Il reato “stradale” è comunque estinto se il lavoro di pubblica utilità è svolto in un settore diverso da quello della sicurezza e dell’educazione stradale

La Cassazione chiarisce che il reato stradale” ex D.lgs. n. 285/1992 si considera in ogni caso estinto se la pena pecuniaria o detentiva inflitta sia stata sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità consistente in attività non retribuita a favore della collettività dal condannato anche se questa è in concreto svolta in un settore diverso da quello della sicurezza e dell’educazione stradale.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 50909 del 17 dicembre 2013. Per comprendere l’importanza dell’affermazione in questione, a prima vista del tutto ovvia, bisogna necessariamente considerare il caso particolare sottoposto all’attenzione della Suprema corte e tenere a mente che la Procura Generale aveva, invece, chiesto il rigetto del ricorso de quo . Il caso. Nella specie è accaduto che un condannato per il reato di guida in stato di ebrezza avesse chiesto ed ottenuto di sostituire la pena con il lavoro di pubblica utilità. Inviato all’Ente Provincia di riferimento, venne collocato al centro per l’impiego con mansioni d’archivio e, dunque, nel settore Welfare, lavoro e formazione professionale dell’amministrazione provinciale . Avanzata l’istanza di estinzione del reato a seguito dell’espletamento del lavoro di pubblica utilità, il Gip respingeva la richiesta poiché il lavoro in questione non si sarebbe svolto nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale. Reato stradale estinto anche se il lavoro di pubblica utilità e svolto nel Welfare. La Cassazione, investista del ricorso avverso tale ordinanza, ha annullato il provvedimento de quo per un nuovo giudizio. La Corte, infatti, ha ritenuto del tutto errata l’argomentazione giuridica del Gip, poiché l’art. 186 C.d.S. indica semplicemente una preferenza per i settori in questione e sopra citati, ma tale indicazione non è esclusiva, essendo comunque aperta la strada a inserimenti lavorativi in altri ambiti di pubblica utilità . D’altra parte, - ha così proseguito la Suprema Corte – nello specifico è applicabile l’art. 54, D.lgs. n. 274/2001 e, quindi, la tipologia del lavoro di pubblica utilità è definito o dal giudice o dall’ente convenzionato vedi sul punto anche Corte Cost. n. 43/2013 . Da ultimo, la Cassazione ha osservato come la stessa Consulta vedi sentenza n. 179/2013 abbia chiaramente espresso che le finalità rieducative della pena ex art. 27, comma 3, Cost. ben possano essere soddisfatte mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività . Alla luce di quanto sopra, la Corte non ha potuto non cassare l’ordinanza del Gip, atteso che nel valutare la sussistenza di una violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità non aveva tenuto conto di una corretta interpretazione della normativa rilevante, che peraltro esclude un qualsiasi automatismo nella decadenza dai benefici connessi, dovendo il giudice sempre tenere conto dei motivi, dell’entità e delle circostanze della violazione . Concludendo . La decisione in commento è pienamente condivisibile, tenuti presenti i valori sottostanti e gli argomenti esegetici e sistematici posti a sostegno dell’annullamento della decisione impugnata. E’ oltremodo avvilente constatare come ad anni dall’introduzione del lavoro di pubblica utilità, si discuta ancora sul se”, come” e dove” effettuarlo. Al di là di endemiche mancanze di raccordo tra la norma astratta e la struttura in senso lato giudiziaria deputata ad attualizzare e concretizzare i precetti giuridici in materia, stupisce che si possa seriamente sostenere che il condannato, che abbia chiesto ed ottenuto il beneficio in questione, comunque per lo stesso oneroso e certamente valutato come utile per la comunità, possa subire in concreto maggiori effetti negativi, perché abbia eseguito quello che gli organi amministrativi a ciò deputati gli abbiano imposto di fare, rispetto a chi non abbia ottenuto la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità. Qui non vale, come la Corte ha notato, invocare il sempre utile moto lex, dura lex sed lex poiché in questo caso la