Ritardo nella richiesta di fallimento? Senza colpa grave non c’è reato

La tardiva od omessa richiesta di fallimento assume la consistenza di una omissione penalmente rilevante, ove sia stata oggetto di una scelta caratterizzata da colpa di livello grave.

Questo il principio di diritto statuito dalla V Sezione Penale della Cassazione, che, con la medesima sentenza n. 43414 del 24 ottobre 2013, ha altresì chiarito che la gravità della colpa non deve ritenersi presunta laddove il fallimento non sia stato tempestivamente richiesto dall’imprenditore in stato di insolvenza, non potendo da tale fatto farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave . L'elemento soggettivo della bancarotta semplice per ritardato fallimento La contestazione della fattispecie di cui all’art. 217, comma 1, n. 4 , prima parte, l.f. si incontra con alta frequenza statistica nei procedimenti penali per bancarotta, non di rado accompagnata a contestazioni di bancarotta fraudolenta per distrazione. Molto spesso, infatti, dalla relazione del curatore fallimentare emerge che lo stato di insolvenza ha preceduto di gran lunga la dichiarazione di fallimento, con conseguente attribuzione all’imprenditore della responsabilità omissiva per avere ritardato, se non radicalmente omesso, di richiedere in proprio il fallimento, con conseguente aggravamento dello stato di dissesto. Trattasi, come evidente, di reato omissivo, che si verifica solo allorchè, in conseguenza della condotta omissiva, si sia verificato l’aggravamento del dissesto. Tuttavia, è altrettanto evidente come il protrarsi di una situazione di insolvenza nel tempo si accompagni assai di sovente, per non dire fisiologicamente, ad un aggravamento dello stato di dissesto, conseguente, ad esempio, alla sola presenza di significativi debiti sui quali continuano a maturare interessi ed accessori. È allora evidente come in presenza di siffatte fattispecie sia assolutamente determinante e decisiva la verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo ed ancor prima delinearne con precisione il contenuto e la natura. un unico elemento soggettivo per la bancarotta semplice? Allorchè ci si interroghi sull’elemento soggettivo della bancarotta semplice non si può non prendere le mosse dalla individuazione dell’elemento psicologico della bancarotta semplice documentale, che da sempre ha costituito oltre che il caso statisticamente più frequente anche una sorta di leading case proprio nella individuazione dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta semplice. Secondo un orientamento assai diffuso sia in dottrina che in giurisprudenza, infatti, è necessaria una visione unitaria del delitto di bancarotta semplice, che presuppone l’atteggiarsi del medesimo elemento soggettivo, con conseguente estensione dei principi elaborati per la bancarotta documentale semplice anche alle altre ipotesi delittuose previste nell’art. 217 l.f La giurisprudenza sul punto si è ormai consolidata nell’affermare che la bancarotta semplice documentale è punibile sia a titolo di colpa che di dolo generico laddove è, per contro, evidente che il dolo specifico connota la bancarotta documentale fraudolenta . Sia in dottrina che in giurisprudenza si è, tuttavia, affermato un diverso orientamento che supera la concezione unitaria della bancarotta semplice contrapposta a quella fraudolenta, puntualizzando che è necessaria una specifica indagine delle singole figure di bancarotta semplice previste nell’art. 217 l.f. onde individuare la forma del rispettivo elemento soggettivo come doloso oppure colposo. colpa semplice o colpa grave? Dato dunque per corretto l’assunto, ormai concordemente condiviso, che l’individuazione dell’elemento soggettivo di ogni ipotesi di bancarotta semplice si debba fondare sulla disamina della singola fattispecie incriminatrice delineata dal legislatore, occorre verificare nel dettaglio il dettato legislativo di cui all’art. 217, comma 1, n. 4 , l.f Sullo specifico punto, invocato appunto dalla difesa dell’imputato, interviene con ampia motivazione la sentenza che si annota. Il dato letterale non consente tuttavia una soluzione univoca ed immediata. Da un lato, infatti, si è osservato come l’esplicita previsione della sussistenza della altra colpa grave” nella seconda ipotesi dello stesso art. 217, comma 1, n. 4 , l.f. indichi la necessità di tale elemento soggettivo rafforzato solo laddove sia espressamente previsto dal legislatore. Dall’altro lato, si evidenzia come, per contro, l’utilizzo proprio del termine altra” implichi una esplicita equiparazione dell’elemento psicologico della seconda fattispecie a quello della prima. o meglio presunzione assoluta di colpa grave? In realtà, ormai, dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermare che l’elemento