Sindaco marionetta? Nessuna critica politica, è diffamazione. Ancor più grave nei confronti di una donna...

Confermata la condanna nei confronti di un consigliere comunale che aveva definito marionetta il primo cittadino del paese. Secondo i giudici, il carattere negativo del termine utilizzato, che sottintende mancanza di autonomia e di libertà, è reso ancor più grave dal fatto che sia indirizzato contro una donna all’interno di un contesto, quello politico, notoriamente maschilista.

Esponente politico? Piuttosto una marionetta, ossia pedina mossa da un preciso gruppo di potere. Definizione da catalogare come critica ammissibile, anche se estrema? Assolutamente no. Perché è evidente il carattere diffamatorio, reso ancora più grave dalla circostanza che ad essere additata così sia una donna impegnata nell’amministrazione della ‘cosa pubblica’ e quindi costretta a confrontarsi con un contesto maschilista Cassazione, sentenza numero 49776, Quinta Sezione Penale, depositata oggi . A colpi di manifesto Ring metaforico, in questa vicenda, le mura di un piccolo paese, mura che ospitano, in un rapido ‘botta e risposta’, i manifesti dei principali gruppi politici, ossia quello che governa il Municipio e quello che, in Consiglio, occupa gli scranni dell’opposizione. Battaglia senza esclusione di colpi, con richiami a procedimenti penali e presunte irregolarità amministrative et similia . Ma esiste pur sempre una linea, per quanto sottile, da non valicare E questa linea, secondo i giudici – di primo e di secondo grado –, viene superata quando un consigliere comunale definisce il sindaco, una donna, marionetta , sempre utilizzando come mezzo di comunicazione alcuni manifesti ‘piazzati’ in tutto il paese. Questo è evidentemente troppo e difatti il consigliere comunale si ritrova condannato per diffamazione e sanzionato con una multa di 600 euro. Politici maschilisti. Completamente diversa l’ottica utilizzata dal consigliere comunale, che, proponendo ricorso in Cassazione, auspica una lettura più politica della vicenda. A suo avviso, come evidenzia il legale, il documento ‘incriminato’ era semplicemente una risposta a un precedente manifesto fatto pubblicare dal sindaco, e andava catalogato come intervento nella polemica politica instaurata dal primo cittadino con il manifesto di censura all’ex sindaco, contenente ingiuste accuse di scorrettezza amministrativa e politica . All’interno di questo quadro, sostiene infine il consigliere comunale, il termine utilizzato, marionetta, va interpretato come modalità espressiva formalmente contenuta e diretta non alla persona ma alla pubblica funzione . Però i giudici di Cassazione ritengono, innanzitutto, che nessun fatto ingiusto è addebitabile alla persona del sindaco, che ha inteso informare la collettività sulla irregolare gestione del potere pubblico da parte della precedente amministrazione comunale. Di conseguenza, va esclusa l’ipotesi della provocazione e dello stato d’ira . Per questo, ciò che conta davvero è il peso da attribuire alla definizione utilizzata dal consigliere comunale nei confronti del sindaco ebbene, secondo i giudici della Cassazione, è evidente il carattere diffamatorio del contenuto del volantino nella parte in cui il sindaco è stata definita una marionetta . È evidente, si tratta di un termine che attribuisce assenza di personalità, soggezione al volere e alle strategie operative di altre persone, ruolo di acritico strumento di diffusione e di realizzazione di idee altrui . E tale connotazione negativa, ossia l’attribuzione di incapacità di intendere e di volere in maniera libera ed autonoma , sottolineano i giudici – che confermano la condanna emessa in secondo grado –, si carica intrinsecamente, nell’attuale condizione culturale del Paese, di una ancora maggiore efficacia diffamatoria, in quanto diretta contro un soggetto di sesso femminile, impegnato nel mondo politico, in un ambiente cioè notoriamente egemonizzato dagli uomo e conseguentemente non benevolo, se non addirittura ostile, nei confronti delle donne .