L’inderogabile derogabile principio del contraddittorio: è difficile abbandonare il principio della prova precostituita

La disposizione contenuta nell’art. 192, comma 3, c.p.p. si applica esclusivamente alle dichiarazioni procedimentali non estendendosi al contenuto delle intercettazioni, non riguardando il principio enunciato nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, neppure nella forma elaborata dall’interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 512 c.p.p., la materia.

Debbono considerarsi irripetibili gli atti che non possono materialmente ed ontologicamente rinnovarsi nel dibattimento. La Corte di Cassazione non ha il compito di stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Sono inammissibili i motivi di ricorso per violazione dell’art. 591, lett. c in relazione all’art. 581, lett. c , c.p.p. se le doglianze sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano immuni da vizi logici o giuridici. Il caso. L’imputato veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di estorsione aggravata. Il Giudice di prime cure ritenutolo colpevole lo condannava alla pena di anni 12 di reclusione ed euro 2.000,00 di multa. Avverso la pronuncia proponeva appello la difesa dell’imputato ed all’esito del procedimento la Corte territorialmente competente in riforma della sentenza di primo grado esclusa l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 629 c.p. rideterminava la pena in anni 9 di reclusione ed euro 1.500,00 di multa. Venivano proposti due distinti ricorsi per Cassazione dai difensori dell’imputato i quali lamentavano errata applicazione delle disposizione contenuta nell’art. 192, comma 3 e la violazione delle disposizioni contenute nell’art. 6, lett. d della CEDU, 512 c.p.p. per come convenzionalmente interpretato. La doglianza trovava ragion d’essere nella circostanza relativa alla particolare natura del materiale probatorio posto a sostegno della decisione che era costituito da intercettazioni sul cui contenuto non era stato possibile esercitare alcun diritto al contradditorio posto che il soggetto, intercettato durante le conversazioni con l’imputato e sua volta coimputato, non aveva inteso rendere dichiarazioni. La Corte ha respinto i ricorsi e confermato la sentenza. Il principio del contraddittorio. La Corte viene chiamata a pronunciarsi su di un tema che è destinato ad assumere sempre maggior rilevanza nel panorama processuale ovvero quello inerente i limiti e l’ampiezza del contraddittorio sulla prova. Il tema, che invero avrebbe dovuto essere risolto con l’introduzione del codice di rito del 1989, in realtà è stato sottoposto a continue rivisitazioni ed incursioni spesso di segno opposto. L’introduzione nella Carta Costituzionale dell’art. 111 comma 4 pareva aver segnato un definivo punto d’approdo peraltro confortato dalla legislazione Europea e dall’interpretazione che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo fornisce in tema. L’inderogabilità del principio del contraddittorio affermata dalla Corte Europea, le cui decisioni hanno la ben nota efficacia e portata, è stata recepita, seppur con qualche ritrosia, persino dalla Giurisprudenza di legittimità che, ai fini adeguarvisi ha dato corso a quell’interpretazione dell’art. 512 c.p.p. che, appunto vien definita convenzionalmente orientata . Ora la questione di puro diritto, o se si preferisce una maggior precisione definitoria, di carattere ermeneutico, riguarda l’applicazione del principio di inderogabilità del contraddittorio al contenuto di atti, quali le intercettazioni, che, di per sé, non può subire mutazioni dovute all’utilizzo del metodo dialettico dibattimentale. Ciò che si vuol dire è che il contenuto della conversazione, per come percepito e raccolto rimarrà e permarrà il medesimo anche all’esito dell’esecuzione dell’esame incrociato, non potendosi modificare, con un atto posto in essere successivamente, il contenuto di azioni le dichiarazioni già effettuate. È questa, in sostanza, la tesi che la Corte di Cassazione sposa e propugna al fine di dichiarare inapplicabile la disposizione dell’art. 192 comma 3 c.p.p. nella lettura che ne imporrebbe l’art. 6, lett. d della CEDU con il suo portato di innovazioni ermeneutiche nel tessuto del codice di rito. Ma siamo certi che si tratti di una interpretazione soddisfacente? L’inderogabilità derogabile dei principi. Appare da subito evidente come nella ricostruzione prospettata dalla Corte di Cassazione venga dato atto dell’esistenza di un principio, definito inderogabile e quindi assolutamente incapace di subire modificazioni o restrizioni, relativo alla necessità di formazione della prova esclusivamente nel contraddittorio che, poi ed immediatamente, viene derogato dalla possibilità di rendere