Avvocato trattiene per sé denaro dei clienti: il credito vantato per compensi professionali non vale a giustificarlo

Condannato per il reato di appropriazione indebita l’avvocato che ha trattenuto per sé parte delle somme liquidate dal giudice civile in favore dei suoi clienti non poteva vantare alcuna maggiore pretesa per compensi professionali, non avendo mai agito per ottenerne il riconoscimento.

È quanto risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 47410, depositata il 29 novembre 2013. Il caso. In sede di merito, un imputato era stato condannato per il reato di appropriazione indebita. Secondo l’accusa, l’imputato, esercente la professione legale, avendo patrocinato le persone offese in una causa civile, con esito vittorioso, aveva poi indebitamente trattenuto per sé parte delle somme liquidate dal giudice in favore dei suoi clienti. Contro tale decisione, l’avvocato ha proposto ricorso per cassazione. A suo dire, la Corte di merito non avrebbe considerato che, nella specie, tra le parti era stato stipulato un contratto d’opera professionale, il quale lo avrebbe abilitato a sollevare l’eccezione di inadempimento e il corrispondente diritto di ritenzione. Con un secondo motivo, il ricorrente ha lamentato che si sarebbe errato anche nel ritenere che, nel caso concreto, egli si fosse definitivamente appropriato delle somme di denaro di pertinenza del suo cliente, trattenute, a suo avviso, solo precariamente senza alcun atto di disposizione capace di modificare il rapporto tra il detentore e la res . La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato. Infatti, gli Ermellini hanno avallato la considerazione dei giudici di merito, in base alla quale il fatto che l’avvocato potesse in astratto pretendere dai propri clienti, a titolo di compenso professionale, somme maggiori di quelle liquidate a carico delle parti soccombenti con la sentenza civile, è del tutto indifferente nelle valutazioni del caso. Non vi è un credito certo, liquido, esigibile in relazione all’opera professionale prestata. Come rilevato da Piazza Cavour, nel momento in cui il ricorrente trattenne per sé non solo le spese legali liquidate in sentenza, ma anche le somme destinate ai clienti, egli non poteva vantare alcuna maggiore pretesa per compensi professionali, non avendo mai agito per ottenerne il riconoscimento. Quindi, secondo il Collegio, l’imputato non può in alcun modo invocare il principio secondo cui l’omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., perché egli non aveva alcun maggior credito certo, liquido, esigibile in relazione all’opera professionale prestata a favore delle persone offese, e peraltro nemmeno ha dedotto di avere mai rappresentato ai clienti di non potersi ritenere soddisfatto della liquidazione giudiziale . Pertanto, il S.C. ha ritenuto che, del tutto correttamente, la sentenza impugnata ha applicato il principio secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che trattenga definitivamente la somma ricavata dall’esecuzione del mandato invece di rimetterla al mandante. Per la Corte di legittimità, altrettanto correttamente ha escluso che l’astratta previsione normativa del diritto di ritenzione valesse a scriminare il ricorrente, in assenza di qualunque accertamento del diritto sostanziale presidiato dalla garanzia speciale . Alla luce di ciò, il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 5 - 29 novembre2013, numero 47410 Presidente Gentile – Relatore Prestipino Ritenuto in fatto 1. Ha proposto ricorso per cassazione F.V. , avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25.2.2013, che confermò la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti dal locale Tribunale il 28.1.2011, per il reato di appropriazione indebita in danno di Fo.Se. e Fo.Anumero . 2. Secondo l'accusa, il F. , esercente la professione legale, avendo patrocinato le persone offese in una causa civile, con esito vittorioso, aveva poi indebitamente trattenuto per sé parte delle somme liquidate dal giudice in favore dei suoi clienti. 