Quando da un falso in bilancio … nasce una bancarotta

In tema di bancarotta impropria societaria, al fine della integrazione della fattispecie è sufficiente che il reato societario sia stato una delle condizioni necessarie al prodursi dell’evento dissesto, in quanto, in tale caso, deve considerarsi causa giuridicamente rilevante dell’evento.

Questo il principio di diritto desumibile dalla pronuncia n. 42116 dell’11 ottobre 2013 della Prima sezione Penale della Corte di Cassazione. La bancarotta da reato societario dopo il D.lgs. n. 61/2002. Come noto l’art. 4, D.lgs. n. 61/2002 è intervenuto riformando radicalmente la struttura della bancarotta da reato societario. La nuova formulazione dell’art. 223, comma 2, nu. 1 , l.f. ha determinato la trasformazione di una fattispecie che era di pericolo presunto a reato di danno, da delitto di mera condotta a reato ad evento naturalistico. La previgente norma incriminatrice, infatti, non prevedeva che la condotta o il fatto” integrante il reato societario dovesse necessariamente cagionare o concorrere a cagionare il dissesto della società. Tale vecchia formulazione era stata ampiamente criticata dalla più autorevole dottrina penalistica Antolisei , che aveva evidenziato come non avesse ragion di essere il prevedere un siffatto aumento di pena passando dalle modeste sanzioni dei reati societari a quelle assai gravose della bancarotta impropria per il mero intervenuto fallimento della società, allorchè il fatto integrante il reato societario non fosse stato causa o concausa del fallimento. Tale rilievo pare essere stato accolto dal legislatore del 2002 che, come anticipato, ha riformulato la disposizione normativa esplicitando che, al fine delle integrazione della penale responsabilità, occorre che i fatti integranti i reati societari indicati abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società . Abolitio criminis o successione di leggi penali nel tempo? Immediatamente dopo la riforma del 2002, che come noto non intervenne solo sulla fattispecie di cui all’art. 223 l.f., ma anche e soprattutto sulla formulazione dei reati societari previsti nel codice civile, la giurisprudenza si interrogò – sia per quanto concerne i singoli reati societari che per il dettato dell’art. 223 l. f. – se ci si trovasse di fronte ad una abolizione dei reati previgenti ovvero ad una mera successione di leggi, con effetto solo parzialmente abrogativo, per quei fatti, commessi prima della entrata in vigore della nuova legge, che non fossero riconducibili anche alle nuove fattispecie incriminatrici. Come noto, sin dalla sentenza a Sezioni Unite del 2003, la giurisprudenza si è assolutamente consolidata su tale secondo filone interpretativo, con la conseguenza che si sono moltiplicate le istanze presentate al giudice della esecuzione onde verificare se i fatti oggetto di accertamento nella singola fattispecie processuale, già oggetto di una sentenza definitiva, rientrassero nel novero di quelli non più costituenti reato per effetto della solo parziale abrogazione conseguente alla successione di leggi penali di cui poc’anzi si è detto , con conseguente necessità di revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis. Nel caso oggetto della pronuncia che si annota, infatti, il ricorrente condannato con sentenza definitiva per bancarotta societaria conseguente al delitto di false comunicazioni sociali aveva adito la Corte di Appello, quale giudice della esecuzione, affinchè, preso atto del rilievo che il falso in bilancio commesso aveva, al limite, semplicemente aggravato un preesistente stato di dissesto, ma non cagionato lo stesso, fosse revocata la sentenza di condanna, per intervenuta abolitio criminis. Avverso l’ordinanza della Corte di Appello, che nei fatti oggetto del processo aveva rinvenuto sussistenti tutti gli elementi costitutivi sia della fattispecie di cui all’art. 2621 c.c., nella attuale formulazione, che quelli di cui all’art. 223 comma 2, n. 1 , l.f., in quanto i fatti costituenti il falso in bilancio avevano concorso a cagionare il dissesto della società, propone ricorso per cassazione il condannato. Dal falso in bilancio alla bancarotta fraudolenta. Sostiene il ricorrente che oggetto di accertamento da parte del Tribunale e della Corte di merito era stata la mera indicazione in bilancio di ingentissimi crediti, che in realtà erano già divenuti assolutamente inesigibili, e che ciò non aveva cagionato lo stato di dissesto della società, che, anzi e per contro, proprio perché tali crediti erano già inesigibili ed assolutamente