Prospettare un decreto ingiuntivo può essere reato

Prospettare un decreto ingiuntivo al fine di ottenere somme di danaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute è male ingiusto ai fini dell’estorsione.

Con la decisione in commento la Corte di Cassazione, con rara schiettezza, ha preso posizione sulla possibilità che la minaccia di agire in giudizio costituisca un male ingiusto per integrare il reato di estorsione. Si è, infatti, enunciata la seguente inequivocabile massima integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l’agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto . Tale affermazione non è nuova nella giurisprudenza di legittimità, ma proprio in ragione della ripetitività e della frequenza dell’assunto e delle possibili ricadute che il tutto può avere sulla posizione dei collaboratori del creditore apparente” ed in particolare degli avvocati, che certo oggi non godono della massima stima e considerazione normativa, è indispensabile un approfondimento non di puro stile. Il caso. La vicenda è assai chiara, anche per le dichiarazioni confessorie dell’imputato questi avrebbe palesemente emesso fatture false o comunque gonfiate” nell’importo e avrebbe chiesto ad un proprio professionista di inviare una serie di messe in mora per sollecitare ai diversi malcapitati il pagamento dell’indebito, con la prospettazione che, in mancanza di spontaneo adempimento, si sarebbe proceduto secondo legge ovvero esperendo la procedura ingiuntiva. Secondo la difesa si sarebbe trattato al più di una truffa ad avviso della Corte, invece, il tutto doveva e deve essere qualificato come estorsione, poiché il reo non si era limitato alla semplice fatturazione non veritiera o a sollecitare un pagamento, ma avrebbe minacciato” ingiustamente di agire giudizialmente. Minacciare di esercitare un proprio diritto può essere considerato atto illecito? È noto come da molto tempo si discuta se la minaccia di agire in giudizio possa, ed in che termini, essere considerata ingiusta ai fini dell’ordinamento giuridico. Il potere d’azione, infatti, è un diritto fondamentale e minacciare di esercitare un proprio diritto non può essere considerato un atto illecito, poiché la condotta è inequivocabilmente ammessa e tollerata. Tuttavia, è pur vero che l’azione giudiziaria ha natura strumentale rispetto ad una determinata posizione giuridica, sicché se non si riconnette ad un interesse sostanziale, essa appare del tutto fuori luogo. Assai in voga è, in questa prospettiva, la tesi dell’abuso del diritto, che è un concetto vago nei suoi confini ma assai chiaro nei suoi presupposti esso muove dalla constatazione che non ogni richiesta è di per sé valida e che, al di là di ogni ragionevole opinabilità, domande pretestuose, id est certamente infondate, non possono considerarsi come legalmente tutelabili, poiché la ratio del processo è pur sempre quella di garantire una copertura giurisdizionale a situazioni di fatto esistenti e, se queste mancano del tutto, viene meno ogni esigenza di protezione. La sentenza in questione muove da queste considerazioni preliminari. In motivazione, infatti, si legge chiaramente che l’esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia tuttavia se l’esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l’iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante . Da questa angolazione, la posizione del soggetto passivo sarebbe sostanzialmente irrilevante, poiché la possibilità di difendersi in giudizio altro non sarebbe che una reazione ad un male, che si è già concretizzato la vocatio in iudicium . Il tutto ovviamente presuppone l’abbandono dell’idea secondo cui il processo sia la sede in cui le ragioni della parte trovino necessariamente una tutela , posto che tale concezione del processo confligge con le concrete dinamiche processuali che possono rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria – secondo il vecchio brocardo habent sua sidera lites – oltre al fatto, di comune esperienza, che il processo di per sé, come intuì un grande giurista, costituisce una pena e, quindi, un danno sia in termini economici che si stress emotivo così nella motivazione in diritto . Date queste premesse, la Suprema Corte non poteva che respingere il ricorso. Critiche alla decisione. Letta e riletta la decisione de qua , spaventa e non poco la disinvoltura con la quale talune affermazioni di principio siano state estrapolate dal contesto di riferimento e siano state utilizzate per annientare la ragione prima del processo. Tanto il Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato” quanto il Carnelutti nelle sue Lezioni sul processo penale” che sono forse i due” famosi giuristi, che hanno usato l’espressione da ultimo evocata dalla Corte certamente sapevano che il giudizio, in specie penale, è atto di soggezione dell’imputato e proprio