Il denaro perde la caratteristica di “altruità” all’atto della corresponsione all’appaltatore

In tema di appalto pubblico di servizi, non è configurabile il delitto di peculato ma eventualmente di altre fattispecie delittuose nella condotta di indebita gestione e destinazione, da parte dell’appaltatore, di somme di provenienza pubblica, la cui ricezione costituisca il pagamento, da parte dell’appaltante soggetto pubblico, del corrispettivo per l’attività di fornitura di un servizio pattuito.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 41579, deposita l’8 ottobre 2013. Il caso. Il direttore responsabile e delegato alla gestione – affidata a una Curia arcivescovile – di un centro di accoglienza per immigrati era stato chiamato a rispondere del delitto di peculato continuato. Infatti, gli era stato contestato di aver avuto, per ragione della sua funzione, la disponibilità delle somme ricevute in virtù delle convenzioni che il Prefetto aveva stipulato con la Onlus Arcidiocesi della città, con cui lo Stato si era impegnato a finanziare con fondi pubblici l’attività di accoglienza e assistenza in favore degli immigrati clandestini. Nel corso degli anni, secondo l’accusa, l’imputato si era appropriato mediante fittizie operazioni contabili di cospicue somme, in parte trasferite su altri conti a lui intestati e nel resto corrisposte a vari soggetti o destinate a consumi personali. Secondo il giudice di primo grado, il rapporto tra la Prefettura e l’Arcidiocesi andava ricondotto a un appalto di servizi, assolvendo, così, l’imputato dall’accusa di peculato e richiamando l’attenzione della Procura della Repubblica sulla configurabilità dei fatti appropriativi commessi dall’imputato come appropriazione indebita aggravata ai danni dell’ente ecclesiastico. Invece, in accoglimento dell’impugnazione del Procuratore della Repubblica, la Corte d’Appello aveva condannato per il reato di peculato l’ex direttore, la cui condotta aveva avuto ad oggetto denaro altrui”, in quanto appartenente alla Curia arcivescovile. L’appaltatore può disporre del denaro in autonomia. Contro tale sentenza, l’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, per aver i giudici territoriali, a suo dire, erroneamente ritenuto la sua qualificazione soggettiva pubblicistica, nel momento in cui egli disponeva del denaro, già entrato nel patrimonio dell’Arcidiocesi. Per la Suprema Corte il ricorso merita accoglimento. Gli Ermellini hanno affermato che, nel caso in esame, come ben aveva ritenuto il Tribunale in primo grado, il denaro era entrato nel patrimonio della Curia arcivescovile che, a mezzo dei suoi esponenti a ciò incaricati, tra cui certamente l’imputato, poteva disporne senza render più conto all’amministrazione pubblica. Pertanto, la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 giugno - 8 ottobre 2013, n. 41579 Presidente Garribba – Relatore Ippolito Ritenuto in fatto 1. L.C. fu tratto a giudizio per rispondere del delitto di peculato continuato artt. 81 cpv. e 314 cod. pen. , in qualità di esercente la pubblica funzione di direttore responsabile e delegato alla gestione, affidata alla Curia arcivescovile di , del centro di accoglienza per immigrati Regina pacis , istituito con decreto del Ministro dell'interno il 6 febbraio 1998, ai sensi del D.M. n. 233 del 1996, art. 2, comma 2. Al L. fu contestato di avere avuto, per ragione della sua funzione, la disponibilità e la gestione delle somme ricevute in virtù delle convenzioni che il Prefetto di Lecce aveva stipulato dal 2 gennaio 1997 al 22 dicembre 1999 con la Onlus Arcidiocesi di soggetto senza fine di lucro creato proprio al fine di ricevere, gestire e destinare allo scopo previsto le somme corrisposte al centro di accoglienza . Con tali convenzioni lo Stato si era impegnato a finanziare con fondi pubblici l'attività di accoglienza ed assistenza in favore degli immigrati clandestini, corrispondendo una retta giornaliera di importo predeterminato per ogni straniero ospitato somme messe a disposizione del Centro con obbligo di destinarle unicamente allo scopo previsto e divieto di conseguire per sé o altri qualsiasi lucro. Nel periodo contemplato nel capo d'imputazione erano state accreditate sul c/c , acceso presso la filiale di della Banca BC1 già Banco Ambrosiano e cointestato al L. e all'Arcidiocesi di , complessivamente L. 11.692.099.411, di cui L. 9.414.301.800 provenienti dalla Prefettura in virtù delle citate convenzioni, e le altre somme presenti sul conto da altri soggetti, sia pubblici che privati. Nel corso degli anni l'imputato si era appropriato mediante fittizie operazioni contabili di L. 3.929.089.164 versate su di un c/c personale n. , anch'esso acceso presso la Banca 121 di Lecce, e di altre L. 3.136.170.510, in parte trasferite su altri conti a lui intestati e nel resto corrisposte a vari soggetti o destinate a consumi personali. 