“Se non accetti uno stipendio più basso ti licenzio”. Così scatta l’estorsione a carico del datore di lavoro

Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento. L’ingiustizia del profitto è in re ipsa , riferita alle prestazioni non corrisposte, che si traducono anche nella ingiustizia del licenziamento, pervaso da un disvalore giuridico penale che proviene dalla sua ingiusta causa.

Il caso . Gli imputati, fratello e sorella, venivano condannati in primo e secondo grado per tentata estorsione in danno di due loro dipendenti, per avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre le stesse ad accettare, attraverso la sottoscrizione di atti transattivi, un trattamento retributivo inferiore rispetto a quello dovuto, con la minaccia, in caso contrario, di venire licenziate. Tale condotta veniva provata attraverso le deposizioni delle persone offese e la registrazione di una conversazione con l’imputato effettuata da una delle due. Legittimità del licenziamento e assenza della condotta. Proponevano ricorso entrambi gli imputati per motivi che in parte si sovrapponevano. Le doglianze riguardavano, innanzitutto, il contenuto della fonoregistrazione della conversazione, posto che la richiesta di firmare la transazione era del tutto legittima e l’alternativa era il licenziamento. E. proprio a tal proposito, evidenziavano, con altro motivo di ricorso, che dalle sentenze del giudice del lavoro, in atti, si evinceva come il licenziamento era stato ritenuto dallo stesso ritenuto legittimo stante la tensione sussistente tra le parti ed il particolare clima aziendale”. Infine, si lamentava una ingiusta intromissione del Presidente del collegio nel corso dell’esame incrociato dei testi e degli imputati, che avrebbe delimitato lo spazio di azione della difesa. La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Sulla sussistenza del reato di estorsione. Premessa l’insindacabilità della valutazione già fatta dalla Corte di merito circa le dichiarazioni dei testi ed il contenuto delle frasi registrate, i giudici di legittimità rammentano come un nuovo apprezzamento sul punto da parte di tale giudice possa essere effettuato solo in presenza del c.d. travisamento della prova e, cioè, solo quando il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo incompatibile e diverso da quello effettivo e tale difformità sia manifesta. Tale circostanza, invece, non si rinviene nel caso di specie, posto che i ricorrenti non evidenziano, nel proprio ricorso, la sussistenza di una tale prova in atti. Al contrario, è pacifica la richiesta fatta alle lavoratrici di sottoscrivere una transazione al fine di rinunciare a tutte le pretese retributive, pena il licenziamento, come emerge dalle sentenze del giudice del lavoro prodotte, che avevano ritenuto legittimi gli atti di licenziamento. In proposito ritengono i giudici che, a prescindere da una eventuale legittimità del licenziamento, il datore di lavoro che costringe il proprio dipendente ad accettare una retribuzione inferiore a quella dovuta con la minaccia di un licenziamento, commette il reato di estorsione, e l’ingiustizia del profitto del primo è in re ipsa, stante che si riferisce alle prestazioni dallo stesso non corrisposte alle proprie dipendenti. Utilizzabilità delle dichiarazioni del teste su domanda del Presidente del Collegio. La Corte si pronuncia, inoltre, con riguardo al denunciato intervento del Presidente del Collegio nell’esame incrociato di testi ed imputati e precisa che, poiché la prova testimoniale così raccolta non è assunta in violazione di divieti posti dalla legge, ma soltanto acquisita con modalità diverse da quelle prescritte, non può essere ritenuta nulla, essendo tale ipotesi non inclusa tra quelle previste dall’art. 178 c.p.p. e pertanto può essere utilizzata ai fini della decisione.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 27 novembre – 12 dicembre 2013, n. 50074 Presidente Petti– Relatore Iannelli Osserva -1 B.M. e B.L. , tramite difensore, con due distinti atti ricorrono avverso la sentenza datata 5/20.12.2012 della corte di appello di Lecce , di conferma della pregressa decisione di primo grado tribunale della stessa città in data 3.3.2009 che li condannava alla pena,ciascuno, di anni due,mesi sei di reclusione d Euro 500,00 di multa per il delitto, in concorso, di tentata estorsione ex artt. 56,81 cpv. 629 c.p -2 In breve il fatto come ricostruito dai giudici di merito B.L. materialmente, con il concorso morale della sorella B.M. ,e nella loro qualità il primo di gestore di fatto della società Federica s.r.l., avente ad oggetto vendita e noleggio di audiovisivi, la seconda nella qualità di amministratrice, avrebbe compiuto atti idonei e non equivoci a indurre le dipendenti F.C. e C.E. , con la minaccia di un pronto licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi inferiori a quelli loro spettanti sottoscrivendo atti di transazione nonché, per la sola C. , contemporaneamente a un atto di dimissioni volontarie. Al rifiuto delle due dipendenti era conseguito il loro pronto licenziamento. Le fonti di prova erano state individuate nelle deposizioni delle persone offese, nonché nel supporto informatico di una registrazione tra presenti realizzata dalla C. nell’occasione di una conversazione tra la predetta e B.L. in presenza della sorella M. . -3 Le ragioni di doglianza, supportate dal richiamo all'art. 606 lett. b , c ed e codice di rito,in parte sovrapponibili dei due ricorsi, si impegnano il primo motivo di ricorso di B.M. , il secondo,il quarto ed il quinto del ricorso di B.L. a contestare la valutazione che i giudici di merito hanno inteso proporre delle dichiarazioni delle persone offese e del contenuto della registrazione della conversazione tra la C. e l’indagato, alla presenza della sorella. In buona sostanza l’invito alla firma di documenti con i quali le persone offese, in sede transattiva, rinunciavano a contestazioni circa i loro diritti di prestazione