La crisi di liquidità finanziaria esclude la punibilità, se…

In tema di reati tributari, e segnatamente di omesso versamento di ritenute certificate, previsto e punito dall’art. 10 bis, d.lgs. n. 74/2000, può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo, ove questi sia in grado di fornire la prova che per lui non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli al suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare le somme indispensabili per assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

Lo ha ribadito la Terza sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15416, depositata il 4 aprile 2014. L’omesso versamento di ritenute certificate. L’art. 10 bis, d.lgs. n. 74/2000 configura un reato proprio di colui che riveste la qualità di sostituto di imposta a norma delle disposizioni contenute nel titolo III del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Segnatamente la norma in esame dispone che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta. Nella ritenuta alla fonte a titolo di imposta, il contribuente c.d. sostituito non ha più l’obbligo di dichiarare il reddito in questione. La ritenuta a titolo di imposta si distingue dalla ritenuta a titolo di acconto, che ha invece ad oggetto la somma sottratta dal reddito, ad opera di chi lo eroga e che rappresenta una parte dell’imposta totale dovuta. L’acconto è infatti basato sull’ammontare del reddito da cui viene sottratto, e non tiene conto degli altri redditi del sostituito. Al momento della dichiarazione il contribuente deve dichiarare, fra i suoi redditi, quelli che sono già stati assoggettati alla ritenuta d’acconto. Nel caso in cui le imposte dovute in base al totale dei redditi si rivelino maggiori o minori della somma delle ritenute d’acconto, il contribuente dovrà tenerne conto nella dichiarazione. La condotta penalmente rilevante. L’art. 10 bis, d.lgs. n. 74/2000 costruisce il delitto di omesso versamento di ritenute sulla base di una condotta complessa, costituita dal rilascio della certificazione ai sostituiti delle ritenute effettuate, e dall’omesso versamento di queste da parte del sostituto entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale. Il delitto de quo concerne indirettamente anche la posizione dei sostituiti, nel senso che questi ultimi, a seguito del rilascio della certificazione della ritenuta di imposta, hanno motivo di ritenere che il sostituto provvederà ad adempiere agli obblighi di versamento. Il reato in esame si consuma nel momento in cui scade il termine per la presentazione della dichiarazione annuale dei sostituti di imposta, senza che il sostituto abbia provveduto al versamento delle ritenute effettuate e certificate, per un ammontare complessivo superiore ad € 50.000. Il momento consumativo del reato. In ragione dell’autonomia della fattispecie penale rispetto a quella tributaria, la consumazione del reato in parola coincide con la presentazione della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta. Secondo una parte della giurisprudenza di merito Uff. indagini preliminari Milano, 21 novembre 2008, n. 2255 , al fine di individuare il momento della consumazione del reato di cui all’art. 10 bis, occorre fare riferimento al momento della scadenza del termine utile per realizzare la condotta doverosa, cioè al momento della scadenza del termine stabilito dalla legge vigente al tempo in cui i versamenti andavano effettuati. L’omissione del versamento deve protrarsi oltre il termine di presentazione della dichiarazione dei sostituti d’imposta. Non tutte le ipotesi di omesso versamento di ritenute sono penalmente rilevanti la norma circoscrive infatti il reato alle ritenute certificate, ossia a quelle per le quali la legge dispone l’obbligo di rilascio della certificazione da parte del sostituto. La scriminante della crisi di liquidità finanziaria. La sentenza in commento si pone nel solco della recente giurisprudenza di legittimità formatasi nelle analoghe fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed in quella di omesso versamento dell’IVA, secondo cui l’irrilevanza penale dello stato di illiquidità finanziaria del contribuente trova il proprio limite nella forza maggiore, e segnatamente nella prova, a carico dell’imputato, della situazione di oggettiva impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 gennaio - 4 aprile 2014, numero 15416 Presidente Squassoni – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza dell'11 giugno 2013, il Tribunale di Ancona ha rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo per equivalente del Gip del Tribunale di Ancona del 15 marzo 2013, avente ad oggetto immobili dell'indagato fino alla concorrenza di Euro 250.527,10 in relazione ai reati di omesso versamento di ritenute alla fonte e di omesso versamento di Iva artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. numero 74 del 2000 , che sarebbero stati da lui commessi in quanto legale rappresentante di una società. 