Pochi limiti alla lotta antimafia: confiscabili anche i beni di società controllate o collegate

Pronuncia innovativa della Cassazione, che nega l’insuperabilità di schermi giuridici fra imprese per l’operare della confisca.

Per profitti acquisiti in odor di associazione a delinquere di stampo mafioso, venivano sequestrate e poi confiscate – ex art. 2 ter l. n. 575/1965 Disposizioni contro la mafia ” – partecipazioni azionarie relative a più società, controllate e controllanti del medesimo gruppo societario riconducibile ad un affiliato, affidatario di più appalti pubblici. La Cassazione, Quinta Sezione Penale, n. 16311/2014, depositata il 15 aprile, chiarisce i limiti della misura cautelare de qua, quando insiste su una moltitudine di valori azionari riferibili all’indagato, disponendo il rigetto dell’impugnazione. La rete sociale è ampia ed eterogenea, il sequestro non conosce ostacoli”. Siccome riferibili all’indagato - titolare del gruppo imprenditoriale aggiudicatario degli appalti pubblici –, era stato disposto il sequestro nei confronti di beni e di crediti, di rilevante entità, che avrebbero tratto alimento dai profitti illeciti della società madre e sarebbero poi stati trasmessi ad enti societari corollari o diretti esecutori di lavori appaltati. Delle somme l’indagato non aveva fornito alcuna plausibile giustificazione di liceità. In tal caso la Cassazione, pur assente nella geografia giurisprudenziale un precedente specifico sul punto, rimuove ogni tipo di ostacolo alla piena operatività del sequestro e della confisca anche nei confronti di enti giuridici distinti ed autonomi , in via patrimoniale, dalla società madre. La chiave è di tipo probatorio , dedotta la relazione minima funzionale o patrimoniale fra enti diversi – il controllo societario ovvero l’incarico per l’esecuzione dei lavori appaltati -, la non giustificabilità della liceità dell’introito in capo alle società satellite consente l’operatività della misura cautelare, valicando le schermature formali fra società ed imprese distinte. L’estensione del sequestro nel contesto aziendale, la contaminazione del patrimonio. Non è possibile dissociare la parte patrimonialmente sana da quella insana/di provenienza illecita di proprietà della società. Aderendo ad un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la Cassazione deduce la confusione fra le molteplici parti che finalisticamente compongono l’attività aziendale beni strumentali, capitali e crediti, tutti sottoponibili a sequestro. I giudici non negano, in via di principio, l’identificabilità di una parte rimasta sana della società rispetto alla parte direttamente riferibile a traffici o condotte illecite. Tuttavia anche in tal caso la chiave è probatoria , occorre da un lato fornire chiari criteri contabili/economici che consentano di individuare la distinzione fra parte buona e parte cattiva – perché di provenienza illecita - del complesso aziendale. Dall’altro occorre dimostrare – ai limiti della prova diabolica – che il capitale o il profitto di genesi mafiosa non abbiano determinato, ab origine dell’attività aziendale, la crescita esponenziale della società in ogni sua componente, impedendo la distinzione di cui sopra. Nessun limite al sequestro anche per gli acquisti precedenti alla condotte contestate. Non sussiste alcun limite temporale alla sequestrabilità e confiscabilità di beni di cui l’indagato non provi la provenienza lecita o che risultino sproporzionati rispetto ai redditi dichiarati. Oggetto della misura possono essere anche beni acquisiti o maturati precedentemente alle condotte criminali contestate. Da un lato, la norma cit. non pone criteri temporali per l’ identificabilità del sequestrabile. Inoltre, per i giudici della Cassazione, la mancata prova della provenienza illecita dei beni assorbe, ad ogni effetto, qualsiasi altro criterio, non specificamente individuato dalla norma, che miri a selezionare quanto riferibile all’attività illecita e quanto a quella lecita.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 23 gennaio – 14 aprile 2014, numero 16311 Presidente Marasca – Relatore Bruno Ritenuto in fatto 1. Con decreto numero 130/08 del 9 luglio 2008 il Tribunale di Caltanissetta, pronunciando ai sensi dell'art. 2-ter e ss. della legge numero 575/65, disponeva, nei confronti di D.V.P. , la confisca dei beni sequestrati in virtù di quattro distinti decreti, emessi, rispettivamente, il 21 novembre 2006, il 20 dicembre 2006, il 23 aprile 2006 ed il 26 giugno 2007. In particolare, il primo dei sequestri anzidetti, quello del 21 novembre 2006, riguardava le partecipazioni societarie del proposto nelle società CO.SEI srl, D.V. Spa, Juvara Finance spa, Finance Sud spa, PRG srl., Iges srl. Palmintelli srl, San Francesco Edilizia srl. il secondo, del 20 dicembre 2006, riguardava le partecipazioni in altre società e correlati compendi aziendali e, più precisamente, in società partecipate dalla COSEI e dalla D.V. spa, compresa la totalità delle quote sociali relative alla Tecnoconsult srl il terzo provvedimento di sequestro, del 23 aprile 2007, riguardava le quote sociali, riferibili al proposto, della società Energia Pulita srl, pari al 65% del capitale sociale il quarto decreto, datato 26 giugno 2007, riguardava i crediti vantati dal proposto, nella qualità di socio finanziatore, nei confronti della Juvara Finance spa e della Finance Sud spa. Pronunciando sui gravami proposti dagli interessati, la Corte d'appello di Caltanissetta, con il decreto indicato in epigrafe, confermava l'impugnato provvedimento. Avverso l'anzidetta pronuncia, i difensori di D.L. , avv. Giuseppe Di Peri e Giuseppe Dacquì il difensore di A.U. , avv. Rosa Maria Giannone, e lo stesso D.V.P. ed i suoi difensori, avv. Mario Murone e avv. Maria Emilia Turco, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura di seguito indicate. 2. Con unico motivo, il ricorso in favore di D.L. eccepisce nullità del decreto impugnato, per violazione dell'art. 606 lett. e nonché b , in relazione all'art. 2-ter legge numero 575/1965. Si duole, al riguardo, che la Corte di merito abbia disatteso le doglianze espresse nell'atto di appello a sostegno della ritenuta inidoneità degli elementi utilizzati dal primo giudice per considerare suffragata l'ipotesi della disponibilità da parte del D.V. di beni dell'interveniente, al di là di scritture private del tutto insufficienti a giustificare la misura ablativa né risultava dimostrata l'ipotizzata gestione delle quote societarie in oggetto da parte del D.V. . Si sostiene, inoltre, l'inadeguatezza della motivazione per relationem , tanto più in presenza di specifiche contestazioni su capi e punti specifici del provvedimento impugnato e, dunque, la nullità del decreto in oggetto per mancanza assoluta di motivazione. Con la memoria in atti l'avv. Giuseppe Dacquì, in risposta al rilievo del PG in ordine alla mancanza di procura speciale, critica l'opinione giurisprudenziale che ne fa richiesta, in decisa controtendenza con l'evoluzione legislativa, consacrata dall'art. 23 comma 3, d.lgs. numero 159/2011, cd codice antimafia , che ha dato rilievo alla posizione del terzo interessato ed alle esigenze di tutela dei suoi diritti. Ha sollevarlo, inoltre, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 23, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., ove sia ritenuto che la norma imponga al terzo interessato di conferire procura speciale al difensore ai fini dell'impugnazione. 3. Il ricorso in favore di A.U. , proposto dal difensore e procuratore speciale avv. Rosa Maria Giannone, denuncia violazione dell'art. 606 lett. d ed e cod. proc. penumero per mancanza di motivazione ed omessa assunzione di prova decisiva. Sostiene, al riguardo, che il provvedimento impugnato si é limitato a recepire acriticamente la statuizione di primo grado senza motivare in alcun modo sulla documentazione versata in atti, già richiamata nell'atto d'impugnazione ed allegata alla memoria difensiva del 2008. In particolare, era erronea l'affermazione del giudice di appello secondo cui non risultava che la società avesse mai svolto attività di consulenza per società diverse da quelle riconducibili al gruppo D.V. , senza considerare gli allegati, contenenti fatture di clienti estranei al gruppo anzidetto, che si erano avvalsi della prestazione professionale della Tecnoculsult, proprio attraverso il suo titolare, odierno ricorrente. Mancava, inoltre, la motivazione sulle doglianze difensive, espresse nell'atto di appello sulla base della prodotta documentazione, comprovante l'effettivo trasferimento di titolarità delle quote societarie dal D.V. allo stesso ricorrente, di cui agli allegati dal numero 1 al 9, comprensivi anche delle dichiarazioni dei redditi del terzo, a riprova delle sue capacità finanziarie, in relazione all'acquisto delle quote della Tecnoconsult per gli anni in questione. Erano stati, inoltre, travisate le dichiarazioni del proposto al P.m. in data 11 agosto 2010, nel senso che, come si evince dal testo letterale delle stesse, il D.V. non aveva mai affermato che la Tecnoconsult facesse ancora parte del suo gruppo imprenditoriale, ma di averla ceduta al rag. V. ed al dr. A. e che la stessa ha cominciato a svolgere attività di servizi per conto terzi e studi di progettazione”. Con la memoria difensiva indicata in epigrafe, il difensore ha dedotto motivi nuovi, assumendo, anche in risposta ai rilievi espressi dal PG nella sua requisitoria scritta, che il giudice di appello non aveva valutato la documentazione offerta in primo grado, e specificamente indicata, a sostegno dell'infondatezza dell'addebito di intestazione fittizia in capo al ricorrente. Ad ulteriore riprova viene allegata autorizzazione dell'amministratore giudiziario a proporre ricorso per decreto ingiuntivo nell'interesse della Tecnoconsult nei confronti di una società di per il recupero del credito di Euro 120,000,00 derivante da un incarico di collaborazione, nell'ambito della progettazione dei lavori di ristrutturazione ed adeguamento a norma del presidio ospedaliero omissis . 