psicologico che caratterizza l’ipotesi di cui all’art. 217, comma 1, n. 4 , l.f. è unitario ed è rappresentato, per esplicito dettato del legislatore, dalla colpa grave”. Il quesito interpretativo che si accentra in ordine al termine altra” colpa grave è diverso e si risolve nel verificare se il legislatore presuma in senso assoluto la sussistenza di una colpa grave in capo all’imprenditore che, trovandosi in situazione di insolvenza, ometta di richiedere il proprio fallimento, così aggravando lo stato di dissesto. È sul punto specifico che si accentra l’attenzione della Suprema Corte, che non ha difficoltà nell’affermare come il ritardo dell’imprenditore nell’assumere la grave decisione di richiedere in proprio il fallimento possa essere determinato da una assai vasta gamma di dinamiche gestionali. È evidente, infatti, che ben diverso è l’atteggiarsi del profilo psicologico e dunque il disvalore intrinseco di colui che si disinteressi completamente delle conseguenze dell’intervenuto stato di insolvenza, da quello dell’imprenditore che, consapevole della situazione di insolvenza, abbia semplicemente errato sulla valutazione della fattibilità o dell’esito di un piano di finanziamento o di rilancio della società. Dalla disamina di tali dinamiche appare evidente come non in ogni condotta omissiva possa ravvisarsi, in capo all’imprenditore, un profilo di colpa grave, che dunque non potrà presumersi come esistente in senso assoluto, ma dovrà, di volta in volta, essere accertato ed in conseguenza oggetto di specifica motivazione da parte del giudice in caso di affermazione della penale responsabilità. Proprio su tale punto cade, infatti, la pronuncia di annullamento della Suprema Corte, cha appare in piena linea non solo con i canoni costituzionali vigenti in tema di colpevolezza, ma anche con le recenti riforme della legge fallimentare, che tendono a valorizzare le condotte dell’imprenditore che tenti – attraverso le procedure previste dalla stessa legge fallimentare – di superare la situazione di insolvenza attraverso accordi di ristrutturazione del debito e piani di rilancio aziendale, a fronte della pregressa impostazione della legge fallimentare, che si imponeva solo l’obiettivo di liquidare la società e soddisfare le pretese del ceto creditorio.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 25 settembre - 24 ottobre 2013, n. 43414 Presidente Palla – Relatore Zaza Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Pordenone del 13/01/2010, veniva confermata l'affermazione di responsabilità di Z.V. , Z.S. , M.D.I. e T.S. per il reato di cui all'art. 217 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, commesso da Z.V. quale presidente del consiglio di amministrazione, da Z.S. quale consigliere delegato e dal T. e dalla M. quali consiglieri della ITA s.p.a., dichiarata fallita in omissis , omettendo di richiedere il fallimento fino al omissis e cosi aggravando il dissesto della società, in stato di insolvenza dal 31/12/2005. I predetti imputati venivano invece assolti per insussistenza del fatto dal'imputazione del reato di cui agli artt. 2621 cod. civ. e 223 legge fall., loro contestato nell'aver concorso a cagionare il dissesto della società esponendo fatti non rispondenti al vero nel bilancio al 2004, in particolare omettendo di svalutare una partecipazione nella Invest s.r.l., iscritta per Euro 210.000 a fronte di un patrimonio netto della partecipata ridotto ad Euro 78.595, e di conseguenza un credito vantato nei confronti della Invest per Euro 1.380.928, ed omettendo altresì di svalutare crediti iscritti per Euro 550.328 nei confronti della Olcese s.p.a., sottoposta ad amministrazione straordinaria, e per Euro 600.000 della MTP s.r.l., il cui patrimonio netto era ridotto ad un passivo di Euro 982.232. La pena inflitta agli imputati era di conseguenza rideterminata in mesi otto di reclusione per ciascuno. Il Procuratore generale e gli imputati ricorrono sui punti e per i motivi di seguito indicati. 1. Sull'assoluzione dall'imputazione di bancarotta impropria da reato societario, il Procuratore generale ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione, nell'esclusione del fine di ingannare i soci o il pubblico e di conseguire un ingiusto profitto in base al ritenuto intento degli amministratori di preservare l'assetto patrimoniale della società nelle auspicate prospettive di crescita, censurando la confusione in tal modo ingenerata fra il movente della speranza nel miglioramento patrimoniale ed il dolo specifico inevitabilmente derivante dalla consapevolezza delle alterazioni del bilancio. Ulteriore contraddittorietà della motivazione è dedotta con riferimento all'esclusione del rapporto causale fra il reato societario e l'aggravamento del dissesto alla luce dell'essersi gli imputati attivati nel 2006 per ristrutturare il capitale e ridurre gli oneri finanziari, lamentando il ricorrente anche a questo proposito la confusione fra il movente che animava gli imputati e la consapevolezza dell'aggravamento del dissesto in conseguenza degli artifici contabili. 