3 Deduce il ricorrente 1. Violazione degli artt. 646 e 61 nr. 11 c.p. e difetto di motivazione quanto alla ritenuta configurabilità, nella specie, del delitto di appropriazione indebita. La Corte di merito non avrebbe considerato che nella specie tra le parti era stato stipulato un contratto d'opera professionale, che avrebbe abilitato il ricorrente a sollevare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.p. e il corrispondente diritto di ritenzione. In ricorso è citata, tra l’altro, Cass. civ. numero 24010 del 27/12/2004, e altri arresti successivi conformi. 2. Violazione degli artt. 42 e 43 c.p. e difetto di motivazione in relazione alla vantazione del dolo. La Corte avrebbe errato nel ritenere che nella specie il ricorrente si fosse definitivamente appropriato delle somme di denaro di pertinenza del suo cliente, trattenute solo precariamente senza alcun atto di disposizione capace di modificare il rapporto tra il detentore e la res. Considerato in diritto Il ricorso è manifestamente infondato. 1. Come rilevano esattamente i giudici di merito, il fatto che il F. potesse in astratto pretendere dai propri clienti, a titolo di compenso professionale, somme maggiori di quelle liquidate a carico delle parti soccombenti con la sentenza civile, è del tutto indifferente nelle valutazioni del caso. Nel momento in cui il ricorrente trattenne per sé non solo le spese legali liquidate in sentenza, ma anche le somme destinate ai clienti, egli non poteva infatti vantare alcuna maggiore pretesa per compensi professionali, non avendo mai agito per ottenerne il riconoscimento. Ciò, anche a prescindere dall'ulteriore, corretto rilievo, contenuto in sentenza, che nemmeno per le spese legali liquidate dal giudice civile egli avrebbe potuto operare alcuna Trattenuta , non avendone chiesto la distrazione ai sensi dell’art. 93 c.p.c 2. Nella specie, il ricorrente non può quindi in alcun modo invocare il principio secondo cui l'omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 cod. penumero , in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione uti dominus e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso Cass. Sez. 2, Sentenza numero 10774 del 25/01/2002, Imputato Vollero , perché egli non aveva alcun maggior credito certo, liquido ed esigibile in relazione all'opera professionale prestata a favore delle persone offese, e peraltro nemmeno ha dedotto di avere mai rappresentato ai clienti di non potersi ritenere soddisfatto della liquidazione giudiziale cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza numero 9225 del 06/07/1988, Imputato LIANI, secondo cui nel reato di appropriazione indebita non può essere fatto valere il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi nel loro ammontare, ne1 liquidi né esigibili a fortiori il principio vale nel caso di specie, perché, in definitiva, il presunto maggior credito del ricorrente per compensi professionali era assolutamente incerto anche nell’an, non essendo affatto scontato che la liquidazione giudiziale delle spese del processo civile dovesse essere ritenuta inadeguata . 2.1. Non si vede, quindi, quale inadempimento il F. potesse contestare alle persone offese, sul quale innestare il diritto di ritenzione delle somme ricevute per loro conto, che avrebbe dovuto invece senz'altro versare ai propri clienti. Le circostanze del fatto sono state poi adeguatamente valorizzate dai giudici di merito come prova dell’interversio possessionis, essendo in effetti la volontà appropriativa desumibile dal silenzio a lungo serbato dall'imputato sull'importo delle somme effettivamente percepite nell'interesse dei clienti, che ignari dell'esecuzione della sentenza civile ad opera della parte soccombente, avevano avviato le procedure coattive per il recupero del proprio credito. 3. In conclusione, del tutto correttamente la sentenza impugnata ha applicato al caso di specie il principio secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, trattenga definitivamente la somma ricavata dall'esecuzione del mandato invece di rimetterla al mandante Cass. Sez. 2, Sentenza numero 46586 del 29/11/2011 imputato Semenzato e altro e altrettanto correttamente ha escluso che l'astratta previsione normativa del diritto di ritenzione valesse a scriminare il ricorrente, in assenza di qualunque accertamento del diritto sostanziale presidiato dalla garanzia speciale in sentenza è citata Cass. 19.11.1998 nr. 1410 . Alla stregua delle precedenti considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.