Decisiva la valutazione qualitativa della pressione psicologica per escludere l’estorsione

La Cassazione evidenzia un’utile differenziazione tra il delitto di estorsione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità, introdotto nel sistema dalla recente legge 6 novembre 2012 n. 190, più comunemente nota come” legge anti corruzione”.

Induzione indebita a dare o promettere utilità. Con la sentenza n. 27808 depositata il 25 giugno 2013, gli Ermellini affermano che per la qualificazione del reato va valutata la qualità di pressione psicologica esercitata che, per i mezzi impiegati e il danno prospettato, ben può considerarsi non in termini di costrizione, venendo meno pertanto la configurazione del delitto di estorsione. Secondo l’orientamento consolidato della Cassazione per costrizione si deve intendere qualunque violenza morale attuata con abuso di qualità o di poteri che si risolva in una minaccia implicita o esplicita di un male ingiusto, recante lesione non patrimoniale o patrimoniale, costituita da danno emergente o da lucro cessante. Costrizione. In buona sostanza, la condotta costrittiva deve compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto che la subisce, tanto da rendergli impossibile resistere alla pretesa illecita. Al contrario, nel caso in cui il pubblico agente ponga in essere nei confronti del privato un’attività di suggestione, di persuasione, di pressione morale che, pur avvertibile come illecita non ne annienta la libertà di autodeterminazione, si integrerà il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. La tangente per mettere a posto la pratica. Nel caso di specie, due funzionari I.N.P.S., in concorso tra loro, abusando del loro ufficio, nel corso di una ispezione nei confronti di una ditta, prospettando al consulente della ditta stessa di poter sistemare” la pratica a patto di una corresponsione di 10 milioni di lire , avevano compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il consulente a dare o a promettere la somma di denaro. Da qui la dichiarazione di colpevolezza dei due imputati da parte della Corte di appello – seppur in riforma della sentenza assolutoria con formula perché il fatto non sussiste” da parte del Tribunale in primo grado – con la condanna di ciascuno a due anni di reclusione, in concorso di attenuanti generiche pena condizionalmente sospesa. Tra i motivi di ricorso per cassazione, i due imputati lamentano tra l’altro un vizio di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale in quanto nella denuncia del consulente della ditta non si rinveniva alcuna specifica condotta costrittiva a carico dei ricorrenti. Inoltre, le due impiegate – tardivamente chiamate a testimoniare, secondo la difesa – non facevano che assecondare quanto dichiarato dal loro datore di lavoro, entrando persino in contrasto con lo stesso non potendo aver percepito la presunta richiesta di tangente fatta da uno dei due imputati, dato che questa era stata fatta, secondo il consulente, riservatamente. L’attendibilità del consulente della ditta. I giudici della Suprema Corte ritengono infondati i ricorsi presentati, non ravvisando alcuno dei denunciati vizi di motivazione o di violazione di legge in vario modo prospettati dai ricorrenti. In particolare, secondo il Palazzaccio , la sentenza di appello ha ribaltato nel senso dell’affermazione di colpevolezza del giudizio assolutorio espresso dal giudice di primo grado, ma solo a seguito di un percorso argomentativo con cui sono stati valorizzati , con motivazione ampia ed immune da vizi logico-giuridici, puntuali elementi di valutazione erroneamente non considerati dal Tribunale. Con il richiamo all’attenta ricostruzione della vicenda operata dai giudici della Corte di appello, la Cassazione evidenzia l’attendibilità del consulente – vista anche la denuncia alla Guardia di Finanza sull’accaduto nonché la relazione inviata alla ditta – grazie anche ai riscontri con le dichiarazioni delle due impiegate. Pressione psicologica. Le argomentazioni – si legge nella sentenza – esaustive e perfettamente logiche, sono idonee a rendere superabili i dubbi espressi dal Tribunale in punto di dimostrazione della realizzazione della condotta antigiuridica addebitata ai due ispettori del lavoro. Tuttavia, come già visto, secondo la Cassazione risulta necessario qualificare il reato non come estorsione tentata ma come induzione indebita a dare o promettere utilità vista la qualità della pressione psicologica utilizzata sul consulente. Da qui l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena con rinvio per il giudizio sul punto alla Corte di appello territoriale.