piena ed autosufficiente una prova avente contenuto dichiarativo, raccolta anteriormente al dibattimento e sulla quale non v’è stata alcuna possibilità di dar corso all’esercizio del diritto a contro esaminare . Pare, sinceramente, che l’ossimoro enunciato dalla Corte sia frutto di una cultura giuridica disperatamente protesa ad erigere argini e baluardi al necessario e completo ingresso dell’inderogabile principio del contraddittorio nel sistema processuale italiano affinchè esso possa dirsi, finalmente, in linea con i principi enunciati dalla Carata fondamentale dei Diritti dell’Uomo. La Corte giustifica filosoficamente e filologicamente quello che è e resta un ossimoro, imperniando la propria analisi sulla natura e sulla differenza utilizzata dal Legislatore che ha indicato prove dichiarative costituite da dichiarazioni sit, spontanee dichiarazioni, interrogatorio etc. e conversazioni o comunicazioni quali oggetto della possibile attività di captazione. Queste ultime non potrebbero, per loro natura essere assoggettate al principio del contraddittorio posto che, per loro intrinseca natura, hanno contenuto fisico , certo e formato assolutamente non modificabile dall’esercizio del diritto al contradditorio. In altri termini nessun contraddittorio potrebbe modificare il contenuto di ciò che le parti, suo tempo, si sono dette comunicando o conversando. Il che, in prima analisi, potrebbe apparire vero, soddisfacente ed appagante. Però, se soltanto ci si sofferma per un istante sulla reale natura delle intercettazioni e sul significato diverso che possono assumere frasi e parole a seconda del contesto in cui esse sono pronunciate, dal tono con cui si pronunciano e persino dalla mimica facciale utilizzata o dalla gestualità che le accompagna, l’assunto all’apparenza condivisibile granitico, si sbriciola inevitabilmente. Nessuna trascrizione sarà infatti mai in grado di fornire ragione di quanto sopra affermato così come nessuna altra e differente forma rispetto a quella costituita dall’esame del comunicante potrà rendere piena ed oggettiva prova delle modalità in cui le conversazioni oggetto di captazione intervennero e di quali fossero i rapporti tra i soggetti in esse coinvolte al momento di effettuarle. Con il che appare evidente, almeno ma non solo a me, che il principio enunciato sia fallace. La differente situazione psicologica tra dichiarante e conversante . La Corte non si mostra così sicura della bontà dell’assunto formulato posto che, ai fini di fornire giustificazione alla pronunciata deroga all’inderogabile, ricorre alla supposta differente situazione psicologica in cui versano il dichiarante ed il comunicante. Affermando, davvero in modo apodittico che se il dichiarante deve e fin qui il discorso appare condivisibile perfettamente essere a conoscenza della esistenza di indagine, posto che nell’ambito della medesima egli è chiamato a rendere dichiarazioni, il conversante invece ne sarebbe sempre ed aprioristicamente all’oscuro. Da questa mancanza di conoscenza circa l’esistenza dell’indagine, ne deriverebbe una oggettiva ed incondizionata fiducia in merito alla genuinità delle dichiarazioni ed alla conseguente non necessità di sottoprole al principio del contraddittorio. Che la situazione descritta sia assolutamente pacifica è frutto di valutazione statistica e, a ben vedere contrastante con il principio del ragionevole dubbio che, finalmente, ormai sostiene il sistema processual penalistico. Ma anche laddove così fosse mal si comprende perché il conversante non dovrebbe essere sottoposto a contro esame ai fini dar piena e completa attuazione al principio del contraddittorio. A meno che non si voglia dar corpo al dubbio inerente la possibilità per l’avvocato di maliziosamente indurre in tentazione il teste. Ma, all’uopo esistono norme precise e cogenti atte a porre rimedio a situazioni di pregiudizio per la genuinità della testimonianza. Pare invece che l’affermazione di principio della Corte sia, come detto, maggiormente finalizzata a restringere, per quanto ancora possibile, il campo di applicazione del principio del contraddittorio costituendo una riserva , quasi di stampo naturalistico, a prove non generatesi in dibattimento. Riserva che trova fondamento nelle differenti terminologie utilizzate dal Legislatore, di cui abbiamo parlato, ed in quella, tutta italica, capacità di derogare all’inderogabile. La lettura convenzionalmente orientata dell’art. 512 c.p.p La norma del codice di rito è stata letta, da qualche tempo, in modo tale dal renderla conforma a quel principio di inderogabilità del contraddittoria che deve necessariamente trovare quale unico limite quello della effettiva ed oggettiva impossibilità. Oggettiva ed effettiva impossibilità che, nel caso