2. Sull'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta semplice, gli imputati ricorrenti deducono violazione di legge in merito ai presupposti della fattispecie contestata, che deve ritenersi incriminare il ritardo nella richiesta di fallimento non in quanto tale, ma rispetto al momento del conclamato stato di insolvenza. Lamentano illogicità della motivazione in quanto fondata sulle altrettanto illogiche conclusioni del perito contabile, in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza della fallita al omissis , tratte all'esito di un ragionamento meramente ipotetico sull'insorgenza della necessità di ricapitalizzare o scegliere la società a quella data ove fosse stata data un'esatta rappresentazione della situazione finanziaria della stessa, e non su un'analisi reale delle condizioni effettive della ITA. Denunciano mancanza di motivazione sull'assenza, alla data indicata, dei dati tipicamente sintomatici di uno stato di insolvenza, ossia dell'impossibilità di far fronte alle obbligazioni, piuttosto che di un mero squilibrio patrimoniale fra attivo e passivo nonché su quanto riferito dal teste B. , incaricato dagli amministratori della redazione di un progetto di ristrutturazione aziendale, dal consulente della difesa e perfino dal curatore e dal perito in ordine alla serietà del predetto piano e di quello di ristrutturazione del debito bancario, venuto meno solo alla fine del 2006 per la mancata adesione della Banca di Roma, all'esistenza di plusvalenze immobiliari ed al convincimento degli amministratori di poter risanare la situazione della società. Deducono infine violazione di legge ed illogicità della motivazione sulla sussistenza dell'elemento psicologico del reato di bancarotta semplice in quanto individuato nella colpa consistita nella mera imprudenza nel confidare sulla disponibilità degli istituti di credito ad aderire al piano di ristrutturazione del debito, tale da non configurare la colpa grave richiesta dalla norma incriminatrice. 3. Sulla determinazione della pena, gli imputati ricorrenti deducono contraddittorietà della quantificazione della pena-base in anni uno e mesi sei di reclusione rispetto al riconosciuto carattere colposo della condotta, alla mancanza di qualsiasi finalità di lucro personale, al modesto precedente penale di Z.S. ed all'incensuratezza degli altri imputati. Nell'interesse degli imputati Z.V. , Z.S. e M.D.I. è stata depositata memoria a sostegno del ricorso proposto dai predetti indagati e della richiesta di rigetto del ricorso proposto dal Procuratore generale. Considerato in diritto 1. I motivi di ricorso proposti dal Procuratore generale ricorrente sull'assoluzione degli imputati dall'addebito di bancarotta impropria da reato societario sono infondati. La sentenza impugnata veniva congruamente motivata con riferimento in primo luogo alla mancanza del dolo specifico costituito dal fine di trarre in inganno i soci e i terzi e, soprattutto, di conseguire un ingiusto profitto, necessario per la compiuta realizzazione del reato di false comunicazioni sociali anche in quanto presupposto del delitto di bancarotta impropria Sez. 5, n. 854 del 18/02/1999, Galli, Rv. 212857 Sez. 5, n. 28508 del 12/04/2013, Mannino, Rv. 255575 osservandosi a tale proposito che dal bilancio e dalla relazione emergeva l'intento degli amministratori di preservare l'assetto patrimoniale della società nella prospettiva del risanamento della stessa, che veniva specificamente indicata. Né in tale argomentazione è ravvisabile il vizio di contraddittorietà lamentato dal ricorrente nella dedotta confusione fra i diversi elementi del movente e del dolo specifico. Il primo di detti elementi veniva invero nella specie coerentemente valutato nei suoi riflessi sulla ravvisabilità, in concreto esclusa, della finalità di ingiusto profitto. A prescindere da queste considerazioni, la sentenza impugnata conteneva comunque un'adeguata motivazione in ordine all'assenza dell'ulteriore componente costitutiva del reato contestato, rappresentata dal rapporto di causalità fra la condotta di false comunicazioni sociali e l'evento. Pur dando correttamente atto che quest'ultimo può essere rappresentato, oltre che dal dissesto della società fallita, anche dal mero aggravamento dello stesso, la Corte territoriale evidenziava tuttavia, senza incorrere in vizi logici, come il nesso causale fosse stato nel caso in esame interrotto dall'essersi gli amministratori attivati, successivamente all'esposizione