità delle informazioni riferite nella consapevolezza della loro offensività, ponendo in essere una condotta pienamente antigiuridica in difetto di elementi idonei a configurare le esimenti evocate in sentenza. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto con il conseguente annullamento agli effetti civili della sentenza impugnata, annullamento che deve essere disposto con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. 2. Il giudice del merito non ha infatti fatto buon governo dei principi che presiedono all'operatività delle esimenti previste dall'art. 51 c.p. Indubbia l'intrinseca lesività per l'onore e la reputazione della persona offesa di quanto riferito dal M. alla polizia giudiziaria - peraltro riconosciuta anche dalla sentenza impugnata - la sua condotta avrebbe potuto ritenersi giustificata nel senso affermato dal Tribunale solo qualora dovesse ritenersi che egli si fosse trovato in concreto nella necessità di esercitare in tal modo il proprio diritto di difesa ovvero di adempiere, attraverso la comunicazione delle circostanze narrate a verbale, ad un dovere specificatamente impostogli in tal senso da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell'autorità. 2.1. Sotto il primo profilo va evidenziato come - con motivazione sostanzialmente contraddittoria sul punto - la stessa sentenza ammetta che il M. non solo non era indagato nel procedimento penale riguardante i contratti di fornitura stipulati dall'amministrazione militare di cui in passato aveva fatto parte il quale peraltro era ancora iscritto a carico di ignoti , ma nemmeno risultava che egli fosse a qualsiasi titolo coinvolto nei fatti oggetto del medesimo. Ed infatti egli aveva deciso di presentarsi spontaneamente alla polizia giudiziaria solo in quanto tra le ditte fornitrici del Raggruppamento Incursori di La Spezia vi era quella della moglie. Il che esclude la sussistenza della causa di giustificazione prospettata anche solo nella sua dimensione putativa, peraltro apoditticamente riconosciuta dal Tribunale , mentre va da sè che l'imputato non avrebbe potuto mutuare a propria scusante le eventuali esigenze di difesa della moglie. Va dunque ribadito che, ai fini della configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., il diritto di difesa comporta la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un'autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva e cioè, in altri termini, che il diritto di difesa non comprende anche il diritto di arrecare offese ulteriori cfr. nello stesso senso Sez. 5, n. 6650 del 22 gennaio 1992, Zampini, Rv. 190500 . Ed in proposito va rilevato come il giudice di merito non si sia nemmeno posto il problema dell'accertamento dell'effettiva pertinenza oltre che della verdicità delle informazioni riferite dal M. con l'oggetto dell'indagine penale, evidenziando in tal senso una ulteriore lacuna della motivazione resa sui presupposti fattuali della causa di giustificazione ritenuta. 3. Quanto all'esimente dell'adempimento del dovere, la stessa è stata prospettata dal giudicante in maniera generica ed apodittica, senza tenere conto che, come ricordato in precedenza, il M. non era stato convocato dalla polizia giudiziaria, ma aveva assunto in maniera dei tutto autonoma l'iniziativa di comunicare le informazioni poi verbalizzate. Del resto in alcun modo la polizia giudiziaria avrebbe potuto ordinare legittimamente al M. di riferire su quelle che il Tribunale ha riconosciuto essere mere voci correnti tra il pubblico, sulle quali, dunque, egli non avrebbe mai potuto testimoniare ai sensi dell'art. 194 comma 3 c.p.p. 4. Alcun rilievo assume poi il fatto - ripetutamente sottolineata dalla sentenza - che l'imputato abbia riportato informazioni di cui aveva avuto conoscenza indiretta, atteso che la circostanza non lo esimeva sia dall'obbligo di verificarne la fondatezza prima di comunicarle a terzi, che da quello di non riferire circostanze lesive dell'onore altrui senza necessità. Il Tribunale ha poi invocato il fatto che il verbale in cui sono state raccolte le dichiarazioni dei M. fosse destinato ad essere coperto dal segreto investigativo. Circostanza che certamente non esclude l'integrazione della fattispecie contestata giacchè anche solo nell'ambito ristretto dell'indagine le dichiarazioni dell'imputato erano destinate ad essere conosciute da più persone e che invero è stata invocata, in ultima analisi, al solo fine di affermare - con un evidente paralogismo - la continenza delle suddette dichiarazioni, profilo che invero non riveste alcuna rilevanza nel caso di specie. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.