di specie, non solo è del tutto inesistente ma, addirittura neppure viene in alcun modo accertata o dichiarata ma, addirittura, immediatamente assunta quale inapplicabile al caso di specie. Ovviamente sempre ed esclusivamente sulla scorta della impossibile a risolversi” differenza ontologica esistente tra dichiarazioni e comunicazioni. Francamente l’affermazione, volta ad escludere dall’applicabilità del regime del contraddittorio atti a contenuto dichiarativo sui quali sarebbe interesse delle parti, accusa difesa e financo giudicante, avere ed ottenere chiarimenti attraverso il metodo dialettico, non pare né tranquillizzante ne condivisibile. Piuttosto finalizzata a contrastare l’orientamento giurisprudenziale, elaborato anche in seno alla Corte di Cassazione, garantista e maggiormente aderente al dettato Costituzionale e della CEDU. Tra i cui dettami non v’è alcun contrasto. Nonostante quanto tentino di affermare i Giudici del supremo Collegio. inapplicabile all’art. 192, comma 3, c.p.p In ultima analisi la Corte ritiene dunque inapplicabile all’art. 192, comma 3 la interpretazione convenzionalmente orientata elaborata in relazione all’art. 512 c.p.p., proprio in ragione di quella denunciata differenza di posizioni soggettive tra dichiarante e conversante di cui abbiamo discusso. Facile evidenziare come da una presunta e non accertata differenza di animus si faccia derivare una differenza di valore da attribuirsi agli atti che incide direttamente sulle garanzie difensive che, invece, dovrebbero essere del tutto indipendenti rispetto agli stato soggettivi e psicologici dei soggetti a vario titolo coinvolti nel procedimento. Portando al limite del paradosso il ragionamento l’imputato vedrebbe variare l’estensione delle garanzie concessegli a seconda della volontà del proprio accusatore o coimputato. Il che, sinceramente, è inaccettabile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 10 maggio – 31 luglio 2012, n. 31064 Presidente Esposito – Relatore Iasillo Osserva Con sentenza del 03.12.2009, il Tribunale di Nola dichiarò F.M. responsabile del reato di estorsione aggravata ex articolo 7 L. 203/91 e 628, III comma n. 1, c.p. in concorso e lo condannò alla pena di anni 12 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. Avverso tale pronunzia l'imputato propose gravame. La Corte d'appello di Napoli, con sentenza del 10.03.2011, in riforma dell'impugnata sentenza -esclusa l'aggravante di cui al secondo comma dell'articolo 629 c.p. ex articolo 63, IV comma, del c.p. - rideterminò la pena in quella di anni 9 di reclusione ed Euro 1.500,00 di multa. Confermò nel resto la decisione di primo grado. Ricorrono per Cassazione gli Avvocati Lucio Caccavale e Alfredo Gaito, quali difensori di F.M. . L'Avvocato Lucio Caccavale deduce la carenza di motivazione in ordine al ruolo di gestore e controllore della ditta La Fortuna in proposito rileva che tutta la documentazione acquisita ex articolo 238 bis c.p.p. oltre ad essere poco probante in sé - e addirittura, in alcuni casi, proverebbe che il F. non ha alcun ruolo all'interno della ditta - doveva essere valutata ai sensi dell'articolo 192, III comma, del cod. proc. penale. Rileva, inoltre, che per quanto riguarda l'estorsione la P.O. non ha subito alcuna intimidazione e, poi, mancherebbero gli altri due elementi essenziali per la sussistenza del predetto reato l'ingiusto profitto e l'altrui danno quanto sopra, ovviamente, rileverebbe anche sotto il profilo soggettivo. L'Avvocato Caccavale sottolinea, inoltre, la carenza di motivazione in ordine al cambio degli assegni, postdatati, imposta dall'imputato alla P.O. in particolare evidenzia che la Corte ha escluso la valenza di quanto sostenuto, sul punto, dal Tribunale del Riesame sull'errato presupposto che lo steso Tribunale al momento della decisione non avesse ancora la conoscenza dell'intero impianto accusatorio. Infine, rileva la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7 L. 203/91. L'Avvocato Alfredo Gaito rileva che la Corte territoriale ha eluso le questioni di carattere processuale e sostanziale contenute nell'appello. In particolare evidenzia che non vi sono riscontri che possano corroborare quanto contenuto nell'intercettazione ambientale nella quale la P.O. che è anche coimputato del F. e sentito ex articolo 210 c.p.p. si è rifiutato di rispondere parla con un terzo intercettazione che è l'elemento probatorio esclusivo sul quale si fonda la condanna dell'imputato. Il difensore del F. ritiene - in adesione al principio dell'inderogabilità del contraddittorio contenuto in molte sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e nell'interpretazione dell'articolo 512 del c.p.p. convenzionalmente orientata data da alcune sentenze della Suprema Corte - che i riscontri siano necessari anche nel caso di intercettazioni del coimputato. Contesta, poi, che si possa ritenere infondata la tesi di cui sopra limitando la portata dell'articolo 192, III comma, c.p.p. alle sole dichiarazioni procedimentali. Quindi la decisione di merito sarebbe inficiata da un lato da un'erronea interpretazione dell'articolo 192, III comma, del c.p.p. e dall'altro, non avendo il coimputato voluto rispondere, dalla violazione degli articoli 6, lettera d, C.E.D.U. 111, IV comma, Cost. 526, comma 1 e 1 bis, del cod. proc. penale. Rileva, poi, la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta, in sentenza, costrizione senza minaccia palese il cui concetto viene, tra l'altro, criticato ed evidenzia che in ogni caso manca del tutto l'elemento fondamentale dell'estorsione e cioè il danno della persona offesa dal reato. Inoltre, critica l'interpretazione restrittiva dell'articolo 513 bis del c.p. che era stato indicato, in subordine, dalla difesa quale reato nel quale derubricare l'estorsione. Sottolinea, anche, la carenza di motivazione in ordine all'interpretazione del contenuto dell'intercettazione ambientale interpretazione che non tiene conto di quanto osservato in proposito nell'atto di impugnazione. L'Avvocato Gaito evidenzia, infine, la carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine sia alla sussistenza dell'estorsione per la richiesta del cambio degli assegni postdatati la cui imposizione da parte dell'imputato non risulta affatto , sia in ordine alla sussistenza delle aggravanti contestate. Si lamenta, inoltre, della motivazione con la quale non si è accolta la richiesta di concessione delle attenuanti generiche, che non tiene in nessun conto la marginalità oggettiva e soggettiva del F. nel fatto di cui ci si occupa. Tutti e due gli Avvocati del ricorrente concludono, quindi, per l'annullamento dell'impugnata sentenza. L'Avvocato Gaito presenta un motivo nuovo, depositato il 20.01.2012. Con tale motivo la difesa del ricorrente - dopo aver di nuovo sottolineato che il Bu. è un coimputato che si è sottratto all'esame in contraddittorio e che quindi le sue propalazioni non sono utilizzabili - sostiene che il F. sarebbe stato condannato non sulla prova che lo stesso abbia effettivamente intascato i soldi provenienti dal cambio assegni, ma solo perché il B. - che avrebbe gestito l’intera vicenda - ha affermato di farlo in nome e per conto del F. quanto sopra secondo la difesa si ricava da una corretta lettura delle intercettazioni e non sarebbe sufficiente per una condanna. Motivi della decisione I motivi dei ricorsi inerenti la valutazioni delle prove acquisite e ritenute sufficienti per la condanna sono inammissibili per violazione dell'articolo 606, comma 1, cod. proc. pen., perché propongono censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata. Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento , secondo una formula giurisprudenziale ricorrente Cass. Sez. 4 sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568 Cass. Sez. 5 sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745 Cass., Sez. 2 sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955 . Inoltre, i motivi dei ricorsi di cui sopra sono inammissibili anche per violazione dell'articolo 591 lettera e in relazione all'articolo 581 lettera e cod. proc. pen., perché le doglianze sono le stesse affrontate dalla Corte di appello sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell'atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il delitto aggravato di cui sopra, quali ad esempio 1 Le intercettazioni. In proposito i Giudici di merito - nel riportarne i passi salienti - forniscono un'interpretazione che non è in contrasto con gli elementi evidenziati dal F. nei due ricorsi, che, in buona sostanza, propongono solo una diversa lettura delle stesse intercettazioni non consentita - per quanto sopra detto - in questa sede di legittimità. 2 Corretta utilizzazione perché valutati unitamente agli altri elementi di prova, così come previsto nell'articolo 192, III comma, c.p.p. di atti acquisiti ex articolo 238 bis c.p.p., la cui interpretazione viene - egualmente - contestata nei ricorsi fornendo, unicamente, una diversa lettura degli stessi. Esempio emblematico di quanto sopra evidenziato è costituito dalla lettura delle missive v. pagine 7 e 8 impugnata sentenza del capo clan F.M. cognato dell'odierno imputato dalle quali i Giudici di merito ricavano il coinvolgimento del ricorrente nella gestione della ditta La Fortuna Calcestruzzi . Nei ricorsi si sottolinea che le lettere sono risalenti e che in ogni caso il capo clan in queste missive afferma che avendo rilevato che il cognato cioè l'attuale imputato ha commesso degli errori senza cattiveria