per questo, seppur a diverso titolo, hanno stimolato riforme processuali protese ad evitare arbitri giudiziali e soprattutto a garantire l’effettività della difesa nell’ottica di una ragionevole durata della procedura. Il male connesso al processo criminale” è un male che è ineliminabile ove si voglia garantire il monopolio della forza statale ed il principio nulla poena sine iudicio il tutto sta nel rinvenire l’indicazione delle sue forme migliori e nell’impedire proprio che il procedere legalmente definito scada a pura farsa, non dovendosi mai permettere che si giudichi a seconda degli umori del momento. Nello stesso modo, per impedire una giustizia fai da te dei cittadini, non può non garantirsi al privato il diritto di adire la giurisdizione civile e di avvalersi di pubblici ufficiali nell’atto espropriativo. Stando così le cose, è davvero improprio giustificare la sussistenza del reato di estorsione facendo leva, come nel caso di specie, sulle disfunzioni ed ipocrisie” del processo e, dunque, sui suoi soli lati negativi, dimenticando l’altissimo valore che invece deve sempre pervadere, almeno in linea di principio, ogni atto del giudicare. Se così non fosse, si rischierebbe di vanificare ogni discorso processuale e di limitare oltre misura il diritto di difesa anche sub specie del diritto d’azione o di denuncia. Nello stesso modo, per quanto possa essere arbitrario il giudizio di merito a cognizione piena, è pur vero che esso non può non avere un qualche valore ed il suo contenuto non può essere a priori definito, sicché la pretestuosità dell’azione o della denuncia è certamente prospettabile, ma per lo più solo a posteriori. Non si può allora configurare la minaccia di agire in giudizio sulla scorta di una svalutazione indebita del processo, poiché il tutto deve evidentemente trovare un riferimento più adeguato e, si permetta il rilievo, più oggettivo. Da questo punto di vista, quel che vale è proprio il dato fattuale sulla scorta del quale si minaccia l’azione legale e l’esito, che sia conseguito da tale minaccia”, tenendo sempre presente che il male prospettato deve pur sempre dipendere dalla volontà del soggetto agente. Se non vi è stata azione giudiziaria, delle due l’una o si è trovata un’intesa o il tutto non ha avuto seguito. Nel primo caso, non sempre la pretesa” illegittima può considerarsi una minaccia ai fini dell’estorsione, poiché spesse volte, come insegna la stessa esperienza commerciale, si avanzano richieste risarcitorie esorbitanti” non già per ottenere l’indebito, ma per poter in qualche modo ottenere il giusto dal debitore recalcitrante o, per meglio dire, fortemente inadempiente. Sicché, in quest’ambito, quel che vale è l’oggettiva considerazione dell’intera condotta e del contesto. Nel secondo caso, vi possono essere ipotesi nelle quali si mira ad ottenere vantaggi ingiusti il tutto sta nel valutare la serietà della minaccia e la sua idoneità in concreto di intimidire la persona offesa. Anche qui, dunque, non si possono fare equiparazioni facili, dovendosi scrupolosamente procedere caso per caso e con giudizio accorto ed alla luce dei principi in tema di delitto tentato. Se poi, dopo la minaccia, in effetti si agisce giudizialmente, sempre che il giudizio non si estingua per inattività, non si può che prendere in considerazione la sentenza e l’eventuale sua censura in sede di gravame. Pure in dette circostanze vi possono essere situazioni pretestuose, ma il profitto ingiusto non può essere connesso al fatto che la controparte deve sostenere, sino alla liquidazione delle spese, i propri costi legali o essere comunque assoggettato al rapporto processuale, poiché tali conseguenze derivano dalla legge e soprattutto non recano alcun effettivo vantaggio al reo”, posto che, in detta situazione, il vantaggio in questione sarebbe quello di ottenere il pagamento di un credito inesistente. D’altra parte, se è vero che la vittima della illegittima richiesta di pagamento non ha colpa nel subire una simile minaccia ingiusta, è pur vero che è la legge civile che le impone, per far valere le proprie ragioni, di prendere specifica posizione sopra le allegazioni di parte e, nel caso del decreto ingiuntivo, di opporsi nei modi e termini di legge, difendendosi – salvo casi eccezionali – a mezzo di avvocato. Conclusioni. Da quanto sopra consegue che, al di là di mere affermazioni di principio, è assai raro – almeno guardando alle statistiche di ieri – il caso in cui si possa prospettare una situazione tale da ricadere certamente nell’ambito della fattispecie estorsiva il caso, invero, in cui tale discorso può essere avanzato è quello in cui vi è la prova pacifica dell’inesistenza del credito come nel caso di specie e, ciò nonostante, vi sia una situazione giuridica di effettivo pericolo di ottenere un provvedimento giudiziale vantaggioso per il