4. Con unico motivo del ricorso in favore del D.V. , l'avv. Mario Murane deduce violazione dell'art. 606 lett. b , c ed e cod. proc. penumero in relazione all'art. 4 comma 10, legge 27.12.1956, numero 1423 e agli artt. 2 ter e ss. legge 31 maggio 1965 numero 575, per avere il decreto impugnato disposto la confisca dei beni in mancanza dei presupposti previsti dalla richiamata disciplina per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale. A dire del ricorrente, il provvedimento in esame sarebbe caratterizzato da motivazione meramente apparente, e di fatto inesistente, tanto da legittimare la ricorribilità per il vizio di violazione di legge, il solo deducibile in sede di legittimità. La mancanza di motivazione era evidente non essendo possibile ravvisare nella parte espositiva del ragionamento del giudice di appello alcun riferimento alle doglianza avanzata dalla difesa con riferimento all'attendibilità dei collaboratori di giustizia, all'esistenza di provvedimenti giurisdizionali che scagionavano il D.V. , alla produzione documentale che dimostrava la sua estraneità a determinati eventi amministrativi da cui si voleva far discendere l’”appartenenza all'associazione mafiosa od il concorso nella turbativa delle gare, in guisa che il decreto impugnato avrebbe dovuto ritenersi, già sotto tale profilo, affetto da nullità. Né avrebbe potuto sostenersi che le doglianze, non specificamente esaminate, fossero state implicitamente disattese in quanto incompatibili con la struttura e l'impianto motivazionale del provvedimento impugnato e con le premesse, logiche e giuridiche, che ne compendiavano la ratio decidendi . Del resto, il giudice di appello aveva addirittura affermato la sussistenza di elementi di valutazione, sicuramente non esistenti in atti, nonostante le controindicazioni provenienti dalla difesa, capaci di incidere sullo specifico momento decisionale. Si faceva, in particolare, riferimento all'affermazione secondo cui era superflua un'indagine su tutti gli appalti, vinti o non vinti, dal proposto, tenendo in considerazione solo la partecipazione al sistema illecito. Così facendo il giudice di appello era venuto meno all'obbligo di verificare la provenienza dei beni, poi confiscati, ed al doveroso accertamento se gli appalti fossero la fonte da cui provenivano le risorse finanziarie utilizzate per i successivi incrementi patrimoniali, attraverso l'ineludibile verifica se il preteso accordo illecito avesse dato i suoi frutti con l'aggiudicazione dei lavori quanta ricchezza illecita gli anzidetti appalti fossero stati in grado di generare, al fine di stabilire quanta e quale dovesse essere eventualmente la porzione illecita del patrimonio accumulato e disporne la relativa ablazione. Le risultanze processuali e, segnatamente, gli indicati provvedimenti giurisdizionali erano stati travisati nel loro contenuto giacché gli appalti di cui al procedimento in tema di turbativa delle gare, peraltro definito con pronuncia di intervenuta prescrizione, non comprendevano appalti aggiudicati al proposto, in quanto quelli a lui aggiudicati erano stati indetti dal Genio Civile di omissis e ritenuti riconducibili alla c.d. Emergenza idrica . Incomprensibilmente, il giudice di appello aveva ritenuto che le pronunce assolutorie emesse nei confronti del proposto non avessero rilevanza decisiva, alla stregua delle dichiarazioni del collaboratore Fe.Sa. , in mancanza di validi elementi dimostrativi, capaci di superare la valenza di quelle pronunce di estraneità. Si sostiene, poi, la mancanza dei presupposti di legge per la legittimità della confisca dei beni in oggetto. Il giudice di appello aveva disatteso il pacifico insegnamento giurisprudenziale secondo cui il bene non potesse essere interamente confiscato, ma soltanto nella quota ideale imputabile a reimpiego di risorse illecite e non aveva tenuto conto dei dati elaborati dalla relazione di consulenza richiamata nella memoria difensiva del 14 febbraio 2012. Si deduce, inoltre, la provenienza lecita dei beni acquisiti al patrimonio del proposto nel periodo antecedente al 1986, anno di accertamento della presunta pericolosità sociale. Relativamente al patrimonio acquistato in epoca antecedente mancava il necessario presupposto della sproporzione né risultava, in alcun modo, accertata l'ipotizzata provenienza illecita. Con memoria del 25 novembre 2013, il difensore del D.V. , avv. Mario Murane ha proposto motivi nuovi. Con il primo deduce violazione dell'art. 606, lett. b e c in relazione all'art. 4, comma 10, legge 27.12.2956 numero 1423 ed agli artt. 2-ter ss. legge 31.5.1965, numero 575 e 42 comma 2 cod.proc.penumero per avere il decreto impugnato disposto la confisca dei beni in oggetto sulla base di decreti di sequestro inefficaci, in quanto emessi dal giudice ricusato e, poi, astenutosi sequestro mai rinnovato dei giudici che avevano composto il nuovo collegio giudicante, che aveva poi emesso il provvedimento di confisca, confermato dalla Corte di merito. Deduce al riguardo - Il 28 marzo 2007 il D.V. aveva proposto dichiarazione di ricusazione nei confronti dei componenti del collegio giudicante e, in particolare, del presidente dr. C. , sul rilievo che esistevano le condizioni previste dall'art. 37, comma 1 lett. a , in quanto l'avv. Maria Emilia Turco, difensore dei terzi interessanti D.V.M. , D.V.A. e V.A. , era anche il difensore della moglie dello stesso C. , in un procedimento civile pendente innanzi alla Corte d'appello di Caltanissetta. - La ricusazione era stata dichiarata inammissibile con ordinanza del 30 marzo 2007 della Corte d'appello di Caltanissetta, che aveva ritenuto la dichiarazione generica e d'incerta determinazione temporale. Proposto ricorso per cassazione avverso l'anzidetta pronuncia, questa Corte Suprema, V Sezione penale, con sentenza del 23 ottobre 2007, aveva annullato il provvedimento impugnato, ritenendo che la dichiarazione fosse tutt'altro che generica e che dagli atti di causa risultava che la dichiarazione di ricusazione era intempestiva. - A seguito dell'annullamento con rinvio, il dr. C. , che, nelle more, aveva continuato a comporre il collegio giudicante, compiendo significativa attività procedimentale, presentava, il 20 dicembre 2007, istanza di astensione, che il Presidente del Tribunale di Caltanissetta, il giorno successivo, accoglieva, disponendo contestualmente la sostituzione del giudice astenuto con altro magistrato, in persona del dr. Al.Le. . Il nuovo presidente nominato, dopo aver presieduto l'udienza del 9 gennaio 2008, nella quale era stato nominato come relatore il dr. Ca.Ca. , in sostituzione del dr. C. , rilevato che non erano pervenuti gli atti richiesti con ordinanza del 19 dicembre 2007, rinviava all'udienza del 30 gennaio 2008. Il successivo 17 gennaio, lo stesso presidente, presentava, a sua volta, istanza di astensione, rappresentando di essersi ripetutamente occupato, come componente del collegio giudicante per le misure di prevenzione, di procedimenti incidentali che riguardavano il proposto ed i suoi familiari. L'istanza veniva accolta il 22 gennaio 2008 dal presidente del tribunale, che, contestualmente, nominava, in sostituzione, il dr. M.G. . Dall'esame degli atti allegati risulta, in tutta evidenza, che nei provvedimenti di autorizzazione all'astensione il presidente non aveva interloquito sull'efficacia degli atti compiuti in precedenza dai giudici astenuti né rispetto a tale questione vi era stata interlocuzione alcuna da parte dei collegi, che si erano succeduti in nuova composizione. Si poneva, pertanto, il problema dell'efficacia degli atti in precedenza compiuti, ai sensi dell'art. 42, comma 2 del codice di rito, sicuramente applicabile, in uno alle norme sull'astensione e sull'incompatibilità del giudice, al procedimento di prevenzione ai sensi dell'art. 4, comma 6, della legge 27 dicembre 1956 numero 1423, che faceva rinvio alle disposizioni degli artt. 636 e 637 del previgente codice di rito odierno art. 678, che, a sua volta, richiama l'art. 666 del vigente codice di procedura che pongono in stretta correlazione il procedimento di prevenzione con le norme codicistiche, comprese, dunque, quelle in tema di astensione e ricusazione del giudice. Tale riferimento normativo è stato, peraltro, riproposto nell'art. 7, comma 9, del citato d.lgsl. numero 159/2011 c.d. codice antimafia . Tutto ciò in ragione della riconosciuta natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione, anche alla luce delle recenti pronunce del giudice delle leggi in ordine all'illegittimità costituzionale dell'art. 2-ter della legge 575 del 1965 e dell'art. 4 della legge numero 1423 del 1956, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento di prevenzione si svolgesse, davanti al tribunale ed alla corte di appello, con le forme dell'udienza pubblica. Tutto ciò era lo sviluppo di un processo di evoluzione legislativa che aveva fatto recuperare al procedimento in materia di prevenzione il carattere giurisdizionale pieno, essendo indubbio che l'art. Ili, comma 1, della Costituzione, in tema di giusto processo, fosse applicabile anche al procedimento in questione. Riprova ne era che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nelle ormai note pronunce sentenza 13 novembre 2007, emessa nella causa Boccellari e Rizza c. Italia e sentenza 8 luglio 2008, emessa nella causa Pierre ed altri c. Italia aveva stabilito che la procedura di applicazione delle misure di prevenzione, prevista dall'ordinamento italiano, si poneva in contrasto con l'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La stessa Corte, oltre ad affermare che non è giustificabile la deroga alla pubblicità delle