perché gli manca il lato commerciale deve togliersi di mezzo dai commerci . Pertanto, secondo i difensori del F. , questi non avrebbe nulla a che fare con la ditta La Fortuna Calcestruzzi . Al contrario i Giudici di merito rilevano - con motivazione incensurabile - che tali lettere dimostrano che quanto meno fino alla spedizione delle stesse il F. aveva un ruolo nell'azienda ruolo che deve essere stato conservato visto che interviene - insieme al coimputato B.M. -per costringere la P.O. Bu. a servirsi, per l'acquisto del cemento, della ditta La Fortuna Calcestruzzi pagina 7 dell'impugnata sentenza si osserva che, in ogni caso, risponde di estorsione anche chi procura l'ingiusto profitto ad altri . Lo stesso discorso vale, ovviamente, per l'estorsione relativa al forzato cambio di assegni postdatati imposto dall'imputato F. sempre in concorso con il B. a Bu.An. e ricavato dai Giudici di merito da alcuni passi di intercettazioni, la cui interpretazione è contestata dal ricorrente perché, ad esempio, in uno di questi si parla di 20.000,00 Euro e non di 30.000 come in un altro brano precedente. Anche in questo caso si deve sottolineare che i Giudici di merito rilevano come da quella intercettazione si capisce che Bu.An. ha assolto a quanto illecitamente impostogli dall'imputato, quantomeno con un cambio di assegni pari a 20.000,00 Euro si dice quantomeno, perché la Corte territoriale evidenzia che nell'intercettazione si sente affermare ventimila Euro tutti assegni indietro, all’infuori della macchina” . A proposito del cambio assegni l'Avvocato Gaito presenta un motivo nuovo depositato il 20.01.2012 . Con tale motivo la difesa del ricorrente sostiene che il F. sarebbe stato condannato non sulla prova che lo stesso abbia effettivamente intascato i soldi provenienti dal cambio assegni, ma solo perché il B. - che avrebbe gestito l'intera vicenda - ha affermato di farlo in nome e per conto del F. quanto sopra secondo la difesa si ricava da una corretta lettura delle intercettazioni e non sarebbe sufficiente per una condanna. Si deve rilevare, in proposito, che anche tale motivo è manifestamente infondato perché propone soltanto una diversa e non consentita lettura -avanti a questa Corte di legittimità - degli atti di causa. Infatti, la Corte di appello ricava che il B. ha fatto la richiesta di cambio assegni per conto del F. sulla base non dell'intercettazione ambientale riportata a pagina 7 dell'impugnata sentenza, ma sulla base dell'intercettazione telefonica riportata a pagina 16 dell'impugnata sentenza. Sulla base dell'intercettazione ambientale riportata a pagina 7 dell'impugnata sentenza la Corte di appello ricava, invece, che il F. ha ricevuto ventimila Euro tutti assegni indietro, all’infuori della macchina . A fronte di ciò i ricorsi dei difensori dell'imputato contrappongono solo contestazioni, che non solo non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello, ma propongono, come si è già detto, soltanto una diversa e non consentita lettura - avanti a questa Corte di legittimità - degli atti di causa. In proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex articolo 591, comma primo, lett. e , cod. proc. pen. all'inammissibilità del ricorso Si veda fra le tante Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 - dep. 11.10.2004 - rv 230634 . Le questioni sollevate in ordine alla sussistenza del reato di estorsione aggravata sono infondate. Preliminarmente sembra opportuno ricordare - per comprendere meglio la portata della minaccia e della coartazione subita da Bu.An. - la situazione nella quale è maturata l'estorsione. La Corte di appello, in proposito, ricorda pagine 2 e 3 dell'impugnata sentenza che le intercettazioni sulle quali si fonda la condanna del F. sono state disposte, insieme a molte altre, in seguito ad una serie di attentati di chiara matrice camorristica verificatisi nel nolano in danno di alcuni imprenditori. In questo gravissimo contesto si presenta a Bu.An. l'imputato, da lui conosciuto come autorevole partecipe e stretto parente del capo clan F. , dicendogli che se non ottempera alle sue richieste tornare ad acquistare il cemento presso la ditta del capo clan sarebbe rimasto in balia delle pretese estorsive della stessa o di altra criminalità organizzata. Già da questa premessa è agevole comprendere la portata della minaccia e della coartazione subita da Bu.An. , che è stato costretto, quindi, ad accettare sia la richiesta di tornare ad essere cliente della ditta La Fortuna del cognato dell'imputato e capo clan , sia di cambiare gli assegni postdatati di cui si dirà in seguito per conto sempre dell'imputato. Inoltre, il Giudice di merito ha ben evidenziato in cosa consista la minaccia posta in essere dal F. sempre in concorso con il