legge ha semplicemente fornito una indicazione non vincolante ed è sempre stata ragionevolmente aperta ad altre possibilità di impiego del lavoro di pubblica utilità. Neppure la Costituzione impone una interpretazione restrittiva, essendo invece auspicabile ed auspicata dalla Consulta una ampia utilizzazione e flessibilità dello strumento del lavoro di pubblica utilità. Non si comprende allora la posizione del Gip, ma soprattutto quella del Procuratore Generale presso la Cassazione, che chiesto il rigetto del ricorso de quo . Ma, in fondo, domandarsi perché ciò sia accaduto, diviene inutile cosa, se il tutto viene visto nella fisionomia del processo e dei suoi rimedi. Un errore è stato compiuto e un errore è stato emendato. Si spera solo che il tutto serva da utile monito per il futuro, anche perché in siffatta materia errare humanum est, sed perserverare .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 26 novembre - 17 dicembre 2013, n. 50909 Presidente Chieffi – Relatore Caprioglio Ritenuto in fatto A seguito di intervenuta esecuzione della pena sostituita con lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità consistito in mansioni di supporto all'archivio della Provincia, con ordinanza del 5.12.2012 il gip del tribunale di Piacenza rigettava l'istanza formulata da V.F. diretta ad ottenere l’estinzione del reato di cui all'art. 186 cod. strad., osservando che l'attività da lui svolta non rientrava tra quelle previste in via prioritaria dall'art. 186 comma 9 bis cod. strad. cioè attività da svolgersi nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale. Con la stessa ordinanza il gip dava mandato al P.M. di verificare in concreto se il V. avesse svolto lavoro di pubblica utilità nel settore della sicurezza e dell'educazione stradale, così come era stato previsto con la sentenza del gip del Tribunale di Piacenza 22.5.2012. Avverso tale decisione interponeva ricorso il PM presso il tribunale di Piacenza per dedurre erronea applicazione della legge penale, posto che il V. risultava essere stato inserito presso il centro per l'impiego di Piacenza, svolgendo mansioni di supporto all'archivio. Quindi, secondo il P.M. ricorrente, poiché la prestazione non retribuita doveva essere ritenuta a favore della collettività, anche se non inerente al settore della sicurezza e dell'educazione stradale, la stessa doveva ritenersi rientrante nel novero dei lavori di pubblica utilità e tale da poter fare conseguire gli effetti estintivi del reato. Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Il problema di diritto che questa Corte deve affrontare e risolvere è se il reato c.d. stradale , previsto dal d.lgs 30.4.1992, n. 285, debba essere dichiarato comunque estinto se la pena pecuniaria o detentiva inflitta sia stata sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità consistente in attività non retribuita a favore della collettività svolto dal condannato in un settore diverso da quello della sicurezza e dell'educazione stradale. Il caso del V. è emblematico, visto che il medesimo risulta dagli atti essere stato inviato all'ente Provincia di Piacenza, dove venne collocato al centro per l'impiego, con mansioni di supporto all'archivio, rientrante nel settore Welfare, lavoro e formazione professionale dell'amministrazione provinciale, dal 20.8.2011 e fino al 4.9.2012. La decisione del giudice a quo di rigetto dell'istanza di estinzione del reato per avere l'interessato svolto il lavoro di pubblica utilità, non rientrante tra quelli previsti in via prioritaria dall'art. 186 comma 9 bis Cod. strada, non è corretta, perché frutto di interpretazione eccessivamente rigida, che risulta non conforme alla voluntas legis. La clausola contenuta al comma 9 bis dell'art. 186 decreto menzionato nell'inciso in via prioritaria , deve sicuramente essere letta nel senso che il legislatore ha indicato una opzione di maggiore gradimento per il lavoro di pubblica utilità da svolgere nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale , a carattere però non esclusivo, lasciando cioè aperta la strada a inserimenti lavorativi in altri ambiti di pubblica utilità. Non può essere sottovalutato che non risulta affatto che il V. abbia