creditore abusivo” per via dei documenti o attestazioni dallo stesso artefatti. Ma un tale pericolo non può che sussistere ragionevolmente solo nel caso in cui vi sia una procedura, che ammetta una formazione unilaterale della prova, ed una decisione, che fisiologicamente possa essere pronunciata in assenza di contraddittorio il riferimento alla procedura monitoria è di tutta evidenza, ancorché non necessariamente esclusivo si pensi, per esempio, al caso del sequestro probatorio richiesto con denuncia penale o ai provvedimenti cautelari inaudita altera parte . Ciò spiega perché si possa condividere la conclusione specifica cui è giunta la Cassazione trattandosi nella fattispecie proprio di minaccia di decreti ingiuntivi” , ma anche perché – data la particolarità del caso – non può darsi a tale pronuncia una valenza generale, come invece pare si voglia dare nella massima più sopra riportata. Il male, infatti, minacciato non è l’azione in sé, ma l’ottenimento di un provvedimento che riconosca, seppur provvisoriamente o parzialmente, un diritto inesistente, che per legge può normalmente” fondarsi sulla base delle prove predisposte da una sola parte e che per ciò stesso, in effetti, dipende dalla volontà del minacciante o, per meglio dire, dalla sua affidabilità in concreto. D’altra parte, se così non fosse, a fronte di una qualunque richiesta di adempiere, che importi anche solo l’implicita minaccia” di adire le vie legali, per frenare ogni iniziativa, specie se legittima ma sfornita di prova documentale inequivocabile, basterebbe prospettare una possibile denuncia magari a posteriori per tentata estorsione ove risulti l’infondatezza anche solo parziale della pretesa ben si comprende che in tal modo, oltre a crearsi un circolo vizioso, si verserebbe in un totale caos ed in una disgregazione del sistema processuale, tramite distorsioni delle regole procedurali e specialmente di quelle attinenti al principio di disponibilità della prova, alle limitazioni probatorie civili e alle presunzioni legali anche non assolute. E’ altrettanto ovvio, però, che proprio nel caso dei provvedimenti invocabili sugli atti e le allegazioni unilaterali di parte, un ruolo fondamentale è assunto dall’avvocato, il quale – per esempio – non sempre può limitarsi a prendere atto di una situazione creditoria formale e certificata” da estratti delle scritture contabili, posto che in taluni casi la singolarità e peculiarità del caso devono indurlo ad andare in maggiore profondità, come quando si richiedono cifre esorbitanti a più soggetti per atti o fatti compiuti anni prima e mai sollecitati in precedenza. In tempi di crisi economica, non può limitarsi il diritto d’azione oltre misura, specie nei confronti di debitori, che si approfittano di una oggettiva complessità e farraginosità normativa o della fiducia altrui, ma è pur vero che si devono impedire speculazioni indebite e abusi specie se attuati contro i più deboli. Di fronte a tale complessa situazione non è facile trovare formule magiche, anche perché, in fondo, non si tratta di cabala o di alchimia. Tuttavia, benché allo stato non si possa, specie con legislazione d’urgenza, intervenire efficacemente sulla cupidigia altrui, né sull’economia o sulla struttura del processo, forse la migliore medicina è data da una ricetta piuttosto semplice ma preziosa poiché antica, ancorché sempre più bistrattata far leva sulla vera professionalità.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 29 novembre – 17 dicembre 2012, n. 48733 Presidente Cosentino – Relatore Rago Fatto 1. Con ordinanza del 09/07/2012, il Tribunale del Riesame di Genova confermava l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. di Sanremo in data 12/06/2012, nei confronti di P.A. , titolare dell'impresa familiare P.A. Piccole Manutenzioni , per i reati di estorsione e tentata estorsione. I fatti per i quali il ricorrente risulta indagato sono i seguenti. Il prevenuto, dopo aver emesso false fatture recanti l'indicazione della realizzazione di lavori di manutenzione-pulizia per nulla o solo in minima parte effettuati, si recava presso studi legali ove prospettava il proprio intendimento di ottenere il pagamento delle fatture, così inducendo il professionista ad inviare all'apparente debitore una lettera raccomandata con la quale veniva richiesto il pagamento dell'importo indicato nel falso documento con la prospettazione, in caso di mancato pagamento, di procedere secondo legge o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero richiedendo l'emissione di decreto ingiuntivo. Le descritte condotte, in un caso, andarono a buon fine in quanto una vittima, a titolo di transazione, corrispose somme non dovute, mentre, in altri casi, si arrestarono a livello di tentativo perché le persone alle quali era stato richiesto il pagamento delle somme non dovute rifiutarono di pagare e si rivolsero alle Forze dell'Ordine ovvero si opposero al decreto ingiuntivo. 