B. contro Bu.An. quest'ultimo, infatti, se non avesse ottemperato al suo invito di rivolgersi nuovamente infatti all'epoca della minaccia il Bu. non era più cliente della suddetta ditta. Si vedano, sul punto, le pagine 5 e 6 dell'impugnata sentenza per il rifornimento di calcestruzzo alla ditta del cognato La Fortuna sarebbe rimasto esposto alle pretese estorsive, tra l'altro, già subite. In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed esplicita, può essere manifestata anche in maniera implicita ed indiretta, essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa opera tutti elementi ben evidenziati dalla Corte di appello, ad esempio, alle pagine 2, 3 e 6 dell'impugnata sentenza si veda sul punto Sez. 2, Sentenza n. 19724 del 20/05/2010 Cc. - dep. 25/05/2010 - Rv. 247117 . Inoltre si deve aggiungere che in tema di estorsione la sussistenza del reato non richiede che la minaccia sia esplicita, essendo indifferenti il modo e la forma di essa nella specie - presa in esame da questa Suprema Corte - si trattava di una offerta di protezione ingenerando il timore di possibili danni in caso di rifiuto Sez. 2, Sentenza n. 1543 del 19/11/1985 Ud.-dep. 19/02/1986 - Rv. 171930 . Il caso di cui ci si occupa è, con evidenza, un'estorsione patrimoniale. In proposito questa Corte ha più volte ribadito che nell'estorsione patrimoniale, che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l'agente o con altri soggetti, l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune. Sez. 6, Sentenza n. 46058 del 14/11/2008 Cc. - dep. 12/12/2008 - Rv. 241924 Sez. 2, Sentenza n. 19724 del 20/05/2010 Cc. - dep. 25/05/2010 - Rv. 247117 . Per quanto riguarda l'episodio estorsivo relativo agli assegni postdatati è appena il caso di rilevare che in questa sede non assume alcun rilievo la decisione del Tribunale del riesame alla luce della conforme motivazione di due giudici di merito e di quanto osservato dalla Corte di appello sul punto specifico. Si deve, poi, rilevare che in tema di estorsione, si configura l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno nel caso in cui il soggetto passivo sia costretto ad effettuare operazioni di cambio monetizzazione di assegni, perché è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto economico in violazione della propria autonomia negoziale, e privato pertanto del diritto di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune Sez. 1, Sentenza n. 18722 del 31/03/2010 Ud. - dep. 18/05/2010 - Rv. 247450 . L'interpretazione della Corte di appello di limitare la portata dell'articolo 192, III comma, c.p.p. alle sole dichiarazioni procedimentali e non estenderla al contenuto delle intercettazioni è - contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente - conforme alla normativa e logica. Conforme alla normativa perché l'articolo 192, III comma, c.p.p. detta una disciplina solo per le dichiarazioni rese dal coimputato dei medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso o collegato ex IV comma stesso articolo e di certo le intercettazioni articolo 266 c.p.p. non hanno per oggetto le dichiarazioni, ma le conversazioni o comunicazioni termini che individuano attività ben diverse dalle dichiarazioni. Interpretazione logica perché ben coglie le differenze fra le due norme e, soprattutto, la diversa ratio ad esse sottesa. Nel caso di dichiarazioni si è, infatti, in presenza di una persona coimputata o imputata in un processo connesso o collegato, che rilascia dichiarazioni nei confronti di altra o altre persone avanti alla P.G. o all'Autorità Giudiziaria. Il dichiarante ha, quindi, la piena consapevolezza della sua posizione e sa che quanto dichiara può esporre la persona di cui parla ad un procedimento penale infine, ha un suo interesse personale di difesa. Proprio per questo il Legislatore vuole che tali dichiarazioni siano valutate dal Giudice unitamente agli altri elementi di prova per avere la conferma dell'attendibilità del dichiarante. Al contrario nel caso regolato dall'articolo 266 e ss c.p.p. i soggetti intercettati non sanno di essere indagati ed evidentemente non rilasciano dichiarazioni reciproche, ma semplicemente conversano ignorando di essere sottoposti ad intercettazione. Tale diversissima situazione fa si che il contenuto delle intercettazioni -legittimamente acquisito con le modalità previste dall'articolo 268 del c.p.p. -costituisca prova piena senza necessità di corroboranti elementi probatori di riscontro Sez. 5, Sentenza n. 21878 del 26/03/2010 Ud. - dep. 08/06/2010 - Rv. 247447 Sez. 4, Sentenza n. 34807 del 02/07/2010 Ud. - dep. 27/09/2010 - Rv. 248089 Sez. 1, Sentenza n. 36218 del 23/09/2010 Ud. - dep. 11/10/2010 - Rv. 248290 Sez. 2, Sentenza n. 4976 del 12/01/2012 Ud. - dep. 09/02/2012 - Rv. 