scelto il settore in cui svolgere il lavoro sostitutivo, essendo stato avviato alla amministrazione provinciale, dove venne collocato nel settore che necessitava maggiormente di apporto, di talché non può essere a lui imputato di aver svolto il lavoro sostitutivo in un campo diverso da quello preferito dal legislatore, in quanto ritenuto maggiormente finalizzato alla rieducazione del condannato. Come sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 43/2013, la norma in discorso rinvia per la disciplina della misura, all'art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con conseguente applicabilità del decreto ministeriale 26 marzo 2001, adottato dal Ministro della giustizia che prevede che sia il giudice ad individuare, con la sentenza di condanna, il tipo di attività, nonché l'amministrazione, l'ente o l'organizzazione presso il quale questa deve essere svolta, avvalendosi dell'elenco degli enti convenzionati art. 3 il medesimo decreto ministeriale stabilisce altresì, che le apposite convenzioni, stipulate dagli enti interessati con il Ministro della giustizia o, per sua delega, con il presidente del tribunale, debbano indicare specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità , oltre ai soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest'ultimo le relative istruzioni art. 2 . Sarebbe quindi del tutto irragionevole fare ricadere sul condannato le conseguenze di opzioni a lui non riportabili, così come altrettanto irragionevole sarebbe ritenere che il lavoro di pubblica utilità comunque svolto con diligenza, non possa fare godere all'interessato i vantaggi ricollegati al positivo svolgimento di tale incombente, sol perché fatto svolgere al di fuori del campo indicato in via prioritario nella previsione normativa. Tale modus opinandi si profila assolutamente vincolante, se solo si consideri la portata e la finalità del lavoro sostitutivo, così come la Corte Costituzionale ha avuto cura di tratteggiarlo, come misura paradentiva , costituente un segno ed un'apertura fiduciaria verso i condannati sent. 157/2010 , esaltandone le finalità rieducative per il recupero sociale del soggetto, perseguito attraverso la scelta di lavoro a titolo gratuito dell'interessato a favore della collettività offesa, quale evidente segno di riconciliazione sociale. È stato scritto nella recente sentenza n. 179/2013 sempre della Corte Costituzionale, a proposito del lavoro di pubblica utilità, che la finalità rieducativa della pena, stabilita dall'art. 27, terzo comma, Cost, deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest'ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l'emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione sentenza n. 79 del 2007 . Tali principi, benché riferiti alla legislazione penitenziaria, ben si adattano anche a fattispecie come quelle in esame, nelle quali le finalità rieducative della pena e il recupero sociale del soggetto sono particolarmente accentuati e sono perseguiti mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività . Attesa la ratio dell'istituto in esame non è logico considerare tamquam non esset il lavoro svolto dal V. , sol perché compiuto in un campo diverso da quello a cui avrebbe dovuto essere avviato, secondo il provvedimento del giudice. Ad opinare in tale senso induce del resto la flessibilità di cui è permeato il testo della previsione normativa in discorso, che nell'ultima parte del comma 9 bis dell'art. 186 CdS configura le ipotesi di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, rimettendo al giudice la valutazione, tenendo conto dei motivi, dell'entità e delle circostanze della violazione tale impostazione impone di bandire qualsivoglia tipo di automatismo e quindi, a fortiori , preclude di sottovalutare, fino al punto da annullarne gli effetti, la portata di un lavoro comunque prestato regolarmente, seppure non nel campo che era stato indicato nella sentenza di cognizione. L'ordinanza impugnata deve quindi essere annullata con rinvio per nuovo esame al gip del Tribunale di Piacenza, che dovrà uniformarsi al principio di diritto sopra espresso. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al gip del Tribunale di Piacenza.