2. - Avverso l'ordinanza l'indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si lamentano l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 321 cod. proc. penumero , 240 e 322 ter cod. penumero La difesa evidenzia che gli importi delle ritenute e dell'Iva non versati sono stati espressamente dichiarati e certificati e che il mancato versamento è dovuto alla crisi economica del settore della produzione di macchinari per attività estrattive che costituisce l'attività della società dell'imputato. Si evidenzia, in particolare, che il fatturato si è ridotto di circa il 70% fra il 2008 e il 2009 e che la società era stata costretta a pagare gli istituti di credito e i fornitori, che minacciavano di presentare istanza di fallimento. La difesa ricorda, inoltre, che la società ha effettuato alcuni pagamenti all'Agenzia delle entrate, con la conseguenza che il debito erariale ammontava, al momento dell'esecuzione del sequestro, a complessivi Euro 200.000 circa e che, per il mancato versamento delle ritenute per l'anno imposta 2010, è in corso un concordato con la stessa Agenzia delle entrate, avente ad oggetto dilazioni di pagamento. Ne risulterebbe - sempre ad avviso del ricorrente - l'applicabilità nel caso di specie della esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 codice pen, che troverebbe applicazione in relazione all'inviolabilità del diritto al lavoro, la cui perdita comporterebbe, a livello morale, sociale e materiale, un danno grave alla persona. 2.2. - Si evidenzia, in secondo luogo, un ulteriore profilo di violazione degli artt. 321 cod. proc. penumero , 240 e 322 ter cod. penumero , in relazione alla mancanza del profitto, presupposto necessario per l'emissione del decreto di sequestro. Secondo la prospettazione difensiva, gli immobili sequestrati non potrebbero costituire il profitto né il prezzo del reato, in quanto la proprietà degli stessi era stata acquisita dal ricorrente in epoca molto antecedente al periodo a cui si riferiscono gli addebiti oggetto del capo di imputazione uno degli immobili, inoltre, costituirebbe l'abitazione principale e la sua espropriazione sarebbe, dunque, vietata ai sensi dell'art. 76, comma 1, del d.P.R. numero 602 del 1973. A ciò la difesa aggiunge che non risulta che comunque la società o il legale rappresentante abbiano conseguito un profitto, trattandosi, oltre tutto, di società a responsabilità limitata. 2.3. - Si prospetta, in terzo luogo, un ulteriore profilo di violazione delle disposizioni già richiamate, consistente nel fatto che il sequestro sarebbe stato disposto senza preventivamente accertare l'impossibilità di procedere in via diretta sui beni della società o del legale rappresentante costituenti il profitto del reato. Né il Tribunale si sarebbe pronunciato sul punto. 2.4. - Un ulteriore profilo di violazione delle disposizioni sopra richiamate è prospettato con il quarto motivo di doglianza, con il quale si sostiene che per l'applicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è necessaria l'esatta equivalenza di valore tra i beni confiscati e il prezzo o il profitto derivante dal reato. Una tale equivalenza non sussisterebbe, nel caso di specie, perché il debito erariale, al momento dell'esecuzione del sequestro, ammontava a circa Euro 200.000,00 e non invece alla maggiore somma sequestrata di Euro 250.527,10. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è infondato. 3.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si lamenta, in sostanza, che il mancato pagamento delle imposte sarebbe dovuto alla crisi economica del settore produttivo cui afferisce la società dell'imputato e che l'esigenza di salvaguardare i posti di lavoro dei dipendenti integrerebbe la circostanza scriminante dello stato di necessità di cui all'art. 54 cod. penumero - è infondato. 3.1.1. - Come recentemente ribadito dalle sezioni unite di questa Corte, il reato di omesso versamento di ritenute certificate art. 10-bis del d.lgs. numero 74 del 2000 si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale 28 marzo 2013, numero 37425, rv. 255759 . Ne deriva che il delitto in questione è strutturato come reato omissivo proprio istantaneo, posto che si consuma in conseguenza del mancato compimento dell'azione dovuta, costituita dall'omesso versamento, entro il termine fissato, delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti dallo stesso contribuente. Tale termine non coincide con quello richiesto dalla normativa fiscale per l'adempimento dell'obbligazione tributaria, ma è ad esso successivo, avendo il legislatore ritenuto di lasciare al contribuente un lasso di tempo per poter sanare il proprio debito tributario prima che la condotta omissiva integri la fattispecie penalmente rilevante. Infatti, mentre la normativa tributaria fissa quale termine per il versamento all'erario delle ritenute effettuate il giorno sedici del mese successivo a quello in cui le stesse sono state operate da parte del sostituto d.P.R. 29 settembre 1973, numero 602, artt. 3 e 8 , sanzionando l'omissione in via amministrativa in base al