2. Avverso la suddetta ordinanza, il prevenuto, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo l'ERRONEA APPLICAZIONE DELL'ART. 629 COD. PEN. Il ricorrente ritiene che nessuna delle attività da lui compiute integrerebbero il reato di estorsione, non essendovi stata alcuna minaccia volta alla coartazione delle persone alle quali richiedeva del denaro non dovuto. Secondo il P. - diversamente da quanto sostenuto sia dal G.I.P. che dal Tribunale del Riesame - la prospettazione da parte di un legale di un procedimento secondo legge o la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo non costituirebbero una minaccia tale da integrare gli estremi dei reati di estorsione o di tentata estorsione contestatigli infatti, la minaccia ed il danno paventato alle persone offese non potrebbero dirsi ingiusti e idonei ad ingenerare nelle stesse alcun timore, in quanto il soggetto passivo, se consapevole dell'infondatezza e dell'ingiustizia delle pretese, non potrebbe essere intimidito dalla mera intenzione, esplicitata da un legale, di agire in giudizio, ben potendo resistere nell'eventuale giudizio civile nel quale avrebbe potuto dimostrare l'illegittimità della pretesa creditoria. Il ricorrente, infine, conclude che, a tutto concedere, le proprie condotte andrebbero inquadrate sotto la fattispecie dell'art. 56 e 640 cod. pen. Diritto 1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate. 2. In via di fatto, dall'impugnata ordinanza, risulta che il P. ha, in pratica, ammesso sostanzialmente l'addebito, avendo dichiarato che ho fatto qualche piccolo lavoro presso le persone offese tuttavia ho di molto aumentato le fatture, anche aggiungendo lavori che non avevo mai fatto e questo per ottenere qualcosa di più ” cfr. pag. 7 infatti, il ricorso non è tanto incentrato su questioni di fatto quanto su una questione di diritto e cioè sulla configurabilità del contestato delitto di estorsione. Pertanto, la questione di diritto che il ricorrente ha sottoposto a questa Corte di legittimità può essere così enunciata se la prospettazione ad apparenti debitori - in caso di mancato pagamento dell'importo richiesto ed indicato in un documento precedentemente falsificato - di procedere secondo legge o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero la richiesta di emissione di decreto ingiuntivo sia da considerarsi minacciosa. 3. Come è noto, la minaccia necessaria per integrare gli estremi dell'estorsione o della tentata estorsione consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente. Secondo la previsione normativa, la condotta minacciosa deve causare un doppio evento, ossia la coartazione della volontà della vittima e la disposizione patrimoniale. L'esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo - quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative - non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia necessaria per l'astratta configurabilità del delitto di estorsione infatti, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, le suddette condotte sono esclusivamente dirette alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente. Tuttavia, se l'esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante. Quest'ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare. In questo senso si è già espressa questa Corte, avendo statuito che in tema di estorsione, anche la minaccia di esercitare un diritto - come l'esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva - può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l'elemento materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente tutelato ” Cass. 16618/2003 Rv. 224399. Dunque, non ogni prospettazione alla controparte o a persona terza di un'azione giudiziaria deve essere considerata come minaccia è tale solo quella che è finalizzata a conseguire un profitto ulteriore ed ingiusto, in quanto il discrimine tra legittimo esercizio di un diritto o la minaccia di esercitarlo è da individuarsi proprio nell'ingiustizia del profitto che si intende realizzare. In tale prospettiva, è indubbio che una richiesta del tutto sproporzionata ed eccessiva della quale l'agente sia consapevole, possa essere sintomatica dell'intenzione di conseguire un ingiusto profitto, come ha statuito questa Corte di legittimità secondo la quale la richiesta di una somma di denaro a titolo di risarcimento di danni, normalmente legittima, assume il carattere di illecito e integra gli estremi del delitto, tentato o consumato, di estorsione quando sia del tutto sproporzionata alla entità del diritto leso e sia fatta con riserva implicita o esplicita di far valere le proprie ragioni nei modi di legge, ove la somma non venga integralmente pagata, sì da considerarsi una vera minaccia al fine di conseguire