2. Il Tribunale ritenne dimostrata la confluenza sul conto corrente del L. e su quelli di altri soggetti delle somme indicate. Riconobbe la qualifica di incaricato di pubblico servizio assunta dall'imputato, limitatamente però all'esecuzione delle prestazioni oggetto della convenzione, con esclusione della gestione successiva delle somme residue una volta ultimate le prestazioni previste dalla convenzione. Conclusione giustificata dal rilievo che nella convenzione o in disposizioni normative non era dato rinvenire una clausola che vincolasse ad una particolare finalità il denaro corrisposto dalla Prefettura e che le somme versate non erano qualificabili come sovvenzioni, contributi o finanziamenti. Esse costituivano il corrispettivo di prestazioni già rese, come attestato dal metodo di pagamento concordato, consistente nella predeterminazione, secondo un parametro mobile collegato al numero delle presenze, di una retta fissa giornaliera per ogni straniero ospitato presso la struttura. Constatò, inoltre, il Tribunale che non era dato rinvenire nelle clausole delle convenzioni o nella legge l'obbligo di restituzione dell'avanzo di gestione e tanto meno l'obbligo di rendiconto, previsto soltanto per gli enti locali nell'ipotesi di delega ad essi dell'esecuzione degli interventi. In proposito, non fu ritenuto significativo il divieto di distribuzione di utili, in quanto l'obbligo di destinazione a scopi statutari delle somme esistenti nel patrimonio dell'ente è giuridicamente incompatibile con il possesso per ragioni di ufficio di somme altrui, tipico del contestato delitto di peculato. Secondo il giudice di primo grado, il rapporto tra l'Arcidiocesi di e la Prefettura andava ricondotto ad un appalto di servizi artt. 1655 c.c. e ss. , con la conseguenza che le somme corrisposte per il servizio reso dall'appaltatore privato entravano a pieno titolo nel patrimonio del contraente privato. A diverse conclusioni non potevano indurre i controlli della Prefettura previsti nella convenzione, dal momento che essi non implicavano un sindacato sulla gestione delle somme e erano funzionali, come tipico di un'impostazione privatistica, all'applicazione di una penale nel caso di inottemperanza alle obbligazioni assunte. In conclusione, il Tribunale, assolse l'imputato dal reato di peculato perché il fatto non sussiste, richiamando l'attenzione della Procura della Repubblica sulla configurabilità dei fatti appropriativi commessi dal L. come appropriazione indebita aggravata ai danni dell'ente ecclesiastico. 3. In accoglimento dell'impugnazione del Procuratore della Repubblica di Lecce, la Corte d'appello, con la sentenza in epigrafe indicata, ha condannato il L. per il reato di peculato alla pena di quattro anni di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici. Pur riconoscendo, alla pari del giudici di primo grado, che il rapporto instaurato tra la Prefettura e la Curia arcivescovile andava ricondotto allo schema contrattuale dell'appalto di servizi di cui all'art. 1665 c.c. e che non sussisteva alcun vincolo di destinazione alle somme erogate dalla Prefettura alla Curia, la Corte territoriale ha ritenuto che la condotta del L. è ugualmente qualificabile in termini di peculato, avendo avuto ad oggetto denaro altrui , in quanto appartenente alla Curia arcivescovile di . 4. Contro la sentenza d'appello ricorre per cassazione l'imputato, tramite il suo difensore, che deduce a erronea applicazione dell'art. 522 c.p.p., per avere la Corte territoriale ritenuto un fatto appropriazione o distrazione di denaro in assenza di qualsiasi vincolo di destinazione diverso da quello originariamente contestato appropriazione o distrazione di denaro avente destinazione pubblica e dell'art. 314 c.p. per avere i giudici erroneamente ritenuto la qualificazione soggettiva pubblicistica del L. nel momento in cui egli disponeva del denaro, già entrato nel patrimonio dell'Arcidiocesi di . Considerato in diritto 1. Premessa la ricostruzione dei fatti per come emerge dalla sentenza impugnata, il ricorso merita accoglimento, in linea con quanto questa Corte di legittimità ha recentemente affermato, in un'identica fattispecie relativa a distrazione di somme versate dallo Stato a cooperativa aggiudicataria di gara di appalto per la fornitura di beni e servizi a favore di immigrati clandestini, trattenuti presso centri di permanenza , enunciando il principio di diritto secondo cui in tema di appalto pubblico di servizi, non è configurabile il delitto di peculato ma eventualmente altre fattispecie delittuose nella condotta di indebita gestione e destinazione, da parte dell'appaltatore, di somme di provenienza pubblica, la cui ricezione costituisca il pagamento, da parte dell'appaltante soggetto pubblico, del corrispettivo per l'attività di fornitura di un servizio pattuito Cass. Sez. 6, n. 3724 del 19/12/2012, dep. 2013, Rv. 254432 . In tal caso, infatti, il denaro perde la propria caratteristica di altruità all'atto della corresponsione all'appaltatore, che ne può pertanto disporre in autonomia. 2. Nel caso in esame, come ben aveva ritenuto il Tribunale a conclusione del processo di primo grado, il denaro era entrato nel patrimonio della Curia arcivescovile di che, a mezzo dei suoi esponenti a ciò incaricati, tra cui certamente il L. , poteva disporne senza render più conto all'amministrazione pubblica. Correttamente, pertanto, il giudice di primo grado, nell'assolvere l'imputato dal delitto di peculato, evidenziò che la disposizione da parte sua del denaro appartenente alla Curia Arcivescovile poteva configurare altra ipotesi di reato, su cui richiamò l'attenzione della competente Procura della Repubblica. 3. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio per insussistenza del fatto. P.Q.M. La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.