udienze, aveva posto l'accento proprio sulla caratura degli interessi in gioco, atteso che nelle misure di prevenzione vengono coinvolte direttamente libertà individuale ed interessi patrimoniali delle persone sottoposte alla giurisdizione. Tali indicazioni sono state recepite con sentenza del Corte Costituzionale numero 93 dell'8 marzo 2010. I connotati di sicura giurisdizionalità del processo di prevenzione sono stati affermati dalla giurisprudenza di legittimità successiva segnatamente, da SU 25 marzo 2010 numero 7 Cagnazzo . In linea con tale evoluzione ermeneutica era da ritenere del tutto in linea con i principi del giusto processo il riconoscimento al proposto anche delle garanzie della terzietà ed imparzialità del giudice. Pienamente applicabili al procedimento di prevenzione erano, dunque, gli approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità, specie con riferimento all'applicabilità dell'art. 42 comma 2 e del principio secondo cui la mancata indicazione di efficacia degli atti compiuti dal giudice astenuto o ricusato comportava il riconoscimento di inefficacia degli atti compiuti SU numero 13626/2010 Digiacomantonio . Tra gli atti inefficaci vi era certamente il sequestro adottato in data 26 novembre 2006 nonché l'atto di proroga del 3 ottobre 2007, emessi dal collegio composto dal dr. C.F. , ed ancora le ordinanze istruttorie del 3 ottobre e 19 dicembre 2007. La sanzione di inefficacia degli atti compiuti dallo iudex suspectus , affermata dalle Sezioni Unite per gli atti a contenuto probatorio, doveva estendersi a tutte le decisioni adottate anche nel procedimento cautelare. L'inefficacia del provvedimento di sequestro e del successivo decreto di proroga non potevano che incidere direttamente sulla disposta confisca, tanto più che gli atti inefficaci non erano stati rinnovati dal nuovo giudice. Sicché, considerato che l'art. 2 ter, comma 3, legge 31 maggio 1965, numero 575 prevedeva la confisca dei beni sequestrati , a norma del comma 2 dello stesso articolo o dei commi 4 e 5 dell'articolo 2-bis della stessa legge, risultava evidente che l'inefficacia del sequestro dei beni rendesse impossibile l'adozione della confisca, che, dunque, era da ritenere invalida. Il giudice di legittimità aveva ripetutamente affermato che, stante l'inscindibile collegamento tra la cautela ed il provvedimento ablativo sicché il sequestro non è soltanto, e logicamente, strumentale rispetto alla confisca ma rappresenta altresì atto necessario di avvio del procedimento applicativo della misura patrimoniale di prevenzione Sez. 5. numero 27613 del 26 luglio 2005 tenuto conto del carattere perentorio del termine previsto per l'emissione del provvedimento di confisca SU 16 dicembre 2000, numero 36, Madonia della connessione funzionale tra sequestro e confisca e dell'inefficacia della confisca disposta in violazione dei termini perentori previsti dalla legge, come ribadito anche dal recente codice antimafia Sez. 2, 24 maggio 2011, numero 22782 Sez. 5, numero 2411 del 21 aprile 1998 . Ne derivava che l'inefficacia del sequestro e del relativo provvedimento di proroga invalidavano l'intero procedimento di prevenzione, che, in mancanza di efficaci atti presupposti , non poteva sfociare in un valido provvedimento conclusivo. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 606 lett. b e c in relazione all'art. 4 comma 10 legge numero 1423/1956 ed agli artt. 2 ter ss. legge 575/1965, per avere l'impugnato decreto disposto la confisca dei beni, con motivazione assolutamente inesistente o meramente apparente e, comunque, a fronte dall'assoluta inesistenza dei presupposti previsti dalla normativa di settore per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale. Si insiste nel rilievo che il giudice di appello, nell'emettere il provvedimento ablativo, aveva disatteso le deduzioni ed allegazioni fornite dal proposto in punto di formazione lecita del suo patrimonio. Censura, in particolare, le affermazioni secondo cui, una volta accertata la pericolosità sociale, non fosse necessario stabilire, con valutazione atomistica, la provenienza illecita di ciascun bene, dovendo piuttosto assumere assorbente rilievo la circostanza che la confisca riguardasse un'entità imprenditoriale che si era arricchita grazie ai rapporti continui con il mondo del malaffare economico ed ai patti con l'organizzazione mafiosa, giungendo al punto di affermare che non era tanto questione di quantum , non essendo necessario stabilire in che misura, effettivamente, la crescita delle imprese fosse dovuta all'illecita posizione di vantaggio offerto dal sostegno della criminalità organizzata. Si duole, inoltre, che il giudice di appello non abbia considerato che il proposto aveva intrapreso da tempo lecita attività imprenditoriale, in epoca antecedente all'inizio delle sospette contiguità mafiose. E, pertanto, avrebbe dovuto tener conto dell'insegnamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui le misure di prevenzione non potevano colpire, con provvedimento ablativo, tutti i beni dei soggetti sottoposti a misure di prevenzione personale, dovendo limitare l'effetto ablativo all'ipotesi di reimpiego del denaro proveniente da fonte illecita, individuando il quantum di arricchimento illecito ed i beni che fossero da ritenere di provenienza illecita Sez. 1, numero 33479 del 4.7.2007, Vadala Sez. Inumero 447 del 24 maggio 2012, Spinelli . La Corte territoriale non aveva inteso tener conto che i beni acquisiti prima del 1986 erano frutto di attività imprenditoriale lecita, come emergeva dalle dichiarazioni dei redditi del proposto nell'arco temporale dal 1977 al 1985, con indicazione di capacità reddituale idonea a giustificare investimenti mobiliari ed immobiliari effettuati in tale periodo. Infondatamente, il giudice d'appello aveva ritenuto, al riguardo, che il proposto non avesse allegato alcun elemento specifico a confutazione del convincimento della pubblica accusa, ove invece vi erano in atti le anzidette dichiarazioni dei redditi all'allegato 3.1 della relazione di consulenza di parte redatta dal dr. Fe. . Si era così pervenuti ad una generalizzata confisca dei beni del proposto, in palese violazione delle norme che regolamentano la materia delle misure di prevenzione, in quanto la sicura formazione delle imprese in data antecedente all'accertata appartenenza e lo svolgimento di redditizie attività imprenditoriali di particolare rilievo, in quel periodo non inquinato da rapporti illeciti, facevano venir meno la necessaria correlazione temporale fra l'accertata pericolosità del proposto e l'acquisto dei beni oggetto del provvedimento ablativo . La relazione tecnica di parte consentiva di ricostruire con inappuntabile analisi economico-finanziaria la formazione del patrimonio del proposto, in epoca antecedente, frutto di attività in settori diversificati, per definizione estranei all'interferenza mafiosa. Il giudice di appello avrebbe dovuto indicare quali realtà imprenditoriali si sarebbero avvantaggiate dell'asserita vicinanza, quale apporto avrebbero ricevuto le stesse aziende da rapporti di contiguità con la mafia, in che modo l'apporto di risorse illecite abbia contribuito al mantenimento in vita delle imprese, in guisa da poter affermare che senza l'apporto di risorse illecite, l'intero compendio delle imprese non sarebbe sopravvissuto Sez. 5, numero 177739 del 25 gennaio 2012, Richichi . Per superare i rilievi difensivi il giudice di appello aveva adottato motivazione meramente apparente e, dunque, di fatto inesistente, sulla base di mera presunzione in contrasto con la realtà effettuale. In particolare, a fronte della ricostruzione patrimoniale effettuata dalla difesa, nella relazione di consulenza in atti avente ad oggetto la formazione del patrimonio del proposto, nessuna considerazione era stata addotta per confutare le pertinenti allegazioni difensive. Infondatamente, il giudice di merito ha addebitato al proposto di avere calcolato la somma dei redditi guadagnati negli anni 1986 1990, pari ad un miliardo ed ottanta milioni delle vecchie lire, sul presupposto che tale somma sarebbe rimasta invariata negli anni senza considerare le spese di mantenimento suo e del suo nucleo familiare, in quanto non aveva considerato il calcolo effettuato dal consulente di parte che aveva tenuto conto anche dei consumi e degli oneri di sostentamento familiare. Del pari, ingiustamente era stato ritenuto poco credibile quanto dichiarato dal proposto con riferimento alla riscossione nell'anno 1990 della somma di 4 miliardi delle vecchie lire in esito alla vendita di sue partecipazioni azionarie, soggiungendo che le operazioni anzidette presentavano dubbi, margini di sospetto e di verosimiglianza, nonostante un analitico prospetto delle componenti di siffatto guadagno e dei mezzi finanziari da cui provenivano e delle operazioni bancarie di trasferimento fondi specificamente e documentalmente provate. Disattendendo, quindi, l'insegnamento giurisprudenziale di legittimità, il giudice di merito ha ritenuto giustificata l'apprensione dell'intero compendio patrimoniale senza procedere ad un'analisi selettiva per differenziare quanta parte di redditività possa ragionevolmente imputarsi alla fruibilità e conseguente utilità economica di illeciti apporti finanziari e quanto parte possa, viceversa, ritenersi il risultato economico di disponibilità finanziarie lecite e legittimamente investite . 