251812 . La difesa del ricorrente richiama, poi, il principio dell'inderogabilità del contraddittorio della prova determinante, che trova il suo fondamento in molte sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e nell'interpretazione dell'articolo 512 del c.p.p. convenzionalmente orientata contenuta in alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione. Orbene questo principio non riguarda certo il contenuto dell'articolo 192, III comma, del cod. proc. penale. Infatti, tale articolo prevede solo che il Giudice deve necessariamente valutare le dichiarazioni dei soggetti sopra specificati, unitamente agli altri elementi di prova per avere la conferma dell'attendibilità del dichiarante. Principio che vale sia per le dichiarazioni assunte nel contraddittorio delle parti secondo le previsioni di cui agli articoli 503 e 513 c.p.p., sia nel caso che tali dichiarazioni siano acquisite non nel contraddittorio delle parti, in forza del combinato disposto degli articoli 513, II comma, e 512 cod. proc. penale. A proposito della lettura degli atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione è, comunque, noto, per consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto, che la sopravvenuta ed imprevedibile irreperibilità dei soggetti le cui dichiarazioni siano già state ritualmente acquisite in sede predibattimentale e dei quali non possa dirsi provata la volontà di sottrarsi all'esame dibattimentale rientra nei casi di accertata impossibilità oggettiva i quali, ex articolo 111 Cost., comma 5, derogano alla regola della formazione della prova nel contraddittorio delle parti con la conseguenza che, in tal caso, non rileva la prospettata violazione dell'articolo 6, comma 3, lett. d C.E.D.U. come interpretato dalle pronunce della Corte di Strasburgo , in quanto, come si evince dalle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007, le norme della predetta Convenzione, ancorché direttamente vincolanti, nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, per il giudice nazionale, non possono tuttavia comportare la disapplicazione delle norme interne, con esse ipoteticamente contrastanti, se e in quanto queste ultime siano attuative di principi affermati dalla Costituzione, cui anche le norme convenzionali devono ritenersi subordinate, condizione soddisfatta dall'applicabilità dell'articolo 111 Cost., comma 5, Sez. 5, Sentenza n. 16269 del 16/03/2010 Ud. - dep. 26/04/2010 - Rv. 247258 Sez. 6, Sentenza n. 9665 del 25/02/2011 Ud. - dep. 10/03/2011 - Rv. 249594 Sez. 6, Sentenza n. 24039 del 24/05/2011 Ud. - dep. 15/06/2011 - Rv. 250109 . La Giurisprudenza di questa Suprema Corte ha, poi, specificato che le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza Europea, in applicazione dell'ari 6 della CEDU - fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale Sez. U, Sentenza n. 27918 del 25/11/2010 Ud. - dep. 14/07/2011 - Rv. 250199 . Ma tutto ciò, si riferisce - con evidenza - alle dichiarazioni rese a verbale, non già ai contenuto delle intercettazioni. Il problema del principio dell'inderogabilità del contraddittorio investe, quindi, l'interpretazione della parola dichiarazioni, contenuta anche nell'articolo 192 c.p.p., ma che per quello che ora ci interessa riguarda soprattutto la disposizione dell'articolo 526, comma I bis, cod. proc. pen. la quale stabilisce che la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore . Sul fatto che la parola dichiarazione, contenuta negli articoli sopra indicati, non possa confondersi e sia cosa del tutto diversa dalle parole conversazione o comunicazione contenute nell'articolo 266 c.p.p. che disciplina le intercettazioni si è già sopra detto. Si deve solo rilevare che se anche la persona la cui conversazione o comunicazione è stata intercettata si presentasse in udienza e rispondesse alle domande di tutte le parti - e quindi si attuasse tutto ciò che prevede l'articolo 6, lett. d, della CEDU che stabilisce di interrogare o fare interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizione dei testimoni a carico - le sue risposte non andrebbero mai ad incidere sul contenuto delle intercettazioni. Infatti, le parti e il Giudice potranno porre, alla persona intercettata, domande che tendano a far chiarezza sul perché una determinata frase sia stata pronunciata, perché si è compiuta una certa azione e i particolari e le modalità della stessa azione che risulti dall'intercettazione, ma non potranno mai chiedere se quella frase è stata pronunciata o non, oppure far cambiare all'intercettato il contenuto della frase stessa perché quella frase è stata già pronunciata, risulta incontrovertibilmente dalla registrazione effettuata e costituisce una prova ormai acquisita. Con ciò si vuoi dire che con la captazione