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 21 febbraio - 25 giugno 2013, n. 27808 Presidente De Roberto – Relatore Conti Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 15 luglio 2005, il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto assolveva con la formula perché il fatto non sussiste D C. e B M. dal reato loro ascritto di tentata estorsione artt. 110, 56, 317 cod. pen. per avere, in concorso tra loro, nella qualità di funzionari dell'I.N.P.S., abusando del loro ufficio, nel corso di una ispezione nei confronti della ditta Officine Meccaniche N. s.r.l., con sede in omissis , prospettando al consulente della ditta M. B. di poter sistemare la pratica a patto della corresponsione di lire 10 milioni, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il predetto a dare o a promettere tale somma di denaro in omissis . 2. A seguito di impugnazione del pubblico ministero, la Corte di appello di Messina, con la sentenza in epigrafe, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e, in concorso di attenuanti generiche, condannava ciascuno alla pena di anni due di reclusione, condizionalmente sospesa. 3. Ricorrono per cassazione i predetti imputati. 4. C. , a mezzo degli avvocati Luigi Autru Ryolo e Salvatore Sacca, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in punto di valutazione delle prove, e in particolare circa la Inattendibilità delle dichiarazioni del B. , tardive e contraddittorie, come messo in risalto dalla sentenza di primo grado in particolare, per la irrilevanza del documento relativo alla chiusura della ispezione nel omissis , peraltro mai trovato agli atti dell'INPS per l'utilizzo da parte del B. di una delega a trattare con l'INPS recante una firma apocrifica a nome del titolare delle officine N., che l'aveva disconosciuta per la tardività delle accuse del B. , che, interrogato dalla Guardia di Finanza il 26 maggio 1999, non aveva detto nulla circa la pretesa richiesta concussiva, da lui riferita solo il omissis , quasi un anno dopo . Quanto alla relazione del omissis , essa in realtà non poteva rappresentare una conclusione definitiva di una ispezione pienamente favorevole alla ditta N., posto che il successivo 26 gennaio la ditta segnalava all'INPS errori di calcolo e chiedeva di compensare gli importi da versare con crediti vantati e che il omissis il B. aveva speso con l'INPS una delega a firma apocrifa del N. . Del resto dalle testimonianze dei funzionari R B. e Gi Ma. si ricava appunto che nel XXXX l'attività ispettiva sulla ditta N. era ancora in corso, anche perché il rag. B. ritardava nel presentare la documentazione necessaria. In ogni caso non vi era alcuna prova del concorso del C. nel reato ipotizzato, contestato come commesso il OMISSIS , data nella quale si sarebbe svolto un colloquio tra M. e B. , in assenza del C. e che comunque il B. nelle dichiarazioni rese il omissis aveva precisato che la richiesta di denaro gli era stata fatta solo dal M. . Solo a distanza di quattro anni e mezzo, in dibattimento, il B. aveva dichiarato che il C. gli aveva fatto capire che era una cosa che andava fatta, che era una soluzione . Del resto, stando a tali ultime dichiarazioni del B. , non si comprendeva perché tra i due imputati fosse sorta un'accesa discussione. Quanto infine al riferimento fatto dalle due impiegate ai dieci milioni , questo poteva essere inquadrabile in un contesto del tutto diverso da quello ipotizzato dall'accusa. 5. M. , a mezzo dell'avv. Salvatore Stroscio, deduce i seguenti motivi, particolarmente articolati e diffusi, ma così opportunamente riassumibili ex art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 5.1. Violazione di legge in punto di valutazione delle prove sulla responsabilità penale. La sentenza di appello, avendo ribaltato la statuizione assolutoria contenuta nella decisione di primo grado, si è sottratta al dovere di sottoporre ad analitica critica le considerazioni esposte in quest'ultima, dando senz'altro credito alla tardiva e generica tesi del rag. B. consulente della ditta N. e non titolare della stessa, come erroneamente indicato nella imputazione ed avendo la Corte di appello disposto illegittimamente, per di più dopo essersi ritirata in camera di consiglio all'esito della discussione finale, la rinnovazione della istruzione dibattimentale senza alcuna richiesta in tal senso del Pubblico ministero appellante, e quindi in violazione del principio del contraddicono, esercitato dalla difesa sulle prove dedotte dall'accusa nel dibattimento di primo grado. 