5. Con il primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Maria Emilia Turco si eccepisce l'illegittimità costituzionale degli artt. 34 e 36 cod.proc.penumero in relazione agli artt. 3, comma 1, 24 e 111, commi 1 e 2 Cost., nella parte in cui non prevedono l'obbligo di astensione del giudice che abbia già manifestato il proprio convincimento sull'oggetto del procedimento di prevenzione, nell'esercizio di funzioni giudiziarie e nell'ambito di altro procedimento di prevenzione a carico dello stesso prevenuto. Osserva, al riguardo, che il consigliere O.A. , che aveva redatto la motivazione del decreto impugnato, aveva fatto parte del collegio giudicante sulla misura di prevenzione personale, le cui deduzioni erano state ampiamente utilizzate nel provvedimento in esame il consigliere G.M.C. aveva, a sua volta, partecipato al collegio giudicante che aveva rigettato l'istanza di revoca della misura di prevenzione personale aveva fatto parte del collegio giudicante del procedimento per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, per il quale il ricorrente era stato ampiamente prosciolto aveva svolto funzione di Gip che aveva trattato la posizione del proposto in un contesto di ritenuta associazione per delinquere e turbativa d'asta aveva fatto parte del collegio giudicante del processo di prevenzione, conclusosi con decreto di rigetto della proposta del Questore di Caltanissetta per l'applicazione di misure di prevenzione personale nei confronti del proposto aveva fatto parte del collegio in altri procedimenti nei confronti dello stesso D.V. . Con il secondo motivo si eccepisce violazione degli artt. 24, 27 e 111 della Costituzione, nonché difetto motivazionale con riferimento al rigetto dell'istanza del proposto di rendere dichiarazioni spontanee prima dell'arringa del suo difensore. Lamenta che ingiustamente il giudice di appello aveva negato l'istanza di rinvio del nuovo difensore avv. Giacchino Genchi. Con il terzo motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento al diniego delle richieste istruttorie e delle altre istanze difensive di cui alle memorie difensive in atti. Si denuncia, inoltre mancanza assoluta di motivazione o motivazione meramente apparente. Con memoria del 20 novembre 2013, l'avv. Maria Emilia Turco ha dedotto violazione dell'art. 606 lett. c cod.proc.penumero , degli artt. 24 111 Cost., con riferimento agli artt. 42, comma 2, 178 e 179 cod.proc.penumero nell'applicazione dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, numero 575 e dell'art. 4, ultimo comma, della legge b. 1423/1956 e succ. modif., per l'inefficacia degli atti del procedimento di prevenzione del giudizio di primo grado con riferimento ai motivi 1, 2 e 3 del ricorso principale . Con diffuse motivazioni si ripropone la questione di inefficacia dei decreti di sequestro in quanto emessi dal giudice poi astenutosi senza che nel provvedimento autorizzatone all'astensione fossero stati indicati gli atti che avessero mantenuto efficacia. A dire del ricorrente la censura si inseriva tra le doglianze già illustrate nei motivi di ricorso principale, per violazione dell'art. 606 lett. c cod.proc.penumero . Segnala, al riguardo, che al ricorso principale era stato allegato DVD contenente digitalizzazione dei verbali di udienza di primo grado. Con la memoria depositata il 26 novembre 2013, l'avv. Maria Emilia Turco ha proposto altri motivi nuovi. Con il primo, ha dedotto violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c con riferimento agli artt. 24, 111 Cost., in relazione agli artt. 666, 482, comma 1, 181 182 cod.proc.penumero e 185 disp.att. cod. proc. penumero , nell'applicazione dell'art. 2-ter legge 31 maggio 1965 numero 575 e dell'art. 4, ultimo comma, della legge numero 1423/1956 e succ.modif., con riferimento ai motivi 2 e 3 del ricorso principale . Si segnalano, in particolare, le anomalie della procedura, peraltro evidenziate dall'ordinanza del 21 luglio 2011, con la quale il giudice di appello ha dichiarato chiusa la fase dibattimentale , con enunciazione propria della procedura ordinaria, rivelando così l'equivoco in cui era incorso lo stesso giudice, come evidenziato dal PG nella sua requisitoria scritta. Lamenta che la richiesta di concessione di termini a difesa, proposta dal nuovo difensore, sia stata rigettata dal giudice di appello con la laconica motivazione che era necessario definire il processo in tempi brevi. Sostiene che la produzione documentale, disattesa dal giudice a quo, non era in alcun modo vincolata al rispetto del termine di preventivo deposito di cui all'art. 127, comma secondo, applicabile soltanto alle memorie, potendo, invece, i documenti essere prodotti in qualsiasi momento con la sola prescrizione del rispetto del contraddittorio fra le parti. La produzione difensiva avrebbe dovuto essere acquisita dalla Corte senza particolari formalità, posto che non sono applicabili a procedimento di prevenzione le regole ed i limiti dell'art. 523 del codice di rito, richiamati in modo erroneo quindi, illegittimo dalla Corte territoriale, con grave pregiudizio delle garanzie e dei diritti di difesa del proposto. Indebitamente il giudice di appello aveva rigettato, con ordinanza del 12 ottobre 2011, la richiesta produzione sul presupposto che non poteva procedersi alla riapertura dell'istruzione formulata dall'avvocato per la produzione di ulteriore documentazione, rilevato che già il 21 luglio precedente la stessa Corte aveva dichiarato chiusa l'istruttoria dibattimentale e fissato il calendario per la discussione. A dire della Corte territoriale, ai sensi dell'art. 523 comma 6, applicabile anche al giudizio di appello, l'istruzione non poteva essere interrotta per l'assunzione di nuove prove se non in caso di assoluta necessità. Erroneamente, altresì, era stato rilevato che la produzione fosse precedente all'udienza di chiusura di discussione, sicché la relativa richiesta avrebbe potuto essere tempestivamente proposta, in quanto era vero, invece, che una parte della documentazione prodotta era successiva all'asserita chiusura dell'istruttoria dibattimentale tra cui la sentenza numero 2133/2011 della Corte d'appello di Roma, nei confronti di Rinzivillo ed altri, nel troncone principale del processo Cobra depositata il 30 giugno 2011 da tale sentenza risultava che il proposto era sostanzialmente persona offesa nella vicenda per cui era stato, invece, imputato di associazione per delinquere di stampo mafioso, sottoposto a custodia cautelare, condannato in primo grado e poi assolto in appello con formula perché il fatto non sussiste, come richiesto dallo stesso P.g. d'udienza. Osserva che tutto il procedimento di prevenzione personale nei confronti del D.V. era stato condizionato dall'anzidetta pronuncia di condanna, poi riformata. Da qui, dunque, l'eccepita violazione di norme processuali in quanto nel processo di prevenzione, che, secondo l'insegnamento di legittimità, deve svolgersi con le forme del rito, camerale, la produzione documentale non è sottoposta a termini od a particolari formalità. Con il secondo motivo si deduce identico vizio di legittimità nella parte in cui la Corte territoriale, in violazione del diritto di difesa del proposto e con motivazione assolutamente carente o meramente apparente, ha ritenuto l'illecita formazione di tutto il patrimonio mobiliare ed immobiliare del proposto nonché delle quote societarie. Si duole che non siano state considerate le produzioni documentali della difesa e segnatamente le relazioni di consulenza tecnico-contabile del dr. Fe. , che ricostruivano puntualmente il patrimonio del proposto in termini di assoluta liceità. Segnala, inoltre, l'erroneità dell'assunto argomentativo secondo cui, accertata la pericolosità sociale, non è necessario verificare la liceità dell'acquisto dei beni rientranti nella disponibilità del proposto inoltre l'art. 2-ter non consentiva un'acquisizione generalizzata indiscriminata dei beni, così come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 5, numero 17739 del 2.1.2012 Richichi-Vadalà . Segnala, inoltre che alla luce della riforma realizzata con decreto-legge numero 92 del 2008, l'art. 2-ter, pur continuando ad ammettere la confisca dei beni di valore sproporzionato al reddito od all'attività economica, richiede ai fini della confisca che i beni risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego , mentre prima bastavano sufficienti indizi si tratta di disposizione significativa, in quanto l'utilizzo del termine risultino avalla l'interpretazione più garantista secondo la quale sono ora necessari indizi gravi, precisi e concordanti, ossia una vera e propria prova indiziaria ex art. 192 cod. proc. penumero Sez. 5, numero 6684 del 16 ottobre 2009 Santomauro . Deduce, poi, la questione relativa alla necessaria correlazione temporale tra acquisto e pericolosità sociale Sez. 2, numero 3809 del 15 gennaio 2013, Castello, Rv. 254512 . Con la memoria del 6 dicembre 2013 lo stesso difensore lamenta il mancato esame della documentazione allegata alla memoria depositata all'udienza del 14 febbraio 2012 il mancato accoglimento della richiesta di perizia contabile la mancata considerazione dei rilievi difensivi in ordine all'attendibilità dei collaboratori di giustizia il diniego di esclusione dei collaboratori di giustizia B.G. e G.A. la mancata considerazione dei precedenti provvedimenti che avevano rigettato la richiesta di misura patrimoniale a carico del proposto sulla base delle dichiarazioni del collaboratore M.L. e di S.A. , di L.S. , di P.C. , Fe.Sa. . Si lamenta, poi, che il decreto impugnato abbia fatto diffuso riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia senza considerare la copiosa produzione documentale intesa a dimostrare l'inattendibilità degli stessi dichiaranti quelli indicati oltre a Gi. , Sc. , C. , V. ed altre ancora . Si lamenta, infine, che la Corte non abbia tenuto conto dell'esito dei procedimenti giudiziari, nel tempo avviati ed archiviati nei confronti del proposto o conclusosi con sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste , argomentando che era nella visione di assieme di tali provvedimenti che si sarebbero colti elementi significativi di pericolosità. Così facendo, era però venuta meno all'obbligo di indicare quali elementi inediti, non valutati dai giudici né dei pubblici ministeri , acquisiti dopo od omessi nella valutazione di assieme, componevano il quadro probante della c.d. impresa mafiosa su cui si fondava, nella sostanza l'apparente motivazione del provvedimento impugnato, peraltro affidata ad affermazioni apodittiche, prive del benché minimo riscontro. Dall'insieme di addendi privi di valore, quale appunto i precedenti provvedimenti favorevoli al proposto, non poteva in nessun caso risultare un dato conclusivo diverso dallo zero assoluto. 