Veleno tra ex coniugi: «Lui ha una cattedra grazie a mio padre». Rabbia? No, parole consapevoli e offensive

Ribaltata completamente la prospettiva tracciata in secondo grado, laddove le parole della donna non erano state ritenute offensive. Assolutamente evidente, per i giudici della Cassazione, la deminutio nei confronti dell’ex marito, e, quindi, la lesione della sua dignità professionale.

Ex coniugi ai ferri corti, e l’ennesimo scontro è messo in scena in un’aula di giustizia, in occasione di un processo civile. Volano parole grosse, frutto anche della tensione, ma questa situazione non può rendere meno grave l’offesa diretta dalla donna verso l’uomo quest’ultimo, difatti, viene additato al pubblico ludibrio, sostenendo che egli ha ottenuto risultati in ambito accademico – una cattedra, per la precisione – solo grazie ai ‘buoni offici’ del padre di lei. Cassazione, sent. n. 43346/2013, Quinta Sezione Penale, depositata oggi Reato di lesa professionalità. Caustica, piena di sarcasmo, e, in fondo, anche di rabbia, la frase pronunciata dalla donna verso l’ex marito Ma che danno, non può avere danni, perché non è in cattedra per merito suo, ma per grazia di mio padre . Praticamente uno schiaffo – seppur solo metaforico – assestato in pieno volto all’uomo, ferito, è immaginabile, nella dignità. Ma tale valutazione, espressa dalla donna, non viene ritenuta così grave dai giudici del Tribunale, che, riformando la sentenza di primo grado, qualificano l’espressione ‘incriminata’ come non offensiva perché non costituiva una deminutio in ordine al valore professionale dell’uomo. E, comunque, aggiungono i giudici, quella frase non era assistita da una precisa volontà di diffamare, essendo, piuttosto, il frutto di un disagio interiore connesso alla concitazione ed agitazione del delicato momento processuale . Visione, però, troppo buonista, quella prospettata in Tribunale. Ciò si deduce dalla opposta considerazione espressa dai giudici della Cassazione, i quali, invece, accogliendo il ricorso proposto dall’uomo, ritengono concreta l’ offesa . È evidente, chiariscono i giudici del ‘Palazzaccio’, che l’espressione adoperata dalla donna incide sulla reputazione dell’uomo, asserendo che quest’ultimo ha conseguito risultati accademici non per meriti propri, ma per effetto di aiuti esterni .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 maggio – 23 ottobre 2013, n. 43346 Presidente Oldi – Relatore De Marzio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 22/07/2011 il Tribunale di Padova, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto F.D. dal reato di cui all’art. 595 cod. pen., perché il fatto non costituisce reato e ha revocato la statuizioni civili. Alla D. era stato contestato di avere pronunciato, in occasione di un processo civile che la vedeva contrapposta all’ex-marito J.T., le seguenti espressioni Ma che danno, T. è una faccia di merda, non può avere danni, perché non è in cattedra per meriti suoi, ma per grazia di mio padre”. Il Tribunale ha ritenuto che la frase faccia di merda” non fosse stata pienamente dimostrata, in quanto riferita solo dal teste F., mentre la restante parte dell’espressione - da ritenere comunque non offensiva, poiché non costituiva una deminutio in ordine al valore professionale della costituita parte civile - non era assistita da una precisa volontà di diffamare, essendo piuttosto il frutto di un disagio interiore connesso alla concitazione ed agitazione del delicato momento processuale. 2. In relazione alle statuizioni civili, nell’interesse del T. è stato proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. 2.1. Con il primo motivo, si lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 595 cod. pen., per avere il Tribunale, da un lato, ritenuto provata almeno una delle espressioni contestate non può avere danni, perché non è in cattedra per meriti suoi, ma per grazia di mio padre” , caratterizzata da inequivocabile potenzialità lesiva della reputazione, dall’altro, escluso la responsabilità dell’imputata, in ragione dell’assenza di un preciso intento diffamatorio. 2.2. Con il secondo motivo, si lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in quanto, con riferimento ad altra espressione contestata all’imputata T. è una faccia di merda” , il Tribunale ha ritenuto, senza spiegarne le ragioni, priva di efficacia dimostrativa la deposizione del teste F., il quale aveva confermato di averla sentita. Tale immotivato giudizio di inattendibilità, ad avviso del ricorrente, era ancora più singolare, dal momento che le dichiarazioni del primo a erano state confermate dalla deposizione della teste F., con riguardo all’altra affermazione contestata alla D. b non erano state smentite dal teste L.S., che si era limitato a dire di non ricordare nessuna delle frasi proferite. Considerato in diritto 1. Entrambi i motivi dì ricorso sono fondati. 2. Quanto al primo motivo, va rilevato, per un verso, che l’espressione adoperata incide in modo evidente sulla reputazione della persona offesa, alla quale si rimprovera di avere conseguito dei risultati accademici non per meriti propri, ma per effetto di aiuti esterni, e, per altro verso, che, nei delitti contro l’onore, non è richiesta la presenza di un animus iniuriandi vel diffamandi, ma appare sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere Sez. 5, n. 7597 del 11/05/1999, Beri Riboli, Rv. 213631 . 3. Con riguardo al secondo motivo, va ribadito che, in tema di valutazione della prova testimoniale, il giudice, pur essendo indubbiamente tenuto a valutare criticamente il contenuto della testimonianza, verificandone l’attendibilità, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. In assenza, quindi, di siffatti elementi, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza Sez. 4, n. 35984 del 10/10/2006, Montefusco, Rv. 234830 . Ne discende che è manifestamente illogica la motivazione della sentenza impugnata che, senza illustrare le ragioni di inattendibilità del teste F., ha tratto argomento per ritenere non sufficientemente dimostrata l’affermazione della piano semplicemente dalla circostanza che altro teste non ne abbia parlato e che altro teste ancora abbia riferito di non essere in grado di ripetere le frasi pronunciate. Entrambe le deposizioni riportate in sentenza, infatti, non si pongono in contrasto con le dichiarazioni del F., con la conseguenza che non sono idonee a inficiarne la valenza dimostrativa. 4. Poiché l’annullamento concerne il capo della sentenza che riguarda l’azione civile, va disposto, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. 5. La pronuncia sulla spese va rimessa all’esito del giudizio rescissorio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003.