del bilancio con i dati contestati, per la ristrutturazione dell'attività produttiva del gruppo e del debito bancario, con un intervento protrattosi per due anni attraverso la riduzione del personale ed il ricorso alla cassa integrazione, da un lato, e costanti trattative con gli istituti di credito dall'altro, il cui esito negativo finale non consentiva comunque di far rivivere il legame di causalità fra i pregressi fatti di false comunicazioni sociali e l'aggravamento del dissesto in conseguenza del proseguimento dell'attività della società. Ed anche a questo proposito, peraltro con evidenza ancor maggiore rispetto al profilo precedentemente trattato, appare insussistente la contraddittorietà lamentata dal ricorrente in un'indebita utilizzazione probatoria del movente degli imputati, laddove l'argomentazione dei giudici di merito veniva invece condotta sul diverso piano dell'incidenza sul rapporto causale di un'attività materiale, quale la complessa e prolungata operazione di risanamento produttivo e finanziario effettivamente realizzata nel periodo intermedio fra l'approvazione del bilancio oggetto dell'imputazione e la dichiarazione di fallimento. Il ricorso del procuratore generale deve pertanto essere rigettato. 2. I motivi proposti dagli imputati ricorrenti sull'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta semplice sono invece fondati nei termini di seguito esposti. 2.1. La fattispecie incriminatrice contestata, lo si rammenta, è descritta dall'art. 217, comma primo, n. 4 legge fall, nella condotta dell'imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”. Per quanto concerne l'oggettiva esistenza di un ritardo nella dichiarazione di fallimento, idoneo a configurare un'astensione dalla richiesta di detta dichiarazione che abbia inciso sull'aggravamento del dissesto della fallita, la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, valutava per il vero tale elemento con specifico riguardo al momento in cui poteva dirsi realizzato lo stato di insolvenza della società fallita, correttamente definito, secondo la previsione di cui all'art. 5 legge fall., nell'incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni. Ed infondata è la censura per la quale la sentenza impugnata sarebbe fondata in proposito su un ragionamento meramente ipotetico del perito contabile, riferito all'esatta rappresentazione in bilancio delle condizioni economiche della società. I giudici di merito articolavano viceversa la loro argomentazione su più elementi indicativi della descritta condizione di insolvenza adottando peraltro il criterio di attribuire rilevanza a dati ritenuti per l'appunto dimostrativi di detta condizione, a prescindere dal costituirne gli stessi o meno manifestazioni esteriormente percepibili. E così nella sentenza impugnata si evidenziavano la critica situazione finanziaria emergente dai bilanci dal 2003 al 2005 la discontinuità della, commesse successivamente pervenute la perdita del capitale sociale, per effetto di perdite, già nel 2004 il verificarsi nel corso del 2005 di eventi significativi quali la decozione delle partecipate e delle altre società riconducibili al gruppo, il mancato pagamento di imposte e contributi previdenziali, il congelamento dei debiti bancari, l'emissione di decreti ingiuntivi, le escussioni da parte di fidejussori, le revoche di affidamenti bancari, l'immobilizzazione di crediti verso le partecipate e l'abbattimento del valore delle partecipazioni ed infine, nel corso dell'anno 2006, la crescita del debito bancario a breve e l'aggravamento del deficit patrimoniale, in conseguenza di perdite per almeno Euro 2.300.000 e dell'aumento degli oneri finanziari, da Euro 4.276.617,92 ad Euro 11.965.166,08. Elementi, questi, dai quali veniva coerentemente desunta la sussistenza, a partire dal 31/12/2005, di un vero e proprio stato di insolvenza e non di un mero squilibrio finanziario. 2.2. Dove viceversa il ricorso trova fondatezza è sul punto relativo alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato ed in particolare nel presupposto giuridico dell'argomentazione del ricorrente, per il quale detto elemento deve essere individuato nella colpa grave. Il richiamo ad una colpa così qualificata compare espressamente, come abbiamo pocanzi ricordato, nella struttura della norma incriminatrice testualmente contrassegnando le condotte diverse da quella della mancata richiesta del fallimento in proprio. Si discute in dottrina se la funzione di detto riferimento si esaurisca in quella di dato identificativo delle predette condotte, che si aggiungerebbe a quello della loro causalità orientata all'aggravamento del dissesto ovvero se la colpa grave connoti in realtà il complesso dei fatti riconducibili alla previsione incriminatrice in esame, investendo