6. All'udienza camerale del 12 dicembre 2013, la Corte – tenuto conto della molteplicità e complessità delle questioni da decidere” - rinviava per la deliberazione all'udienza del 23 gennaio 2014. All'udienza fissata, la causa era decisa nei termini, di seguito, indicati. Considerato in diritto 1. Il ricorso in favore di D.L. è inammissibile, siccome proposto da difensore privo di procura speciale, come esattamente eccepito dal P.g. nella sua requisitoria scritta. Al riguardo, è appena il caso di osservare che la mancanza dell'anzidetta procura è circostanza pacifica in processo. Non risulta, infatti, il conferimento di un mandato difensivo ad hoc e, del resto, lo stesso difensore, nella memoria indicata in epigrafe, ha controdedotto alle osservazioni del P.g., negando la necessità della procura speciale e sollevando, in via gradata, eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 23 del d.lgs. 6 settembre 2011, numero 159 c.d. codice antimafia , nella parte in cui si ritenesse tuttora richiesta la procura speciale al difensore ai fini dell'impugnazione. Reputa, infatti, il Collegio di ribadire il principio affermato da consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità Sez. 2, numero 27037 del 27/03/2012, Rv 253404, secondo cui in tema di procedimento di prevenzione, il difensore del terzo interessato, non munito di procura speciale, non è legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto che dispone la misura di prevenzione della confisca né a tal fine può assumere rilievo la distinzione tra i casi in cui il terzo intervenga volontariamente e quelli in cui sia intervenuto iussu iudicis , poiché in entrambi i casi i soggetti intervenienti non sono destinatari della chiesta misura di prevenzione e risultano, quindi, portatori, nel procedimento di prevenzione, di un mero interesse di natura civilistica e, da ultimo, Sez. 6, numero 35240 del 27/06/2013, Cardone, Rv 256264 . Quanto alla questione di legittimità costituzionale, sembra pertinente il rilievo dello stesso P.g. in ordine all'irrilevanza della proposta eccezione, considerato che le norme del codice antimafia non sono applicabili alla fattispecie, alla luce della disposizione dell'art. 117 Disciplina transitoria , secondo cui le disposizioni contenute nel Libro I non si applicano nei procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione delle misure di prevenzione. In tali casi, continuano ad applicarsi le norme vigenti”. Nel caso di specie, la proposta è stata formulata dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta il 16 ottobre 2006, dunque antecedentemente all'entrata in vigore dell'anzidetta disciplina. Non v'è bisogno, allora, di osservare che, anche in caso di legittima proposizione del ricorso, lo stesso sarebbe stato parimenti inammissibile, in quanto, sotto la parvenza del vizio di violazione di legge, denuncia censure all'impianto motivazionale del provvedimento impugnato ed all’iter logico - giuridico che lo sorregge, ove invece il sindacato in tema di misure di prevenzione è, notoriamente, limitato alla violazione di legge, ai sensi dell'art. 4, comma 11, L. numero 1423/56, senza che possa estendersi al controllo sull'adeguatezza e coerenza logica del percorso giustificativo della decisione impugnata. 2. Il ricorso in favore di A.U. , è inammissibile, in quanto suo specie del vizio di violazione di legge, tenta di veicolare, pur esso, censure al compendio motivazionale del provvedimento impugnato. Non sembra, del resto, che sia condivisibile il rilievo di mera apparenza della motivazione, in quanto una motivazione, ancorché in ipotesi insufficiente od inadeguata, non è, di certo, mancante, a sostegno del convincimento del giudice a quo in ordine alla titolarità effettiva della Tecnoconsult in capo al D.V. , anche alla luce delle dichiarazioni dello stesso prevenuto nel corso dell'interrogatorio reso innanzi al P.m. in data 11 agosto 2010 e delle altre risultanze specificamente indicate. È indubbio, poi, che l'inammissibilità del ricorso principale travolga i motivi nuovi, alla stregua della norma di cui all'art. 585 comma 4, cod. proc. penumero . 3. L'articolato motivo dedotto dall'avv. Mario Murone, in favore del D.V. , si colloca alle soglie dell'ammissibilità, risolvendosi, nei molteplici profili di doglianza che lo sostanziano, in reiterate contestazioni all'impianto motivazionale, tacciato di incongruenza ed inidoneità. Si è appena sottolineato che, in subiecta materia , il solo vizio deducibile in questa sede è quello della violazione di legge, ai sensi dell'art. 4, comma 11, L. numero 1423/56, restando esclusa ogni censura allo sviluppo logico dell' iter giustificativo. Né, d'altronde, potrebbe fondatamente ipotizzarsi la mancanza o mera apparenza della motivazione - patologia pacificamente riconducibile all'alveo della violazione di legge - in quanto, il decreto in esame è certamente corredato di insieme giustificativo che - per quanto, in linea meramente ipotetica, possa ritenersi opinabile, in relazione a determinati aspetti -pur tuttavia esiste e, nel complesso, appare anzi pienamente valido ed adeguato nell'analitica esposizione delle ragioni per le quali il giudice a quo ha ritenuto affatto condivisibile il convincimento di prime cure in ordine alla sussistenza dei presupposti giustificativi della disposta misura ablatoria. Pur tuttavia, dal coacervo delle prospettazioni di merito affiorano due questioni di diritto di particolare momento, la cui infondatezza giustifica l'epilogo decisionale del rigetto dell'impugnazione. Il primo quesito afferisce all'individuazione del quantum confiscabile, che, a dire del ricorrente, avrebbe dovuto restare circoscritto alla quota ideale riconducibile all'utilizzo di risorse illecite, e non già, indiscriminatamente, alla globalità del contesto aziendale. Al riguardo, la soluzione della Corte di merito appare giuridicamente ineccepibile nel sostenere - sulla base di insegnamento di legittimità Sez. 5 numero 17988 del 30/01/2009, Baratta, Rv 244802 Sez. 2, numero 5640 dell'8.2.2007, Schimmenti, non massimata , al quale questo Collegio aderisce pienamente - che, nell'insieme aziendale non fosse possibile operare la reclamata distinzione, stante il carattere unitario dell'azienda, che è il risultato combinato e sinergico di capitali, beni strumentali, forza lavoro ed altre componenti, giuridicamente inglobati ed accomunati nel perseguimento del fine rappresentato dall'esercizio dell'impresa, secondo la definizione civilistica art. 2555 c.c. . Nell'insieme unitario costituente autonoma realtà economico-sociale, proprio perché i vari fattori interagiscono finalisticamente e si integrano vicendevolmente, dando luogo ad un'entità autonoma, non è possibile discernere l'apporto di componenti lecite riferibili a capacità ed iniziativa imprenditoriale da quello imputabile ad illecite risorse, tanto più ove il consolidamento e l'esponenziale espansione delle aziende del proposto siano stati, sin dall'inizio, agevolati dall'organizzazione mafiosa, in un circuito perverso di illecite cointeressenze cfr., pure, in tema di sequestro, Sez. 3, numero 6444 del 7.11.2007, Donvito, rv. 238819 . D'altro canto, nella fattispecie non risultavano, comunque, offerti affidabili elementi dimostrativi atti a consentire una tale indagine selettiva, non essendo state ritenute plausibili e probanti le deduzioni difensive, supportate dalle relazioni tecniche, con apprezzamento squisitamente di merito che, proprio perché compiutamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità. Un problema ulteriore - a quanto pare inedito nel panorama giurisprudenziale di legittimità - riguarda l'applicabilità della confisca alle società, appartenenti al gruppo imprenditoriale, diverse dalle consociate direttamente operanti nel settore degli appalti delle grandi opere pubbliche, nel quale più direttamente si sarebbe dispiegato il condizionamento mafioso e si sarebbero realizzati i benefici scaturenti dalla ritenuta contiguità con la criminalità organizzata, sia nella fase dell'aggiudicazione delle gare che in quella dell'esecuzione dei lavori appaltati. Anche su tale versante, la risposta motivazionale del giudice di appello è, certamente, corretta. Ed infatti, se è vero che nell'ambito del gruppo di imprese, resta impregiudicata l'autonomia giuridico-patrimoniale di ciascuna di esse, è pur vero che l'impostazione accusatoria recepita nelle convergenti pronunce di merito era tutt’altro che implausibile. Si era, infatti, sostenuto, sulla base di risultanze investigative ritenute dotate di capacità dimostrativa, che le società finanziarie, facenti capo al gruppo, avessero ricevuto conferimenti per un ammontare di oltre 16 milioni di Euro, sulla cui legittimità il proposto non aveva offerto valida giustificazione, donde la piena correttezza del processo inferenziale secondo cui quell'ingente somma fosse la risultante di illecite risorse, che - determinate o favorite, nella loro formazione, dalla ritenuta contaminazione mafiosa - fossero state immesse nel circuito imprenditoriale/finanziario, nella prospettiva non solo del relativo occultamento, ma anche dell'utile e remunerativo reimpiego. Donde, la piena legittimità dell'assunto, fatto proprio dai giudici di appello, secondo cui anche strutture societarie diverse da quelle direttamente operanti nel settore dei pubblici