ingenti, preesisteva rispetto al falso in bilancio. Dal fatto integrante il falso in bilancio, pertanto, prosegue il ricorrente, poteva tutt’al più essere derivato un aggravamento di un dissesto preesistente in conseguenza della prosecuzione della attività da parte della società pur in una situazione di mascherata insolvenza. Poiché, secondo il ricorrente, la nuova formulazione dell’art. 223, comma 2, n. 1 , l.f. presuppone l’esistenza di un nesso causale tra il fatto” costituente il reato societario e la situazione di insolvenza – che non sussisteva nel caso in esame –, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto revocare la sentenza di condanna per intervenuta abolitio criminis. Di diverso avviso i Giudici della Suprema Corte. Per costante giurisprudenza infatti la nuova formulazione dell’art. 223 l.f. non richiede che il fatto integrante reato societario sia stato l’unico fattore causale determinante lo stato di dissesto, essendo per contro sufficiente che sia stato uno dei più fattori causali necessari al determinare dell’evento. Ciò, si badi bene, non tanto e non solo per il dato letterale dell’art. 223 l.f., che testualmente recita che i fatti integranti i reati societari indicati devono aver cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società , ma anche ed ancor prima perché, secondo i principi comuni del nostro ordinamento giuridico, già affermati nell’art. 41 c.p., il concorso di cause preesistenti, sopravvenute o simultanee, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto causale fra l’azione o l’omissione e l’evento. Non occorre, dunque, che l’azione od omissione integrante l’illecito societario sia stata l’unica causa del dissesto, essendo sufficiente che abbia concorso a produrlo. Orbene, poiché nel caso in esame – prosegue la Corte – appare evidente come l’indicazione in bilancio di ingenti crediti pacificamente inesigibili abbia indotto in errore gli istituti credito, che hanno proseguito a finanziare la società, non pare potersi revocare in dubbio che detta condotta abbia concorso a cagionare il dissesto della società, con conseguente perdurante sussumibilità del caso in esame nella attuale formulazione legislativa dell’art. 223, comma 2, n. 1 , l.f., e correttezza del giudizio operato dalla Corte di Appello, che, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato la richiesta di revoca dalla sentenza di condanna per abolizione del reato.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 22 aprile - 11 ottobre 2013, numero 42116 Presidente Giordano – Relatore Caiazzo Rilevato in fatto Con ordinanza in data 19.4.2012 la Corte d'appello di Torino rigettava l'istanza con la quale G.G. aveva chiesto la revoca - per intervenuta abrogazione del reato addebitatogli di bancarotta fraudolenta - della sentenza del Tribunale di Cuneo in data 11.11.1992, confermata dalla Corte d'appello di Torino con riguardo al G. con sentenza in data 30.10.1995. Il G. era stato condannato, in concorso con altri, per il delitto di bancarotta di cui all'articolo 223 Legge fallimentare, in relazione all'articolo 2621 c.c., perché in qualità di presidente del collegio sindacale della FINVEST FINANZIARIA INVESTIMENTI spa dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Cuneo 9-14 giugno 1988 esponeva nei bilanci relativi agli anni 1984, 1985 e 1986 fatti non rispondenti al vero sulle reali condizioni economiche della società, in particolare indicando falsamente nell'attivo patrimoniale crediti certamente irrealizzabili, con il risultato che alla conclusione dell'esercizio 1986 la situazione effettiva denunciava - in contrasto con i bilanci approvati - una perdita di oltre dieci miliardi di lire, e ciò per effetto di un sistematico occultamento dei sintomi di progressiva irreversibile decozione che, costantemente involvendo, aggravava il dissesto in misura tale da cagionare ai creditori un danno patrimoniale di rilevante entità, posto che al momento della dichiarazione di fallimento il deficit ammontava ad oltre quaranta miliardi di lire. La Corte d'appello esaminava la suddetta sentenza di condanna al fine di accertare se dalla stessa risultasse che il G. , nel commettere le false comunicazioni sociali addebitategli, avesse anche cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, poiché solo in questo caso, tenuto conto della riformulazione del delitto di bancarotta impropria ad opera del D.L.vo 61/2002, non doveva essere revocata ex articolo 673 c.p.p. la suddetta sentenza di condanna. Riteneva, innanzi tutto, che dall'esame della