5.2. Violazione degli artt. 192, 405, 407 e 421 bis cod. proc. pen., essendo stato consentito dal G.u.p. al P.m. di assumere nuovamente le dichiarazioni di Fr Co. e M D.L. , che in precedenza erano state dichiarate inutilizzabili per superamento dei termini di indagini. In ogni caso tali dichiarazioni erano contraddittorie e inattendibili, come desumibile dalla ricostruzione dei fatti che si espone dettagliatamente nel ricorso dato l'esito assolutorio della sentenza di primo grado . In realtà la Corte di appello si è limitata a dare ascolto alle sole dichiarazioni del B. , confermate dalle compiacenti e comunque inutilizzabili dichiarazioni delle dipendenti Co. e D.L. , ma incrinate da quelle dei fratelli N. . 5.3. Vizio di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità penale nella denuncia presentata dal B. non si rinviene alcuna specifica condotta concussiva a carico degli odierni ricorrenti le tardive dichiarazioni delle testi Co. e D.L. , oltre che inutilizzabili per quanto già detto, assecondavano tardivamente le dichiarazioni del loro datore di lavoro, e comunque erano in contrasto tra loro. Inoltre le due testi non potevano avere percepito la presunta richiesta della tangente di lire dieci milioni fatta dal M. , dato che questa, secondo il B. , era stata fatta riservatamente. 6. Gli avvocati Luigi Autru Ryolo e Salvatore Sacca, nell'interesse del C., hanno depositato memoria, con la quale insistono per l'annullamento della sentenza impugnata, riepilogando e ulteriormente specificando le censure proposte. 7. L'avv. Salvatore Stroscio, nell'interesse del M. , con atto depositato in data 13 giugno 2012, ha presentato motivi aggiunti, con i quali si denuncia la nullità del decreto di citazione a giudizio in appello, per violazione degli artt. 178, 179, 593 e 603, comma 2, cod. proc. pen., in relazione all'art. 529 dello stesso codice e agli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, osservando che Tatto di appello del pubblico ministero era stato proposto in data 28 novembre 2005 e che, subentrata la legge predetta, l'appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile né poteva disporsi la tramutazione dell'atto di appello in ricorso per cassazione perché il reato era da ritenersi estinto per prescrizione alla data del 25 gennaio 2007. D'altro canto, la sentenza della Corte cost. che ha dichiarato la incostituzionalità della legge n. 46 del 2006 nella parte relativa alla previsione della inappellabilità delle sentenze assolutorie era stata emessa solo in data 6 febbraio 2007, e non poteva quindi sanare retroattivamente l'inammissibilità della impugnazione. Considerato in diritto 1. Ad avviso della Corte i ricorsi sono infondati. 2. Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilità dell'appello del P.m., dedotta con i motivi aggiunti depositati dall'avv. Salvatore Stroscio, nell'interesse di M. . Tale eccezione appare manifestamente infondata. Correttamente, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 26 del 2007, dichiarativa, in parte qua, della incostituzionalità dell'art. 593 cod. proc. pen., come modificato in senso preclusivo all'appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero nel presente procedimento si è dato ingresso all'appello del pubblico ministero. Come infatti osservato da Sez. 6, n. 10887 del 11/10/2012, dep. 2013, Alfiero, Rv. 254784, in fattispecie processuale del tutto analoga a quella qui considerata, il giudice di appello che, investito d'impugnazione del p.m. avverso sentenza di assoluzione, non ne abbia ancora pronunciato l'inammissibilità ai sensi della legge n. 46 del 2006, legittimamente decide su di essa, anche se il gravame sia stato proposto nella vigenza di tale legge, a seguito del sopravvenire della sentenza n. 26 del 2007 della Corte cost., dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude il potere del p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento [ .], attesa l'efficacia ex tunc delle pronunce di annullamento”. Tutto ciò tenendo presente quanto osservato da Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236535, secondo cui la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia erga omnes - con l'effetto che il giudice ha l'obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica - e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell'annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente”. Quanto all'assunto incidentale del ricorrente secondo cui l'impugnazione del p.m. era radicalmente inammissibile stante la già intervenuta estinzione del reato per prescrizione, esso, a parte ogni considerazione sul merito della deduzione, appare del tutto superato dalla sentenza Sez. U, n. 15933 del 24/11/2011, dep. 2012, Rancan, Rv. 252012, secondo cui ai fini dell'operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall'esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli” decisione proprio in vista della quale il presente ricorso aveva subito più volte differimenti di trattazione. È poi il caso di notare che, essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata in data 15 luglio 2005, e quindi precedentemente alla entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nel caso in esame si rende applicabile, a norma dell'art. 10 della medesima legge, la previgente disciplina in tema di termini di prescrizione del reato recata dagli artt. 157 e 160 cod. pen 3. Nel merito, non si ravvisa alcuno dei denunciati vizi di motivazione o di violazione di legge in vario modo prospettati dai ricorrenti. 