appalti avevano tratto beneficio dalla ritenuta contiguità e, dunque, fossero pur esse suscettibili di ablazione. La seconda questione riguarda l'estensibilità della confisca agli acquisti antecedenti all'asserito inquinamento da contiguità mafiosa ed all'accertata pericolosità sociale del proposto nel caso di specie, gli acquisti antecedenti al 1986. Al riguardo, il giudice a quo ha fatto richiamo all'orientamento interpretativo di questa Corte di legittimità che - sul rilievo che la normativa non prevede una correlazione temporale tra disponibilità patrimoniali e data di accertato inizio della pericolosità sociale - ha ritenuto che sono suscettibili di confisca anche i beni che il proposto abbia acquisito, direttamente od indirettamente, in epoca antecedente a quella cui si riferisce l'accertamento della pericolosità, purché ne risulti la sproporzione rispetto ai redditi e l'assenza di fonti lecite di acquisto Sez. 6, numero 35240 del 27/6/2013, Cardone, Rv 256266 Sez. 5, numero 27228 del 21/04/2011, Cuozzo, Rv 250917 . Nel caso di specie, ritenuti ricorrenti entrambi i presupposti, è stata considerata legittima l'apprensione dei beni anzidetti. Il convincimento del giudice di appello appare corretto e compiutamente giustificato. Ed invero, secondo lo spirito della legislazione in tema di prevenzione, intesa a colpire - nell'ottica di una più incisiva azione di contrasto alla criminalità organizzata, anche in termini di efficace deterrente - illeciti patrimoni, la cui acquisizione rappresenta, per massima di comune esperienza e conclamato dato sociologico, la ragione primaria della fenomenologia mafiosa, sono certamente aggredibili i cespiti, pur se acquisiti antecedentemente alla data dell'accertamento giudiziale della pericolosità sociale, ove risulti provata la sproporzione degli stessi rispetto alle capacità reddituali e finanziarie del proposto e possa, ragionevolmente, ipotizzarsi, sulla base di corretto processo inferenziale, la provenienza di quei beni da attività illecite. La tenuta costituzionale di tale sistema - e la non dissonanza rispetto dei principi dell'ordinamento comunitario - è assicurata dalla facoltà offerta all'interessato di fornire prova contraria e liberatoria, attraverso la dimostrazione della legittimità degli acquisti. Con ovvia intesa che una prova siffatta, specie per gli acquisti risalenti nel tempo, non deve certamente rispondere ai rigorosi canoni probatori propri di un giudizio petitorio, con il rischio di assurgere al rango di probatio diabolica, potendo anche affidarsi a mere allegazioni, ossia alla sola prospettazione di fatti e situazioni che rendano ragionevolmente ipotizzabile la legittima provenienza di determinate disponibilità finanziarie. Sul versante del regime probatorio, non sembra che la novella del d.l. 23 maggio 2008, numero 92, come coordinato con la legge di conversione del 24 luglio 2008, numero 125, abbia apportato dirompenti innovazioni, così come esattamente rilevato dal P.g. nella sua requisitoria scritta. Si fa riferimento, in particolare, al primo periodo del comma 3 dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, numero 575, il cui testo originario era il seguente con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza” ed è stato poi sostituito dall'art. 10 del citato d.l. numero 92/2008, introdotto dalla legge di conversione numero 125/2008, nei termini seguenti con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti sia instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio credito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego”. Come si è osservato in dottrina, si è trattato, infatti, solo di un intervento di razionalizzazione ed armonizzazione della materia della prevenzione con quella della sicurezza patrimoniale di cui all'art. 12 sexies del d.l. numero 306 del 1992 c.d. confisca obbligatoria dei valori ingiustificati . A siffatta finalità si è aggiunta anche l'esigenza di chiarificazione testuale in ordine all'individuazione del soggetto cui competa la prova della provenienza dei beni, a fronte della precedente, equivoca, formulazione non sia stata dimostrata la legittima provenienza. Insomma, non si è avuta alcuna significativa immutazione del previgente statuto probatorio . Già con riferimento al precedente regime, questa Corte aveva avuto occasione di statuire che ai fini dell'applicabilità della misura della confisca di beni patrimoniali nella disponibilità di persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, è sufficiente che sussistano una sproporzione tra le disponibilità e i redditi denunciati dal proposto ovvero indizi idonei a lasciar desumere in modo fondato che i beni dei quali si chiede la confisca costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite e che il proposto non sia riuscito a dimostrare la legittima provenienza del danaro utilizzato per l'acquisto di tali beni. Ne deriva che al riguardo non si verifica alcuna inversione dell'onere della prova, perché la legge ricollega a fatti sintomatici la presunzione di illecita provenienza dei beni e non alla mancata allegazione della loro lecita provenienza, la cui dimostrazione è idonea a superare quella presunzione” Sez. 5, numero 228 del 12/12/2007, dep. 07/01/2008, Campione, Rv. 238871 . Identico riparto del carico probatorio deve riconoscersi nel nuovo assetto normativo spetta, pur sempre, alla parte pubblica l'onere della prova in ordine alla sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale nonché all'illecita provenienza, da dimostrare anche in base a presunzioni. Nondimeno, al proposto è riconosciuta la facoltà di offrire prova contraria e liberatoria, atta a neutralizzare quelle presunzioni, in guisa da dimostrare la legittima provenienza degli stessi beni. Nessuna innovazione è stata introdotta neppure sul piano dell'intensità dell'apporto probatorio, in dipendenza della locuzione risultino essere frutto , in quanto l'assunto della provenienza illecita del patrimonio deve pur sempre essere la risultante di un processo dimostrativo, che si avvalga anche di presunzioni, affidate ad elementi indiziari purché connotati dei necessari coefficienti di gravità, precisione e concordanza. È significativo, del resto, che identico regime probatorio sia stato riprodotto nell'art. 24 del menzionato codice antimafia, in base al quale l'applicazione della confisca è subordinata ad una serie di parametri probatori, così individuabili a mancata giustificazione della provenienza dei beni da parte del soggetto nei cui confronti è instaurato il procedimento di prevenzione b titolarità o disponibilità, a qualsiasi titolo, degli stessi beni, da parte dello stesso soggetto, sia direttamente che indirettamente, in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, od alla propria attività economica c provenienza dei beni, che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Venendo ora ai motivi nuovi proposti dall'avv. Murone con memoria difensiva del 25 novembre 2013, la prima censura riguarda la pretesa inefficacia dei decreti di sequestro, siccome emessi da giudice poi autorizzato all'astensione in ragione di riconosciuta causa di incompatibilità. Dalla puntuale indicazione del segmento processuale relativo alla dedotta questione di diritto, nei termini indicati in narrativa, emerge che, nelle more della definizione della procedura di ricusazione, culminata con una pronuncia rescindente di questa Corte regolatrice, il presidente del collegio preposto all'esame delle misure di prevenzione - ricusato dal proposto in ragione del fatto che il legale dei terzi interessati aveva assunto l'ufficio di difensore della moglie dello stesso presidente nell'ambito di una causa civile pendente in grado di appello innanzi alla stessa Corte nissena - aveva presentato istanza di autorizzazione all'astensione, accolta dal Presidente del Tribunale. È, altresì, emerso che nel provvedimento presidenziale di autorizzazione era stata omessa l'indicazione, a norma dell'art. 42, comma 2, cod. proc. penumero degli atti - compiuti precedentemente dal giudice astenuto - che conservassero efficacia. Il motivo è in tutta evidenza nuovo , siccome estraneo all'ambito di cognizione tracciato dai motivi del ricorso principale né ad esso funzionalmente connesso e, dunque, inammissibile ai sensi degli artt. 585 e 611 del codice del rito. Al riguardo, nessun dubbio può, fondatamente, prospettarsi in ordine all'applicabilità delle anzidette norme processuali, nella pacifica interpretazione giurisprudenziale sulla nozione di novità, anche al procedimento di prevenzione. Reputa, dunque, questa Corte di dover senz'altro ribadire il principio affermato, in tal senso, da datato precedente giurisprudenziale Sez. 5, numero 2572 del 09/11/1995 dep. 02/01/1996 , Mirabella, Rv. 203578, secondo cui per effetto del dettato dell'art. 4, undicesimo comma della legge 27 dicembre 1956, numero 1423 per la proposizione e decisione dei ricorsi riguardanti le misure di prevenzione si osservano, in quanto applicabili, le norme del codice di procedura penale relative ai ricorsi in materia di misure di sicurezza. Siffatto richiamo, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di rito, opera nei confronti dell'art. 680 di detto codice. Conseguentemente, poiché l'art. 680 richiama a sua volta le disposizioni generali sulle impugnazioni, ai ricorsi avverso provvedimenti in materia di misure di prevenzione si applica l'art. 585, quarto comma cod. proc. penumero , riguardante la proposizione dei motivi nuovi di impugnazione . Secondo il richiamato insegnamento giurisprudenziale, i motivi nuovi di impugnazione debbono essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall'impugnazione principale, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari da ultimo, Sez. 1, numero 5182 del 15/01/2013, Vatavu Ionut, Rv. 254485 . La questione di efficacia dei decreti di