suddetta sentenza risultava che fossero stati in allora puntualmente accertati tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all'articolo 2621 c.c. nella formulazione attualmente vigente, e in particolare l'intenzione comune ad amministratori e sindaci della società poi fallita di ingannare soci e pubblico, avendo il Tribunale di Cuneo tra l'altro affermato che era evidente l'intenzione di mascherare, sia agli occhi dei risparmiatori che investivano i propri denari, sia agli occhi delle banche che seguitavano a profondere liquidità, la profonda voragine che si era venuta pian piano creando, così come era evidente dall'esame della predetta sentenza del Tribunale il fine di ingiusto profitto perseguito dal G. e dai correi, consistito nel consentire alla FINVEST sommersa dalle insolvenze di poter continuare a ricorrere a piene mani al credito bancario e dei privati e di evitare il fallimento. Concludeva, quindi, che dalla lettura della sentenza del Tribunale di Cuneo risultava accertato - seppur nell'ambito dell’accertamento di un fatto delittuoso descritto in conformità alla norma incriminatrice all'epoca vigente - un rapporto di causalità fra il fatto, qualificabile ex articolo 2621 c.c. nella formulazione ora vigente, e il dissesto della società, stante la macroscopicità delle falsità e il conseguente accumularsi delle perdite determinato dalla continuazione dell'attività d'impresa in una situazione di risalente e palese insolvenza. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l'annullamento per erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente ha sostenuto, a sostegno della richiesta di revoca della suddetta sentenza del Tribunale di Cuneo, confermata dalla Corte d'appello di Torino, che la mancata svalutazione di componenti attivi iscritti a bilancio non avrebbe mai potuto considerarsi in astratto condotta idonea a cagionare o provocare il dissesto della società, come oggi richiesto dalla nuova formulazione dell'articolo 223 della Legge Fallimentare. Tale condotta, al più, avrebbe potuto comportare un ulteriore aggravamento del dissesto, la cui origine però andava individuata nella concessione di finanziamenti a società non più affidabili. Nella ordinanza impugnata si era confuso il concetto di aggravamento del dissesto con quello di aver cagionato il dissesto commettendo illeciti societari, invece richiesto dall'articolo 223 Legge Fallimentare per l'integrazione del reato. Né erano stati indicati gli elementi di prova valutati nel procedimento di merito dai quali si sarebbe dovuto dedurre che il nuovo elemento della fattispecie era stato oggetto di accertamento anche da parte del Tribunale di Cuneo. Lo stesso capo di imputazione a suo tempo contestato aveva chiaramente specificato che trattavasi di violazioni che si inserivano in una situazione di progressiva ed irreversibile decozione che, costantemente involvendo, aveva aggravato il dissesto. Secondo il ricorrente, quindi, le condotte che avevano portato al dissesto dovevano essere individuate unicamente nella scelta da parte degli amministratori di diritto - e non dei componenti del collegio sindacale - di concedere o mantenere aperture di credito a clienti che già manifestavano dei primi segni d'insolvenza. La Corte d'appello aveva ritenuto integrato il rapporto di causalità anche dalla mera continuazione dell'attività d'impresa in presenza di una situazione di risalente e palese insolvenza, ma tale elemento non era stato accertato nel contraddittorio del giudice di merito di allora, e quindi non poteva essere ricavato da un'autonoma interpretazione del giudice dell'esecuzione. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. La giurisprudenza di questa Corte, dopo l'intervento delle Sezioni Unite del 2003, è costante nel ritenere che la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali artt. 2621 e 2622 cod. civ. e di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario articolo 223, comma 2, numero 1, R. D. 16 marzo 1942 numero 267 , ad opera rispettivamente degli articoli 1 e 4 del decreto legislativo 11 aprile 2002 numero 61, non ha comportato l'abolizione totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima dell'entrata in vigore del citato decreto legislativo, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose V. Sez. U. sentenza numero 25887 del 26.3.2003, Rv. 224605 . Ha inoltre precisato sia che il giudice dell'esecuzione, al quale sia chiesta a seguito delle modificazioni introdotte in tema di reati societari e fallimentari dalla legge 28 dicembre 2005 