4. Con la sentenza di appello si è ribaltato nel senso dell'affermazione della colpevolezza il giudizio assolutorio espresso dal giudice di primo grado ma ciò a seguito di un percorso argomentativo con cui sono stati valorizzati, con motivazione ampia e immune da vizi logico-giuridici, puntuali elementi di valutazione erroneamente non considerati dal Tribunale. 5. Ha invero osservato la Corte di appello che la responsabilità degli imputati si ricavava essenzialmente dalle dichiarazioni della persona offesa M B. , che tutelava professionalmente la ditta Officine Meccaniche N., giudicate attendibili, confortate da quelle delle sue dipendenti M D.L. e C.F. , nonché da riscontri anche documentali, quale la relazione ispettiva redatta dagli imputati circa un anno prima dei fatti, in cui si evidenziava che non erano state accertate irregolarità contributive. Più precisamente, il B. aveva dichiarato che la ispezione dei funzionari relativa alla ditta Officine Meccaniche N., da lui assistita, si era chiusa con esito favorevole il OMISSIS , come comunicatogli dal C. che tuttavia il OMISSIS i due imputati, recatisi presso il suo studio, gli avevano richiesto una decina di milioni di lire per aggiustare le emergenze finali della ispezione che i medesimi avevano evidenziato irregolarità a carico dell'azienda per circa 158 milioni di lire che a tal punto egli si era adirato manifestando l'intenzione di chiamare i Carabinieri circostanza che aveva formato oggetto di una relazione fatta dal B. alla ditta N. che a fronte di questa reazione i due funzionari lo avevano rabbonito, dicendogli che avrebbero rivisto i conteggi per cercare di mettere a posto la situazione. La relazione ampiamente liberatoria circa la ispezione conclusasi nel gennaio 1998 era stata acquisita agli atti. La richiesta di denaro fatta dai due ispettori del lavoro era stata riferita dal B. al comandante della Compagnia di Milazzo della Guardia di Finanza, Col. G.A D. , come da quest'ultimo dichiarato. Sull'incontro tra i due funzionari e il B. nello studio di quest'ultimo il OMISSIS erano state sentite le due segretarie, M D.L. e F C. , che avevano concordemente riferito di avere udito, trovandosi nello studio, composto da un unico ambiente, uno dei funzionari e precisamente il M. fare riferimento alla somma di dieci milioni e subito dopo il B. gridare, manifestando l'intenzione di chiamare i Carabinieri proposito che però non era stato attuato essendo stato il B. rabbonito dagli altri due. 6. A fronte di tali dati gli argomenti evidenziati dalla difesa si rivelavano congetturali e comunque inidonei a smentire la portata delle prove d'accusa. 7. Occorre in primo luogo rilevare che appare manifestamente infondata l'eccezione proposta dal ricorrente M. circa la utilizzazione delle dichiarazioni rese dopo il superamento del termine delle indagini dalle testi Fr Co. e D.L.M. , posto che le stesse sono state poi assunte in dibattimento. 8. Va poi nel merito osservato che costituisce solo un elemento accessorio di valutazione stabilire se gli accertamenti eseguiti dai due ispettori nell' OMISSIS si fossero conclusi definitivamente, o meno, con una relazione attestante l'assenza di irregolarità contributive. Il cuore della contestazione sta infatti nella iniziativa estorsiva che, in tesi accusatola, i due imputati avrebbero posto in essere il OMISSIS nello studio del commercialista B. , quando essi avrebbero preteso, per porre fino ad ogni ulteriore procedura riguardante aspetti contributivi interessanti la ditta N., la corresponsione di dieci milioni di lire. Più esattamente, secondo l'accusa, una prima prospettazione di accomodamento delle pretese irregolarità contributive sarebbe stata avanzata dal solo M. il OMISSIS , quando egli, nell'ufficio del B. , avrebbe rappresentato a quest'ultimo che la questione avrebbe potuto essere definita con la corresponsione di una tangente di lire dieci milioni e solo in un secondo momento, essendo stato dal M. suggerito il coinvolgimento nella trattativa dell'altro ispettore C. , tale richiesta sarebbe stata reiterata, sempre nello studio del