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 11 luglio – 21 dicembre 2012, n. 49776 Presidente Zecca – Relatore Bevere Fatto e diritto Con sentenza 25.10.2011, la corte di appello di Catania ha confermato la sentenza 28.5.08 del tribunale di Catania, con la quale L.P.M. è stato condannato, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti, alla pena di Euro 600 di multa, perché riconosciuto colpevole del reato di diffamazione, per aver affisso e distribuito volantini, in data 16.11.04, ritenuti lesivi della reputazione di L.P. ha presentato ricorso per i seguenti motivi 1. vizio di motivazione l’imputato, consigliere comunale e segretario del partito del precedente sindaco D.G. e dei componenti della precedente giunta comunale, aveva diffuso il volantino in risposta al manifesto, fatto affiggere dal sindaco C., a spese del comune, e contenente ingiuste censure sulla correttezza del comportamento del D.G. e della giunta da lui presieduta. La corte non ha riconosciuto che si è trattato di una manifestazione di critica politica, sia in relazione al contenuto del manifesto di censura contro la precedente amministrazione comunale, sia in relazione all’illegale impiego di pubbliche risorse finanziarie, spese per far fronte al costo di stampa e di affissione delle copie. Il sostantivo ‘‘marionetta’’, utilizzato nella critica alla C., era finalizzato a mettere in risalto la pubblica recita, inscenata dal sindaco, che, con il precedente manifesto, aveva diffuso la notizia del rinvio a giudizio del D.G. e dei componenti della giunta, in ordine a un reato da cui erano poi stati assolti. Questo termine rientra pienamente in modalità espressiva formalmente contenuta e diretta non alla persona, ma alla pubblica funzione della C. 2. violazione di legge, in riferimento all’art. 599 cp. nell’atto di appello è stato chiesto il riconoscimento dell’esimente della provocazione, ex art. 599 co. 2 cp, per aver agito L.P. nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui, in danno di persona diversa l’ex sindaco D.G. . La Corte di appello ha erroneamente rigettato la richiesta di concessione dell’attenuante ex art. 62 n. 2 c.p. Nella sentenza quindi non è stato riconosciuto che il L.P., come cittadino, come consigliere comunale nonché come segretario del medesimo partito di D.G., era legittimato a intervenire nella polemica politica, instaurata dalla C. con il manifesto di censura dell’ex sindaco, contenente ingiuste accuse di scorrettezza amministrativa e politica e per di più costituente causa di spreco di denaro pubblico. Il ricorso non merita accoglimento. Correttamente i giudici di merito hanno affermato il carattere diffamatorio del contenuto del volantino, nella parte in cui la C. è stata definita ‘‘marionetta’’, utilizzando un termine che comunemente attribuisce alla persona, destinataria di tale qualifica, l’assenza di personalità, la soggezione al volere e alle strategie operative di altra o altre persone, il ruolo di acritico strumento di diffusione e di realizzazione di idee altrui. L’attribuzione alla persona offesa di incapacità di intendere e di volere in maniera libera ed autonoma, si carica intrinsecamente, nell’attuale condizione culturale del nostro Paese, di una ancor maggiore efficacia diffamatoria, in quanto diretta contro un soggetto di sesso femminile, impegnato nel mondo politico, in un ambiente cioè notoriamente egemonizzato - nonostante moderni e civili principi costituzionali - dagli uomini e, conseguentemente, non benevolo, se non addirittura ostile nei confronti delle donne. Nessun fatto ingiusto è poi addebitabile alla C., la quale, nella posizione di vertice dell’amministrazione comunale, succeduta a quella diretta dal D.G. e dai compagni di partito, ha inteso informare la collettività sulla irregolare gestione del potere pubblico, da parte di questi ultimi. Correttamente, quindi, sono state investite dalla C., in questa legittima e doverosa opera di informazione, risorse finanziarie del comune. L’esito positivo per i pubblici amministratori del processo penale, non è, d’altro canto, sicuramente idoneo a dimostrare la piena regolarità dell’azione di governo della giunta precedente e quindi la strumentalizzazione della notizia sul processo, a fini di propaganda politica, da parte dell’opposto schieramento. La sentenza di proscioglimento ha naturalmente avuto come unico e limitato presupposto il mancato accertamento di violazioni di norme penali, lasciando impregiudicata la valutazione sul rispetto delle altre norme amministrative e deontologiche che comunque vincolavano l’azione della giunta D.G. Il ricorso va quindi rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.