d.lgs. 18 dicembre 1997, numero 471, art. 13, comma 1, la normativa penale d.lgs. numero 74 del 2000, art. 10-bis , si riferisce complessivamente a tutte le ritenute operate nell'anno di imposta e stabilisce, quale termine di adempimento penalmente rilevante, quello del 31 ottobre dell'anno successivo. Le sezioni unite hanno, più in particolare, chiarito che il reato di omesso versamento di ritenute certificate non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l'illecito amministrativo tributario di cui al d.lgs. numero 471 del 1997, art. 13, comma 1, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni. Come successivamente precisato da questa Corte in una fattispecie analoga a quella per la quale qui si procede sez. 3, 5 dicembre 2013, numero 5467/2014 , rispetto a tale quadro giuridico e normativo, la situazione di colui che non versa l'imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute successivamente con l'omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Poiché il sostituto di imposta, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, deve, allorché procede al versamento in favore di quest'ultimo, trattenere una percentuale di questo emolumento c.d. ritenuta alla fonte per, poi, versarlo all'erario entro il sedici del mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta, gli spazi per ritenere l'assenza dell'elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità appaiono, all'evidenza, oggettivamente ristretti. Con la richiamata sentenza numero 37425 del 28 marzo 2013, le sezioni unite hanno, infatti, ribadito che, per l'integrazione della fattispecie ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico ossia la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, con la precisazione che tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia dei cinquantamila Euro, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. È invece irrilevante il fine perseguito dall'agente e, più in particolare, la circostanza se il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte ex plurimis, sez. 3, 19 gennaio 2011, numero 13100, rv. 249917 sez. 3, 26 maggio 2010, numero 25875, rv. 248151 . La prova del dolo è normalmente insita nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto mod. 770 , che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è infatti collegato alle erogazioni degli emolumenti ai dipendenti con la conseguenza che, ogni qualvolta il sostituto d'imposta effettua tali erogazioni, insorge a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute all'erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria. L'introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all'esigenza predetta. Non può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere all'obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l'azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili sez. 3, 9 ottobre 2013, numero 5905/2014 . Né il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per l'esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è di per sé idoneo a configurare la circostanza scriminante dello stato di necessità, specificamente invocata dalla difesa nel caso di specie. L'art. 54 cod. penumero esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona laddove, con l'espressione danno grave alla persona”, il legislatore ha inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica comprensiva del diritto alla salute , la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana. Ne consegue che, pur dovendosi affermare che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 cod. penumero sez. 1, 23 gennaio 1997, numero 4323, rv. 207434 . 3.1.2. - Analoghe considerazioni valgono per il reato di cui all'art. 10-ter del d.lgs. numero 74 del 2000, anch'esso contestato nel caso di specie. La disposizione incriminatrice prevede, in particolare, che la sanzione prevista dall'art. 10-bis, per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Il comportamento del soggetto che non versa l'Iva dichiarata a debito in sede di dichiarazione annuale è stato quindi dal legislatore assimilato in tutto e per tutto a quello del sostituto che non versa le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. Il momento consumativo del reato è individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo termine fissato dalla legge numero 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente, per la consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze previste, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento, incombendo sul contribuente l'onere di organizzare le risorse disponibili su scala annuale in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria. La giurisprudenza di questa Corte ha, in particolare, precisato che, in tema di omesso versamento IVA, il reato omissivo a carattere istantaneo previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, numero 74, art. 10-ter, consiste nel mancato versamento all'erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime di IVA per cassa”, è ordinariamente svincolato dall'effettiva riscossione dei corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate. Ha altresì precisato che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico essendo sufficiente a integrarlo la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro cinquantamila, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore sez. un, 28 marzo 2013, numero 37424, rv. 255758 sez. 3, 6 marzo 2013, numero 19099, rv. 255327 . La prova del dolo - analogamente a quanto affermato in relazione alla fattispecie di cui al precedente art. 10-bis - è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine previsto. Appare, dunque, evidente la similitudine con quanto accade per il sostituto d'imposta rispetto alle trattenute operate per oneri previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei propri dipendenti. Ed è evidentemente questa la ragione della scelta del legislatore di equiparare le relative sanzioni con la conseguenza che devono essere integralmente confermate e richiamate, anche in relazione al reato di cui all'art. 10-ter, le considerazioni sopra svolte circa la valutazione dell'elemento soggettivo e l'applicabilità delle circostanze scriminanti della forza maggiore e dello stato di necessità. 3.1.3. - Tali principi trovano applicazione in riferimento al caso in esame, in cui la difesa ha dedotto - con il primo motivo di ricorso - che a gli importi delle ritenute e dell'Iva non versati sono stati espressamente dichiarati e certificati b il mancato versamento è dovuto alla crisi economica del settore produttivo, essendosi il fatturato ridotto di circa il 70% fra il 2008 e il 2009 ed essendo stato necessario per la società pagare prioritariamente gli istituti di credito e i fornitori, che minacciavano di presentare istanza di fallimento c sono state effettuate proposte di concordato in via di definizione con l'Agenzia delle entrate ed è stato effettuato un pagamento parziale, tanto che, a fronte di un iniziale debito di circa 250.000,00 Euro, residuerebbero circa 200.000,00 Euro d sarebbe applicabile nel caso di specie l'esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 cod. penumero , in relazione al pericolo della perdita del posto di lavoro da parte dei dipendenti. Quanto al rilievo sub a , va osservato che il fatto che gli importi non versati siano stati espressamente dichiarati e certificati non esclude la sussistenza dei reati contestati, perché essi attengono non alla mancata dichiarazione o certificazione di operazioni imponibili, ma - come visto - più semplicemente al mancato pagamento del dovuto nei termini fissati. Quanto alla censura sub b , deve rilevarsi che, dalla stessa prospettazione del ricorrente, non emerge se la crisi aziendale sia stata inevitabile conseguenza della crisi del settore economico o fosse invece evitabile attraverso l'utilizzazione delle cautele e degli accorgimenti del caso. Emerge, anzi, che il mancato pagamento di quanto dovuto all'erario non è il frutto di una assoluta mancanza di liquidità - circostanza che, alle condizioni sopra precisate al paragrafo 3.1.1., avrebbe potuto costituire una base per l'applicazione della scriminante della forza maggiore - ma è invece il frutto di una consapevole scelta imprenditoriale diretta a privilegiare il pagamento di altri creditori rispetto all'erario. Può affermarsi, dunque, che il mancato adempimento delle obbligazioni tributarie è sostanzialmente riconosciuto come doloso dallo stesso ricorrente, il quale ha consapevolmente omesso di versare somme superiori alla soglia di punibilità alle scadenze previste, con ciò integrando il dolo del reato, nei termini specificati al paragrafo 3.1.1. Né alcuna valenza può essere attribuita, in ogni caso, alla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall'erario sarebbe stato necessario per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perché il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso erario proprio in relazione ai crediti tributari, sia perché la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata. Quanto al rilievo sub c , relativo ad un preteso pagamento parziale dell'obbligazione tributaria, questo non rileva ai fini della sussistenza del fumus commissi delicti, ma potrebbe al più rilevare ai fini della determinazione dell'ammontare del sequestro su cui vedi però infra 3.4. . Quanto, infine, al rilievo riportato sub d , relativo allo stato di necessità, valgono le considerazioni già svolte al paragrafo 3.1.1., secondo cui la perdita del lavoro non integra, in quanto tale, un danno grave alla persona rilevante ai fini dell'art. 54 cod. penumero 3.2. - Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. 3.2.1. - Infatti con esso la difesa formula, in primo luogo, mere asserzioni circa la mancanza di un profitto conseguente all'evasione fiscale, senza considerare che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente prevista dall'art. 1, comma 143, della legge numero 244 del 2007 va riferito all'ammontare dell'imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo a tal fine, per la quantificazione di questo risparmio, deve tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all'accertamento del debito tributario sez. 3, 23 ottobre 2012, numero 45849 . 