una ingiusta locupletazione ” Cass. 273/1970 Rv. 115339 Cass. 7380/1986 riv 173383 ha ribadito che la minaccia idonea a configurare il delitto di estorsione può assumere forme ben diverse, come quella della prospettazione di azioni giudiziarie, che si traduce in un male ingiusto nel caso di pretestuosità della richiesta, o come quella della denunzia penale, che si rivela ingiusta quando la utilità in cui si concreta non sia dovuta e di ciò l'agente sia consapevole ”. Pertanto, si può affermare che il concreto esercizio di un'azione esecutiva oppure la prospettazione di convenire in giudizio il soggetto passivo o di un'azione esecutiva costituiscano una minaccia e, dunque, una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di estorsione alle due seguenti condizioni a la minaccia dev'essere finalizzata al conseguimento di un profitto al quale non si abbia diritto b l'agente dev'essere consapevole dell'illegittimità o della pretestuosità della propria condotta, anche se l'illegittima pretesa venga fatta valere in modo apparentemente legale. 4. Sulla base di quanto illustrato, deve, quindi, disattendersi la tesi difensiva, che, da un lato, esclude che l'esercizio di un'azione giudiziaria o la sua prospettazione, ancorché infondate, possano considerarsi, di per sé, un male, e, dall'altro, fa dipendere il verificarsi del male ingiusto non già dalla volontà dell'agente, bensì dal comportamento della vittima che non ritenga di rivolgersi al giudice civile per tutelare i propri interessi. Entrambi i profili presuppongono che il processo sia la sede in cui le ragioni della parte trovino necessariamente una tutela, sicché la persona offesa non avrebbe nulla da temere dal contraddicono processuale. Sennonché, tale concezione del processo, confligge con le concrete dinamiche processuali che possono rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria - secondo il vecchio brocardo habent sua sidera lites - oltre al fatto, di comune esperienza, che il processo, di per sé, come intuì un grande giurista, costituisce una pena e, quindi, un danno sia in termini economici che di stress emotivo. Deve, pertanto, ritenersi che l'ingiustificato coinvolgimento in un'azione legale, già avviata o anche solo prospettata, costituisce -per chiunque sia consapevole dell'ingiustizia della pretesa - una minaccia. Sul punto, va, quindi, data continuità a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il manifestato proposito di ricorrere al giudice può integrare il reato di estorsione, ove ricorrano particolari circostanze, da valutarsi caso per caso in relazione alla qualità delle persone ed alle modalità con le quali il proposito stesso è manifestato. Si è in presenza di un comportamento minaccioso, quando il ricorso alla giustizia è prospettato come mezzo per il raggiungimento di uno scopo che sia estraneo al fine che è proprio dell'azione che si intende intraprendere in tal caso non sussiste alternativa che di soggiacere alla ingiusta pretesa o subire le conseguenze dannose dell'azione giudiziaria ” Cass. 5664/1974 Rv. 88648 . D'altra parte, è fuorviante ritenere che la vittima della illegittima richiesta di pagamento abbia l'onere di coltivare un'azione giudiziaria o di opporsi ad essa o ad un'azione esecutiva, al fine di far accertare l'illegittimità e la pretestuosità dell'iniziativa avversaria così ragionando - e cioè imputando alla volontà della persona offesa l'eventuale verificarsi del male ingiusto dalla stessa patito - si compirebbe un'indebita inversione di prospettiva, essendo essa vittima di intimidazione e di coartazione della volontà, e non già la causa dei propri mali . 5. Quanto detto, consente di disattendere anche la subordinata testi difensiva secondo la quale i fatti addebitati al ricorrente configurerebbero l'ipotesi della truffa e della tentata truffa. Infatti, si sarebbe potuta astrattamente ipotizzare il delitto di cui all'art. 640 cod. pen. solo qualora la condotta dell'odierno ricorrente si fosse arresta alla falsificazione delle fatture ed alla richiesta di pagamento delle stesse agli apparenti debitori. Tuttavia, poiché il ricorrente non si è limitato a porre in essere una condotta truffaldina richiesta di un pagamento non dovuto , ma ha adottato una strategia indubbiamente intimidatoria, consistente nella minaccia azioni legali, generiche o anche specifiche, oppure, in certi casi, perfino nell'inizio di un'azione esecutiva, la fattispecie è stata correttamente qualificata come estorsione. 6. Nel respingere il ricorso, può, quindi, enunciarsi il seguente principio di diritto integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di traffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l'agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto”. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell'art. 94 disp. att. cod. proc. pen