numero 262 disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari la revoca della sentenza di condanna per false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta impropria, ha il compito di accertare la sussistenza, con riferimento al tempus commissi delicti , degli elementi costitutivi della sopravvenuta tipologia di reato, a nulla rilevando la non intervenuta abolitio criminis per effetto delle citate modificazioni V. Sez. 1 sentenza numero 17285 del 16.4.2008, Rv. 239629 , sia che in tema di false comunicazioni sociali, al fine di verificare se i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.lgs. 11 aprile 2002 numero 61 siano sussumibili nell'attuale fattispecie criminosa di cui all'articolo 2622 cod. civ. occorre che tutti gli elementi richiesti dalla nuova disciplina siano stati contestati e abbiano formato oggetto di accertamento in contraddittorio. Ne consegue che nel giudizio di cassazione, nel quale la Corte è chiamata a decidere sulla base di un accertamento già compiuto dal giudice di merito, se i nuovi elementi non hanno formato oggetto di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-reato rientra nell'ambito dell'abolitio criminis V. Sez. 5 sentenza numero 45712 del 3.10.2003, Rv. 2269189 . La Corte d'appello, esaminando la sentenza del Tribunale di Cuneo della quale è stata chiesta la revoca ai sensi dell'articolo 673 c.p.p., ha ritenuto che fossero sussistenti e puntualmente accertati dal predetto Tribunale tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all'articolo 2621 c.c. nella formulazione attualmente vigente, e in particolare che fosse stato accertato sia il dolo del suddetto reato, vale a dire la consapevolezza di amministratori e sindaci di ingannare i risparmiatori che affidavano il proprio denaro alla suddetta società e le banche che seguitavano a profondere liquidità, mascherando con falsi bilanci e false comunicazioni sociali la profonda voragine che si era creata nei conti della società, sia il fine di ingiusto profitto perseguito dal G. e dai correi, consistito nel consentire alla FINVEST di proseguire nella sua attività con mezzi fraudolenti, sebbene non vi fossero le condizioni per richiedere ulteriore denaro ai risparmiatori e crediti alle banche. Il giudice dell'esecuzione ha anche, con adeguata motivazione, dimostrato che dalla menzionata sentenza del Tribunale di Cuneo risultava che i fatti qualificabili ex articolo 2621 c.c. nella formulazione ora vigente avevano concorso a cagionare il dissesto della società, stante la macroscopicità delle falsità e il conseguente accumularsi delle perdite determinato dalla continuazione dell'attività d'impresa in una situazione di risalente e palese insolvenza. Non è accettabile la tesi del ricorrente, sotto l'aspetto logico giuridico, che la condotta per la quale il G. era stato condannato aveva comportato solo un aggravamento del dissesto, mentre la causa dello stesso dovrebbe individuarsi unicamente nella scelta da parte degli amministratori di diritto di concedere o mantenere aperture di credito a clienti che già apparivano insolventi. La causa di un evento dipende normalmente da più condizioni, ciascuna delle quali, se necessaria al prodursi dell'evento, deve essere considerata causa dello stesso, in quanto né la norma in questione né qualsiasi altra norma del nostro ordinamento giuridico per ogni altro genere di evento richiede che la condotta dell'imputato sia causa esclusiva dell'evento. Nel caso in esame, secondo quanto risulta dalla motivazione dell'ordinanza impugnata, il fallimento si è verificato portando la società allo stato di insolvenza che è stato cagionato anche dalle false comunicazioni sociali in bilancio, poiché senza quelle false comunicazioni l'attività della società non sarebbe potuta continuare e quindi non si sarebbero potute compiere le operazioni che avevano portato al dissesto della società. La Corte d'appello ha accertato nel contraddittorio delle parti la sussistenza del rapporto di causalità tra le suddette falsità e il dissesto, poiché detto rapporto è stato ricavato dalla stessa motivazione della sentenza della quale era stata chiesta la revoca, riportando interi brani della motivazione. Alla stregua della verifica compiuta dal giudice dell'esecuzione, non poteva essere disposta la revoca della sentenza del Tribunale di Cuneo in data 11.11.1992, in quanto il G. risultava responsabile di false comunicazioni sociali che avevano contribuito a cagionare il fallimento della società. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.