3.2.2. - Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non è poi necessario che vi sia un collegamento tra i beni sequestrati per equivalente e il profitto conseguito. Deve infatti ribadirsi il principio, desumibile dalla semplice lettura dell'art. 322 ter cod. penumero e costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il sequestro e la confisca per equivalente non presuppongono alcuna dimostrazione di uno specifico nesso di strumentante tra la res e il reato, potendo essere imposti su qualsivoglia bene afferente al patrimonio dell'autore del reato e bastando quale presupposto il solo fumus della consumazione del reato stesso. Tale conclusione risulta ulteriormente avvalorata dalla natura sanzionatoria dell'istituto, la cui ratio è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico dell'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, con la conseguenza, appunto, della confiscabilità di beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno collegamento diretto con il singolo reato ex plurimis, sez. 3, 23 ottobre 2013, numero 45951 sez. 1, 28 febbraio 2012, numero 11768 sez. 3, 14 gennaio 2010, numero 6293 . 3.2.3. - Manifestamente infondato è anche l'ulteriore rilievo difensivo, secondo cui uno degli immobili sequestrati costituirebbe l'abitazione principale e la sua espropriazione sarebbe, dunque, vietata ai sensi dell'art. 76, comma 1, del d.P.R. numero 602 del 1973. Va infatti ricordato che il richiamato art. 76 Espropriazione immobiliare , come sostituito, da ultimo, dall'art. 52, comma 1, lettera g , del d.l. 21 giugno 2013, numero 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, numero 98, stabilisce, al comma 1, che Ferma la facoltà di intervento ai sensi dell'articolo 499 del codice di procedura civile, l'agente della riscossione a non da corso all'espropriazione se l'unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 218 del 27 agosto 1969, e comunque dei fabbricati classificati nelle categorie catastali A/8 e A/9, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente”. La disposizione richiamata prevede, dunque, che sia esclusa dall'espropriazione l'abitazione di residenza alle condizioni che questa sia l'unico immobile di proprietà del debitore e che non appartenga ad alcune particolari categorie di fabbricati. Di tali due condizioni la prima risulta espressamente esclusa dagli atti, dai quali emerge che il debitore non è proprietario di un unico immobile, tanto che è stato destinatario del sequestro di più immobili la seconda non risulta dedotta, né tantomeno provata. E ciò, a prescindere dall'assorbente considerazione che le limitazioni previste dall'art. 76 si applicano alla fattispecie dell'espropriazione da parte dell'erario in conseguenza di inadempimento delle obbligazioni tributarie, che ha natura strettamente ripristinatoria, e non alla diversa fattispecie - qui in esame - della confisca per equivalente, che ha invece natura sanzionatoria. 3.3. - Inammissibile è il rilievo - proposto con il terzo motivo di ricorso -secondo cui il Tribunale non si è pronunciato sul punto se il sequestro sia stato disposto senza preventivamente accertare l'impossibilità di procedere in via diretta sui beni della società o del legale rappresentante costituenti il profitto del reato. Il ricorrente non specifica, infatti, se tale doglianza fosse stata prospettata con i motivi di riesame né se fosse stata dedotta all'udienza in camera di consiglio di fronte al Tribunale con la conseguenza che questa Corte non è messa in grado di valutare se lo stesso Tribunale abbia effettivamente omesso di motivare su una questione posta alla sua attenzione. Dall'esame degli atti risulta, anzi, che detta questione è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Né a tali conclusioni potrebbe obiettarsi che la richiesta di riesame ha effetto interamente devolutivo e, dunque, investe il Tribunale di ogni aspetto relativo al titolo cautelare. L'effetto devolutivo del riesame deve, infatti, essere inteso nel senso che il Tribunale è tenuto, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, a valutare esclusivamente la sussistenza dei presupposti della misura cautelare, sotto il profilo del fumus commissi delicti e, nel caso del sequestro preventivo, del periculum in mora o della confiscabilità dei beni sequestrati non essendo tenuto, invece, a procedere all'analisi di aspetti ulteriori, quale quello relativo alla sequestrabilità dei beni, qualora non espressamente dedotti. 3.4. - Il quarto motivo di doglianza - con il quale si sostiene che, per l'applicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, è necessaria l'esatta equivalenza di valore tra i beni confiscati e il prezzo o il profitto derivante dal reato e che una tale equivalenza non sussisterebbe, nel caso di specie, perché il debito erariale, al momento dell'esecuzione del sequestro, ammontava a circa Euro 200.000,00 e non invece alla maggiore somma sequestrata di Euro 250.527,10 - è infondato. 