B. , il successivo OMISSIS , sia dal M. sia dal C. . Il Tribunale ha dubitato della veridicità del racconto del B. , osservando che esso si basava esclusivamente sulle sue dichiarazioni, ritenute inaffidabili, considerato anche che le due impiegate dello studio B. , Fr Co. e M D.L. , avevano solo riferito, essendo presenti nel locale attiguo a quello dove si stava svolgendo l'incontro tra il B. e i due ispettori, di avere sentito pronunciare da uno dei due ispettori la frase dieci milioni e subito dopo avere udito il B. dire dieci milioni! chiamate i carabinieri! circostanza che non escludeva che il riferimento ai dieci milioni fatto dai due funzionari fosse riferibile non a una richiesta di tangente ma a quanto ancora dovuto a titolo di oneri contributivi e accessori dalla ditta N In senso contrario, la Corte di appello ha osservato, in primo luogo, che le dichiarazioni del B. apparivano dotate di una intrinseca attendibilità, dal momento che egli, considerata la sua professione, aveva evidenti motivi per non porsi in urto, per di più con denunce calunniose, con funzionari dell'Ispettorato del lavoro con cui aveva frequenti contatti e considerato che egli, dopo una certa comprensibile ritrosia ad accusare gli ispettori, si era risolto a parlarne con il col. G D. , della Guardia di Finanza di Milazzo, come da quest'ultimo riferito, nonché a inviare una relazione sull'accaduto alla ditta N In secondo luogo, nella sentenza impugnata si sottolinea, ma solo come elemento ulteriore di valutazione, che, diversamente da quanto dedotto dagli imputati, la relazione ispettiva redatta oltre che dal C. dall'ispettore Ma. presso la ditta N. si era formalmente conclusa in senso ampiamente liberatorio sicché la successiva iniziativa del M. e del C. di riprendere i contatti con il B. , a proposito di una pratica definitivamente archiviata, con la prospettazione di una riapertura della stessa per presunte irregolarità postumamente emerse, non poteva che inquadrarsi nell'ambito di intendimenti di natura estorsiva. In terzo luogo, la Corte di appello osserva che il racconto del B. ha ricevuto un preciso riscontro dalle due dipendenti presenti nel suo studio al momento della visita del M. e del C. il OMISSIS entrambe le segretarie D.L.M. e Fr Co. hanno riferito di avere nettamente udito essendo lo studio composto da un unico ambiente il M. pronunciare le parole dieci milioni e subito dopo il B. gridare di andare a chiamare i carabinieri mentre i due ispettori tentavano di rabbonirlo. Ancora, sotto il piano logico, nella sentenza impugnata si osserva che la tesi difensiva secondo cui sarebbe stato il B. a cercare un accomodamento per sanare le irregolarità riscontrate a seguito della ispezione era incompatibile sia con la indifferenza che nel corso dell'incontro i due avrebbero mostrato rispetto a una simile illegittima - e penalmente rilevante - pretesa sia con la indignata reazione del B. che aveva manifestato attraverso il proposito di fare intervenire i carabinieri. Infine, ad avviso della Corte di appello, non avevano alcun rilievo sia una richiesta di compensazione con crediti precedenti presentata dal B. in data di molto antecedente ai fatti di causa sia il disconoscimento da parte del titolare della ditta N. di una delega a favore del B. per la ricezione di atti a tale ditta riferibili. 9. Tali argomentazioni, esaustive e perfettamente logiche, sono idonee, ad avviso della Corte, a rendere superabili i dubbi espressi dal Tribunale in punto di dimostrazione della realizzazione della condotta antigiuridica addebitata agli imputati. Essa va tuttavia qualificata ai sensi della recentemente introdotta fattispecie di Induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319-quater cod. pen. nella forma tentata , atteso che la pressione psicologica usata nei confronti del B. non può essere all'evidenza considerata in termini di costrizione , sia per i mezzi impiegati sia per il danno prospettato. 10. Così riqualificata l'imputazione, la sentenza impugnata va quindi annullata limitatamente alla misura della pena, con rinvio sul punto alla Corte di appello di Reggio Calabria. I ricorrenti vanno condannati a rimborsare alla parte civile B.M. le spese del grado che, in relazione all'impegno difensivo dispiegato, si liquidano in Euro 4.000, oltre IVA e CPA. P.Q.M. Qualificata l'Imputazione ai sensi degli artt. 56 e 319-quater cod. pen., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena e rinvia per il giudizio sul punto alla Corte di appello di Reggio Calabria. Rigetta nel resto i ricorsi. Condanna i ricorrenti a rimborsare in solido alla parte civile B.M. le spese del grado che liquida in complessivi Euro 4.000, oltre IVA e CPA.