sequestro, con il correlato riverbero sull'efficacia del provvedimento di confisca, non era stata proposta nei motivi principali - e neppure, larvatamente, adombrata - né potrebbe, in alcun modo, ritenersi ricompresa nell'eccezione di illegittimità dell'impugnato il decreto di confisca, che riguardava ex professo la ritenuta mancanza dei presupposti di legittimità della misura ablatoria. Ed allora, rilevata la novità e, quindi, l'improponibilità della questione anzidetta, occorre nondimeno farsi carico di un ulteriore profilo, riguardante l'ipotetica rilevabilità d'ufficio della dedotta inefficacia dei decreti di sequestro e della sua proiezione sulla validità od efficacia della disposta confisca, di guisa che l'atto difensivo contenente motivi nuovi , possa intendersi come memoria sollecitatoria del rilievo officioso. La problematica così delineata postula, com'è ovvio, che si abbiano per acquisiti, e positivamente risolti, ulteriori profili problematici, riguardanti l'applicabilità al procedimento di prevenzione delle norme ordinarie in tema di astensione e ricusazione, compreso lo specifico segmento di quella disciplina, riguardante l'efficacia degli atti posti in essere dal giudice astenuto o ricusato. Il primo interrogativo trova sicura risposta affermativa, alla stregua dell'evoluzione legislativa e giurisprudenziale, efficacemente richiamata nell'anzidetta memoria difensiva, in tema di progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione e di conseguente operatività anche in quell'ambito processuale del principio di terzietà del giudice, che è canone ineludibile del giusto processo , secondo i dettami costituzionali dei commi primo e secondo dell'art. 111 Cost Ma anche la speciale disciplina dell'art. 42 del codice di rito deve trovare applicazione in questa sede, per via del rapporto di stretta connessione con il regime dell'astensione e ricusazione, posto che l'atto posto in essere dallo iudex suspectus non può che essere inefficace per antonomasia, proprio in quanto ontologicamente inquinato dall'ombra del sospetto che possa essere stato dettato da ragioni diverse da quelle cui avrebbe dovuto ispirarsi, nel rispetto dei principi dell'autonomia ed imparzialità. Di talché, deve ritenersi operante, anche in tema di misure di prevenzione, il principio di generale, tendenziale, inefficacia degli atti compiuti dal giudice sospetto, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità SU numero 13626 del 16/12/2010, dep. 05/04/2011, Digiacomantonio, Rv. 249300 , sia pure con riferimento agli atti a contenuto probatorio. Ne viene che, in ipotesi di mancata dichiarazione, ai sensi dell'art. 42, comma 2, degli atti che, in virtù del principio di conservazione, mantengano efficacia, tutti gli atti compiuti dal giudice ricusato o astenuto devono ritenersi, tendenzialmente, inefficaci. Tornando, allora, al quesito di fondo resta da vedere se tale inefficacia sia rilevabile di ufficio ovvero soggetta al regime della deducibilità ad eccezione di parte. Reputa la Corte che al quesito non possa darsi risposta indiscriminata, occorrendo avere riguardo alla natura dell'atto in questione. Ed infatti, mentre per gli atti a contenuto probatorio, può valere il principio della rilevabilità ufficio, posto che per essi non è previsto un regime di immediata impugnabilità e la relativa inefficacia si risolve nell'inutilizzabilità, che già di per sé è soggetta al rilievo d'ufficio, a mente dell'art. 191, comma 2, cod. proc. penumero , per gli atti a contenuto dispositivo, come i provvedimenti cautelari, l'ordinamento prevede un regime di immediata reclamabilità, ai sensi degli artt. 322 e ss. del codice di rito. E, per quanto riguarda il procedimento di prevenzione, se è vero che in tema di sequestro di beni nella disponibilità di indiziati dell'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, così come in tema di proroga del termine di efficacia del sequestro in caso di indagini complesse, ai sensi dell'art. 2-ter, comma terzo, della legge numero 575 del 1965, non è consentita l'autonoma e immediata impugnazione del relativo decreto, in considerazione del principio generale di tassatività delle impugnazioni, della natura meramente strumentale del provvedimento e delle caratteristiche sommarie della fase procedimentale, connotata da incisive decadenze . Sez. 1, numero 3814 del 21/05/1999. Di Lernia, Rv. 213830 , è pur vero che, in materia, il diritto di difesa è, comunque, garantito dalla facoltà d'impugnazione differita del decreto di sequestro e dell'eventuale provvedimento di proroga, mediante l'impugnazione del provvedimento che abbia disposto la confisca dei beni sequestrati Cass., Sez. I, numero 4915 del 4.10.1996, Rocchetti, Rv. 207717 . Ed allora, non par dubbio che il vigente sistema normativo postuli l'impugnazione, sia pure differita, del provvedimento cautelare affetto da inefficacia, di talché il mancato gravame comporti l'irrevocabilità della confisca emessa sul presupposto di misura, ad essa strumentale, colpita da inefficacia od anche - come nella specie - in esito ad un provvedimento di proroga pur esso astrattamente inefficace, in quanto emesso da giudice sospetto. D'altro canto, è evidente che spetti al giudice del prevenzione, così come al giudice del procedimento ordinario SU Diagiacomantonio, cit. , di valutare in concreto l'effettiva incidenza dell'ipotetica causa di inefficacia, che, seppur tendenzialmente ravvisabile in linea di principio - per quanto sopra si è detto - deve essere in concreto valutata nei possibili riflessi sul versante dell'effettivo pregiudizio ai diritti di difesa. E tanto vale, di certo, a corroborare il convincimento della rilevabilità solo ad eccezione di parte e non già ex officio. Del resto, basti considerare, nello specifico, la particolare ragione di sospetto, da presunta incompatibilità, connessa al fatto che il difensore dei terzi interessati aveva assunto la difesa, in una controversia civile, del coniuge del presidente del collegio giudicante e che l'atto sospettato di parzialità era un decreto di sequestro di beni di quegli stessi soggetti, terzi interessati, dunque una misura cautelare tutt'altro che favorevole agli interessi di costoro. La seconda censura non contiene, in realtà, motivi nuovi, risolvendosi nella mera reiterazione di questioni già articolate nel ricorso principale, con arricchimento di ulteriori profili, squisitamente di merito. È sufficiente, allora, considerare che, in merito a tutte le questioni proposte, non manca la risposta motivazionale del giudice a quo, la cui adeguatezza sul piano logico ed inferenziale non può essere sindacata in questa sede in ragione dei limiti cognitivi tracciati dall'esclusiva deducibilità del vizio di violazione di legge, come in precedenza considerato. 4. La prima ragione di censura del ricorso proposto dall'avv. Maria Emilia Turco in favore del D.V. , riguardante la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 36 cod.proc.penumero in relazione agli artt. 3, comma 1, 24 e 111, commi primo e secondo, Cost., é manifestamente infondata. Ed invero, la pretesa incompatibilità dei componenti del collegio giudicante in sede di appello, per il fatto di aver espresso in altri contesti procedimentali il proprio convincimento sulla posizione del D.V. o dei suoi familiari, non risulta essere stata dedotta nelle prescritte forme della procedura di ricusazione, di guisa che la questione di legittimità costituzionale delle norme anzidette è irrilevante, così come esattamente rilevato dal P.g. nella sua requisitoria scritta Sez. 3, numero 285 del 28/11/1999, dep. il 13/05/1999, D'Angeli, Rv 214066 cfr. Sez. U numero 5 del 17/04/1996, D'Avin, Rv 204464 . La seconda censura è destituita di fondamento, in entrambi i profili di doglianza in cui si articola. Ed invero, quanto al rilievo relativo alla mancata concessione al proposto della facoltà di rendere dichiarazioni spontanee prima dell'arringa del suo difensore, non può che ribadirsi, al riguardo, il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 4, numero 12482 del 2.2.2011, Rv. 250129, secondo cui la disciplina prevista per lo svolgimento della discussione in dibattimento dall'art. 523 cod. proc. penumero , secondo il quale è possibile la replica ed in ogni caso l'imputato ed i difensori devono avere la parola per ultimi se la domandano, non trova applicazione nei procedimenti in camera di consiglio cfr., nello stesso senso, Cass. Sez. 6,numero 9250 del 26.1.2005, Rv 230939, secondo cui nei procedimenti in camera di consiglio non trova applicazione la disposizione, prevista pena di nullità, secondo cui nella discussione l'imputato e il difensore devono avere la parola per ultimi se lo domandano, riferendosi tale disciplina al dibattimento art. 523, comma quinto,cod. proc. penumero in fatti, nella discussione orale in camera di consiglio, trattandosi di una procedura più snella, la nullità consegue solo nell'ipotesi prevista dal combinato disposto dell'art. 127, commi terzo e quinto cod. proc. penumero , qualora il difensore comparso non sia sentito dal giudice, restando quindi irrilevante l'ordine degli interventi . La questione è, comunque, irrilevante non essendo neppure specificato quale pregiudizio il proposto abbia, concretamente, subito in conseguenza di siffatta, ipotetica, limitazione e quali elementi di potenziale decisività avrebbe potuto prospettare, ove gli fosse stato consentito l'ennesimo intervento personale nel procedimento. Infondato è anche il rilievo riguardante la mancata concessione del rinvio al nuovo difensore, avv. Giacchino Genchi, richiesto per termine a difesa , in quanto, al di là di ogni considerazione al riguardo, un rinvio dell'udienza era stato comunque disposto, sia pure per minor tempo rispetto a quello richiesto v. ordinanza 12.10.2011, all. 86 . Anche la terza doglianza, relativa al diniego