3.4.1. - Non vi è dubbio, in linea di principio che la funzione sanzionatoria della confisca per equivalente venga meno con il versamento dell'imposta evasa. Il versamento realizza, infatti, l'eliminazione dell'ingiustificato arricchimento derivante dalla commissione del reato ed impedisce, perciò, che, attraverso l'impiego di beni di provenienza delittuosa o del loro equivalente, il colpevole possa assicurarsi il vantaggio economico oggetto specifico del disegno criminoso come precisato da questa Corte, con le sentenze sez. 3, 1 dicembre 2010, numero 10120/2011, rv. 249752, e sez. 3, 12 luglio 2012, numero 46726. In particolare, nella prima di tali due pronunce, si è adottata un'interpretazione costituzionalmente conforme delle richiamate disposizioni, affermando che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 322 ter cod. penumero ed 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, numero 244, per la parte in cui, nel prevedere la confisca per equivalente anche per i reati tributari previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, numero 74, contrasterebbero, nel caso di sanatoria della posizione debitoria con l'Amministrazione finanziaria, con gli artt. 23 e 25 Cost., in quanto la restituzione all'Erario del profitto del reato fa venir meno lo scopo principale perseguito con la confisca, escludendo la temuta duplicazione sanzionatoria. In altri termini, se il reo provvede al pagamento dell'imposta evasa, considerato che l'ammontare suscettibile di confisca corrisponde al quantum dell'imposta stessa, viene meno l'indebito vantaggio da aggredire con il provvedimento ablatorio, perché viene meno la necessità di evitare che il conseguimento dell'indebito profitto del reato si consolidi. Ne consegue che la natura prevalentemente sanzionatoria della confisca per equivalente non può portare ad un indiscriminato automatismo nella sua applicazione, perché, diversamente opinando, vi sarebbe un'indebita duplicazione in malam partem l'indagato, oltre ad aver adempiuto il suo debito verso l'amministrazione finanziaria, si vedrebbe privato, all'esito dell'accertamento della responsabilità penale, anche di beni equivalenti per valore al profitto iniziale del reato, ormai venuto meno proprio a seguito del versamento dell'imposta evasa. L'adempimento del debito verso l'amministratore finanziaria fa, dunque, venire meno lo scopo principale che si intende perseguire con la confisca. Tali principi non trovano, però, applicazione nel caso di specie, concernente il giudizio di riesame conseguente all'applicazione del sequestro preventivo per equivalente. Oggetto del presente giudizio è, infatti, la situazione che si presentava al momento dell'emanazione del provvedimento cautelare impugnato, da valutarsi anche alla luce degli eventuali elementi di prova successivamente forniti dall'indagato, ma non le eventuali mutazioni della stessa realizzate attraverso pagamenti parziali del debito tributario. Tali pagamenti possono, al più, essere posti a fondamento di una richiesta di revoca parziale ai sensi dell'art. 321, comma 3, cod. proc. penumero , potendo configurarsi come quei fatti sopravvenuti idonei a far mancare le condizioni di applicabilità del sequestro, sotto il profilo della non corrispondenza fra la somma sequestrata e il profitto effettivamente conseguito. In sede di riesame, invece, può essere data rilevanza alle sole condizioni di applicabilità originarie della misura, con la conseguenza che la corrispondenza fra il quantum sequestrato e il profitto deve essere valutata con riferimento al profitto inizialmente conseguito dall'indagato e, di regola, corrispondente all'entità dell'imposta evasa sez. 3, 27 novembre 2013, numero 10826/2014 . 3.4.2. - A ciò deve aggiungersi che, in ogni caso, non vi è necessità che vi sia esatta corrispondenza fra profitto e quantum sequestrato, essendo sufficiente che il giudice motivi, in linea di massima, sulla non esorbitanza di quanto sequestrato, salvi, ovviamente, gli eventuali più approfonditi accertamenti da svolgersi nel giudizio di merito. Ne consegue che, laddove la valutazione del giudice risponda a tali criteri, essa è insindacabile in sede di legittimità. Il provvedimento del tribunale del riesame che conferma il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può essere, infatti, ritenuto illegittimo nel solo caso in cui non contenga alcuna valutazione sul valore dei beni sequestrati valutazione necessaria al fine di verificare il rispetto del principio di proporzionalità tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non essendo consentito differire l'adempimento estimatorio alla fase esecutiva della confisca ex multis, sez. 3, 23 aprile 2013, numero 39091 sez. 3, 7 ottobre 2010, numero 41731 . 4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.