lavorativa sarebbe stata solo una proposta legittima, posto che l'alternativa alla non firma era il licenziamento che sarebbe stato del tutto legittimo. Ed in proposito i ricorrenti primo motivo del ricorso di B.M. e terzo motivo del ricorso di B.L. richiamano le sentenze prodotte in sede di giudizio di secondo grado del giudice del lavoro che avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa per il clima aziendale, determinato dai comportamenti di entrambe le parti del rapporto, che rendeva ormai insostenibile la prosecuzione dello stesso . Ulteriore ragione di doglianza della difesa di B.L. primo motivo di ricorso -, è risultata la denuncia di una arbitraria intromissione,nel contesto dell'interrogatorio incrociato dei testi e degli imputati, del Presidente del tribunale che avrebbe strozzato le contestazioni, delimitando illegittimamente le iniziative della difesa. Ed ancora comune è l'analisi critica della registrazione dalla quale non si ricaverebbe la rappresentazione di una condotta estorsi va, esulandovi ogni carattere i minaccia e di intimidazione. Peculiare, invece, del ricorso di B.M. è la contestazione in merito al contributo causale dai giudici di merito ritenuto alla condotta posta in essere materialmente dal fratello coimputato al limite si dovrebbe trattare di una mera connivenza, come tale non punibile. 4 Entrambi i ricorsi non possono accogliersi perché infondati. Invero le valutazioni sulle dichiarazioni dei testi, nella specie delle persone offese, come le espressioni proprie delle conversazioni registrate rientrano nella valutazione insindacabile sul piano della legittimità del giudice di merito, ove non illogiche e coerenti. Costituisce ormai principio consolidato che la interpr, sul piamo del disvalore giuridico penale, etazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, e si sottrae al sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza e che è possibile, sì, prospettare in sede di legittimità una interpretazione del significato di una frase od espressione diversa da quella proposta dal giudice di merito, ma soltanto in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile. Ma di una tale contro prova, nel rispetto dei limiti propri delle valutazioni di legittimità, non vi è traccia nella esplicitazione delle ragioni difensive di doglianza. Ora è pacifico, perché non contestato da nessuno, che B.L. abbia più volte chiesto la firma di uno scritto nel quale le parti offese rinunciavano, in via transattiva alle loro pretese lavorative, dietro la prospettiva del licenziamento ove non avessero apposto la firma sui documenti. Il che è comprovato dal contenuto delle sentenze civili prodotte dalla stessa difesa ed ammesse dal giudicante, dal quale si trae il fatto che, giustificato al limite il licenziamento, pur tuttavia sussistevano importi da corrispondere alle lavoratrici per il rapporto di lavoro, a cui la transazione richiesta dall'imputato, pena il licenziamento, si riferiva. Ne consegue che, possibile o meno il licenziamento pur nella facoltà del datore di lavoro, integra comunque il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che,per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento. L'ingiustizia del profitto in tale condotta è in re ipsa, riferita alla prestazioni non corrisposte, che si traducono anche nella ingiustizia del licenziamento, pervaso da un disvalore giuridico-penale, che proviene dalla sua ingiusta causa. Non coglie nel segno l’asserita denunciata prevaricazione del Presidente del collegio nel corso dell'esame incrociato a parte ogni pur possibile rilievo per la genericità dell'assunto e per l'omessa indicazione, ed allegazione, in concreto degli interventi in tesi abusivi, vi è sottolineare in linea di diritto che in tema di esame incrociato, al limite, l'assunzione della prova direttamente a cura del presidente, non può dirsi sì conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, perché non si articola con domande su fatti specifici art. 499, comma primo, cod. proc. pen. , tende a suggerire la risposta art. 499 commi primo e secondo , e comunque viola la disposizione per la quale salvi alcuni casi particolari le domande sono rivolte al testimone direttamente dalle parti processuali art. 498 comma primo , ma comunque non potrebbe mai essere oggetto né della sanzione della inutilizzabilità art. 191 cod. proc. pen. , posto che non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte, tanto meno della sanzione della nullità, posto che la deroga alle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 del codice di rito. Da ultimo è ancora non fondata la censure mossa dalla difesa della B.M. nella misura in cui la predetta, amministratrice della società, assiste alla condotta estorsiva del fratello, nell'interesse illegittimo dell'ente, non intervenendo ed anzi palesando atteggiamenti di approvazione, sorridendo, alla intimazione del fratello, gestore di fatto della società, alla C. di sottoscrivere pena il licenziamento. Ipostatizzato il fatto, secondo l’insindacabile giudizio di merito, le conseguenze sul piano del diritto risultano piane, alla luce della regola che individua la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato, nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo morale o materiale alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Ed è indubbio che la presenza del legale responsabile della società nel luogo in cui si consuma un illecito nell'interesse dell'ente, senza la registrazione di alcun atteggiamento di rifiuto, ha contribuito a sostenere e rafforzare l’intento criminoso dell'autore materiale del reato. Ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite che si liquidano, giusta la nota depositata, come da dispositivo. P.Q.M. rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione, in solido, delle spese sostenute dalle parti civili, F.C. e C.E. che liquida nella complessiva somma di Euro 1.800,00, oltre accessori di legge.