delle richieste istruttorie e delle altre istanze difensive di cui alla memoria in atti, é priva di fondamento, posto che la struttura motivazionale del provvedimento impugnato non può ritenersi carente o meramente apparente. Del resto, risultano evidenti - anche se, in determinate parti, in forma implicita - le ragioni della ritenuta non necessità di ulteriori approfondimenti istruttori, rispetto ai quali, peraltro, non è stata offerta in questa sede adeguata specificazione del coefficiente di decisività, in termini tali da scardinare il costrutto logico-argomentativo della pronuncia in esame. La questione di rito, oggetto della memoria difensiva del 20 novembre 2013, riguarda l'asserita inefficacia dei decreti di sequestro siccome emessi dal giudice astenuto, in termini affatto identici all'eccezione sollevata dall'avv. Murone. È del tutto ovvio, quindi, che debba condividere l'epilogo decisionale del rigetto, per le stesse ragioni sopra indicate. Ed invero, neppure la difesa, rappresentata dagli avv. Maria Emilia Turco e Giacchino Genchi, aveva sollevato l'anzidetta questione nel ricorso né la stessa poteva ritenersi implicitamente dedotta nei motivi principali riguardanti le pretese anomalie verificatesi nella procedura di prevenzione i cui atti erano stati interamente allegati mediante digitalizzazione dei relativi verbali dei DVD allegati alle corpose e ridondanti memorie difensive. Sarebbe stata, invece, necessaria una specifica e puntuale indicazione dell'eccezione anzidetta. Con la memoria difensiva del 26 novembre 2013, sono state specificamente indicate le anomalie di cui sarebbe affetta la procedura camerale in esito alla quale è stato emesso il provvedimento impugnato. Si tratta dell'impropria dichiarazione di chiusura della fase dibattimentale e del diniego di acquisizione di documenti in quanto intempestivamente prodotti, sul rilievo che il termine di preventivo deposito di cui all'art. 127, comma secondo, sarebbe applicabile soltanto alle memorie, ben potendo, invece, i documenti essere prodotti in qualsiasi momento, con la sola prescrizione del rispetto del contraddittorio fra le parti. In particolare, si contesta la pronuncia del giudice di appello, contenuta nell'ordinanza espressamente indicata del 12 ottobre 2011 , con la quale si è fatto richiamo alla norma di cui all'art. 523 comma 6 - applicabile anche il giudizio di appello, secondo cui la discussione non può essere interrotta per l'assunzione di prove nuove se non in caso di assoluta necessità - ed è stata negata la produzione di nuovi documenti, sull'erroneo assunto che gli stessi fossero antecedenti all'udienza in cui era stata chiusa l'istruttoria dibattimentale. In proposito, si osserva che è indubbio che la procedura in esame sia stata caratterizzata da vistose anomalie, dovute, soprattutto, alla singolare applicazione, da parte del giudice di appello, di moduli procedurali propri del rito ordinario come la chiusura dell'istruttoria dibattimentale e l'impossibilità, se non in caso di urgenza, di interrompere la discussione per nuovi adempimenti istruttori . Sennonché, il problema è quello di verificare l'effettiva incidenza di siffatte anomalie sull'esercizio dei diritti di difesa. La risposta al quesito non può che essere negativa. Ed invero, quanto all'impropria chiusura della fase dibattimentale, pacifica l'inapplicabilità al procedimento di prevenzione della menzionata norma di cui al comma 6 dell'art. 523 del codice di rito - non essendovi, in materia, alcuna preclusione in ordine alla possibilità di riaprire il dibattimento per assumere nuove prove, se queste sono decisive Sez. 5, numero 10819 del 22/10/1993, Montani, Rv 196307 - l'errar in procedendo é del tutto inlnfluente, posto che il giudice di appello ha comunque escluso l'ipotizzata decisività delle nuove produzioni, ritenendole espressamente non necessarie ai fini della decisione, tenuto anche conto del corposo compendio documentale ed istruttorio acquisito agli atti. Per quanto riguarda la produzione documentale, nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice vi é divergenza interpretativa in ordine all'inapplicabilità, nella procedura di prevenzione, degli ordinari termini di deposito Sez. 1, numero 3679 del 19.5.2000, Di Bella, Rv 216280, secondo cui è illegittimo il provvedimento con il quale il tribunale di sorveglianza non consente all'interessato la produzione di copie di un provvedimento giurisdizionale, assumendone l'intempestività sotto il profilo del mancato rispetto dei termini stabiliti nell'art. 666, comma terzo, cod, proc. penumero , in quanto quest'ultima disposizione si riferisce solo alle memorie difensive e non ai documenti ovvero alla necessità della relativa osservanza Sez. 1 numero 26680 del 12/04/2013, Tripodi, Rv 256053, secondo cui nel procedimento di esecuzione, per la produzione di documenti, dev'esser rispettato il termine di cinque giorni, previsto per le memorie dal comma secondo dell'articolo 127 cod.proc.penumero Sez. 3 numero 39777 del 28.9.2010, Martinucci, Rv 248768, secondo cui il giudice dell'incidente di esecuzione non deve tener conto delle memorie dei documenti che siano prodotti oltre il termine del quinto giorno antecedente l'udienza . Sennonché, nel caso di specie, la questione è irrilevante proprio perché il giudice di appello ha, comunque, valutato la documentazione offerta, ritenendola non necessaria ai fini della decisione. E quanto all'erronea indicazione dell'anteriorità dei documenti offerti dalla difesa, rispetto all'udienza di chiusura della discussione, è sufficiente considerare che l'argomento è stato addotto solo ad abundantiam come fatto palese dall'uso della proposizione peraltro nella menzionata ordinanza del 12 ottobre 2011, dopo il doveroso rilievo della non necessità di ulteriori acquisizioni documentali. Anche per quanto concerne le memorie difensive, è certamente erroneo il richiamo nell'ordinanza 21 ottobre 2012 all'art. 121 del codice di rito, come esattamente rilevato dal P.g. requirente sia pure con riferimento a Sez. 1 numero 4793 del 25.1.2012, Carta, Rv 251864, riguardante specificamente il procedimento cautelare, secondo cui nel procedimento di appello cautelare, il deposito delle memorie difensive è regolato non già dalla norma generale di cui all'articolo 121 cod. proc. penumero , bensì da quella speciale di cui al comma secondo dell'articolo 127 cod. proc. penumero , espressamente richiamata dall'articolo 310 con la conseguenza che dev'essere rispettato, a pena di inammissibilità, il termine dilatorio di cinque giorni prima dell'udienza. Ed invero, nel procedimento camerale, applicabile in materia di misure di prevenzione, il deposito delle memorie difensive é regolato non già dalla norma generale di cui all'art. 121, bensì da quella speciale di cui al comma 2 dell'art. 127 - che, in materia, è applicabile in ragione del rinvio dell'art. 4 della L. numero 1423 del 1956 all'art. 658 e, da questo, all'art. 666 del codice di rito, con la conseguenza che dev'essere rispettato, a pena d'inammissibilità, il termine di cinque giorni prima dell'udienza. Ne viene che, in conformità del parere del P.g., le censure espresse al riguardo dal ricorrente sono infondate, in quanto, al di là dell'erronea motivazione del giudice a quo, è comunque corretto il rigetto di acquisizione di nuovi documenti e memorie per intempestività, in ragione del mancato rispetto del termine anzidetto. La seconda censura deduce questioni relative all'ambito di estensione della misura ablatoria ed alla contestata aggredibilità degli acquisti anteriori alla data della ritenuta pericolosità sociale del proposto. Si tratta, com'è evidente, di questioni identiche a quelle prospettate nel ricorso dell'avv. Murane, in ordine alle quali non v'è che da ribadire il giudizio di infondatezza espresso per le ragioni sopra indicate. D'altronde, la motivazione sui punti anzidetti non può certamente ritenersi mancante, aldilà di ogni ipotetica ragione di perplessità in ordine alla congruità ed adeguatezza di determinati assunti argomentativi. Le deduzioni difensive, fatti oggetto della memoria del 6 dicembre 2013, si collocano ai limiti dell'ammissibilità, proponendo questioni squisitamente di merito o ribadendo profili contestativi in ordine ai quali il giudice a quo non ha mancato di rendere compiuta motivazione. Ad ogni modo, il convincimento di infondatezza emerge, per implicito, dal contesto giustificativo del provvedimento impugnato. Così deve ritenersi per il diniego di ulteriore indagine tecnica o per la contestata inidoneità del materiale investigativo, con particolare riferimento alle propalazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, che, invece, sono state sottoposte dalla Corte distrettuale a prudente apprezzamento, nel pieno rispetto dei canoni di giudizio dettati da consolidata lezione giurisprudenziale di legittimità, in ordine ai profili di credibilità soggettiva, attendibilità intrinseca ed estrinseca delle stesse dichiarazioni. In particolare, la memoria si fonda su valutazioni di fatto intese a screditare le propalazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, risolvendosi nella doglianza della mancata considerazione della prodotta documentazione e delle deduzioni difensive volte a dimostrare l'inattendibilità di quelle stesse dichiarazioni o degli esiti favorevoli dei diversi procedimenti giudiziari avviati nei confronti del D.V. . 5. Per quanto precede, il ricorso in favore di D.V.P. deve essere rigettato, mentre vanno dichiarati inammissibili i ricorsi proposti in favore di A.U. e di D.L. , con le conseguenziali tradizioni espresse in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso di D.V.P. , che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di A.U. e D.L. , che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.00,00 in favore della Cassa delle ammende.