pertanto anche la condotta di omessa o ritardata richiesta di fallimento. La questione è evidentemente innescata dalla presenza nella norma dell'attributo altra”, determina la colpa grave immediatamente dopo la descrizione della condotta appena indicata. Tanto può astrattamente significare, come si è sostenuto, che il legislatore abbia considerato come intrinsecamente ed inderogabilmente grave la colpa di chi ometta di richiedere tempestivamente il proprio fallimento, ponendo tale comportamento quale parametro del livello di colpa da ricercarsi invece di volta in volta nelle diverse condotte contestate alla stregua della stessa incriminazione ma può significare altresì, come pure è stato prospettato, che in quanto coefficiente psicologico comune a tutte le condotte riconducibili alla norma in esame, la colpa grave debba essere accertata anche nell'ipotesi del ritardato fallimento. Il punto in discussione non è, a ben guardare, se la colpa grave sia elemento psicologico che caratterizza l'intera fattispecie incriminatrice conclusione sulla quale le opinioni riportate finiscono per concordare. Il quesito è se la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza. Orbene, la soluzione affermativa di una siffatta presunzione appare per un verso priva di ragionevolezza, e per altro non essere l'unica autorizzata dal testo normativo. Per il primo aspetto, non è difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della senza dubbio grave decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato ad una vasta gamma di dinamiche gestionali che si estende dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L'eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato. Per il secondo profilo, il fatto che la norma qualifichi nel segno della altra grave colpa” le condotte diverse da quella di ritardato fallimento non implica necessariamente che quest'ultima sia intesa da legislatore come manifestazione tipica di colpa grave. È altresì praticabile una lettura che sottintende tale condotta come punibile in quanto in concreto connotata da colpa grave, al pari di altri comportamenti non tipicizzati altrimenti che per la loro efficienza causale rispetto all'aggravamento del dissesto e per la quale, in altri termini, la tardiva richiesta di fallimento assume la consistenza di un'omissione penalmente rilevante ove oggetto di una scelta caratterizzata da colpa di livello grave. Questa opzione interpretativa, non incorrendo nei difetti di ragionevolezza rilevabili nella tesi per la quale la gravità della colpa sarebbe assolutamente presunta nell'ipotesi in esame, deve pertanto essere privilegiata laddove, per quanto appena detto, non incompatibile con il dato letterale. Né la stessa contrasta con l'orientamento, anche recentemente ribadito da questa Corte, per il quale la norma incriminatrice non richiede comportamenti ulteriori che concorrano con la mancata richiesta di fallimento ed il conseguente aggravamento del dissesto, anche solo per effetto del mero proseguimento dell'attività di impresa Sez. 5, n. 13318 del 14/02/2013, Viale, Rv. 254986 . Qui non si vuoi sostenere infatti che comportamenti del genere siano necessari, ma che la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento in proprio debba essere in sé stessa determinata da un atteggiamento gravemente colposo. 2.3. Una volta stabilito che anche la condotta di ritardato fallimento è punibile in quanto caratterizzata da colpa grave, ne risulta fondata la censura di mancanza di motivazione, in questa prospettiva, della sentenza impugnata. La Corte territoriale argomentava infatti esplicitamente nei termini di una colpa non ulteriormente qualificata, laddove individuava quest'ultima nel l'aver gli imputati confidato oltremisura in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario e in un progetto di ristrutturazione complessiva del gruppo inevitabilmente rallentato dalle difficoltà finanziarie delle società collegate. La motivazione è pertanto carente nell'esame della possibilità di ravvisare nella descritta situazione una colpa tale da poter essere ritenuta come grave, in presenza, quanto in particolare ai rapporti con le banche, di un accordo per la ristrutturazione del debito venuto meno solo a seguito del dissenso espresso nel 2006 dalla Banca di Roma e per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati. La sentenza deve pertanto essere annullata, limitatamente all’affermazione di responsabilità degli imputati per il reato di bancarotta semplice, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo esame sui decritti profili motivazionali, rimanendo assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo B con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo esame. Rigetta il ricorso del Procuratore generale.