si cristallizza tutto quello che due o più persone si sono dette in un determinato giorno, ad una certa ora e un preciso luogo e il contenuto di tale conversazione, per volontà del Legislatore, costituisce una prova piena e oggettivamente impossibile da essere raccolta nel contraddittorio delle parti e quindi rientra, perfettamente, nella deroga prevista dall'articolo 111, V comma, della Costituzione, la quale consente che la formazione della prova, in tali casi, non abbia luogo in contraddicono . Quindi prova che, per quanto si è già evidenziato, è irripetibile e immutabile, così come, ad esempio, accade per quanto viene accertato all'esito di un'ispezione. In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato che ai fini dell'applicazione dell'articolo 431, comma 1, lett. b , c.p.p. ai sensi del quale, in deroga al principio dell'oralità cui è ispirata la disciplina del processo penale, è consentito l'inserimento nel fascicolo per il dibattimento degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria , il concetto di irripetibilità deve ritenersi coincidente con quello di impossibilità materiale e ontologica di rinnovare nel giudizio il medesimo atto compiuto nella fase delle indagini preliminari, come si verifica, ad esempio, con riguardo ad atti quali le perquisizioni, i sequestri, le intercettazioni di comunicazioni, le rilevazioni urgenti in luoghi ovvero su cose o persone Sez. U, Sentenza n. 4 del 28/10/1998 Ud. - dep. 11/03/1999 - Rv. 212758 Sez. 1, Sentenza n. 37286 del 23/10/2002 Ud. - dep. 07/11/2002 - Rv. 222537 . È chiaro che il contenuto delle intercettazioni - come tutte le prove -sarà valutato criticamente dal Giudice, che terrà conto delle osservazioni di tutte le parti e dell'intera vicenda processuale, ma il contenuto dell'intercettazione rimane, appunto, una prova piena come tutte le altre prove regolamentate nel nostro codice di procedura penale. Anzi, a tal proposito, si deve sottolineare che il nostro codice disciplina l'intercettazione in modo molto severo, limitando i casi nei quali si può disporre, prevedendo rigide procedure di esecuzione, ampie garanzie per gli indagati e molti casi di inutilizzabilità inoltre prevede che la scelta e trascrizione delle intercettazioni avvenga nel contraddicono delle parti e con perizia. Contraddicono sulla vantazione del contenuto delle intercettazioni che da quel momento in poi sarà pieno fino alla decisione finale. Per tutto quanto sopra esposto è, quindi, evidente l'infondatezza relativa alla presunta erronea interpretazione dell'articolo 192, III comma, del c.p.p. e la violazione degli articoli 6, lettera d, C.E.D.U. 111, IV comma, Cosi 526, comma 1 e 1 bis, del cod. proc. penale. è evidente, infine, che essendo stato ritenuto, correttamente, sussistente il reato di estorsione aggravata non deve neppure essere affrontato il problema relativo alla subordinata richiesta di derubricazione del fatto nel reato di cui all'articolo 513 bis c.p. né affrontare le censure sull'interpretazione di tale articolo effettuato dalla Corte di Appello. Quanto alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7 D.L. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991 si deve rilevare che la motivazione - con richiamo di Giurisprudenza e delle condotte poste in essere dal F. - della Corte di appello è sufficiente. Si osserva, in proposito, che questa Corte Suprema ha affermato che in tema di estorsione, integra l'aggravante dell'uso del metodo mafioso articolo 7 L. 203/1991 ad esempio la condotta di colui che prospetti l'utilizzo delle somme estorte per aiutare le famiglie di taluni carcerati né rileva, a tal fine, la circostanza che l'esistenza dell'organizzazione criminale non sia espressa nel contesto delle richieste estorsive, in quanto il mezzo di coartazione della volontà facente ricorso al vincolo mafioso, e alla connessa condizione di assoggettamento, può esprimersi in forma indiretta, o anche per implicito come nel caso di specie Bu.An. , come si è già sopra evidenziato, sapeva bene chi erano F. - cognato dell'omonimo capo dell'associazione, c.d. F. , della quale aveva egli stesso fatto parte - e B. Sez. 5, Sentenza n. 3101 del 06/10/2010 Ud. - dep. 28/01/2011 - Rv. 249080 . Sul punto questa Suprema Corte ha, anche, affermato che la circostanza aggravante di cui all'articolo 7 L203/1991, qualifica l'uso del metodo mafioso, fondato sull'esistenza in una data zona di associazioni mafiose, anche con riguardo alla condotta di un soggetto non appartenente a dette associazioni Sez. 1, Sentenza n. 4898 del 26/11/2008 Cc. - dep. 04/02/2009 - Rv. 243346 . Per quanto riguarda l'aggravante di cui all'articolo 629, II comma, c.p. non è necessario spendere molte parole dato che la Corte di appello - ex articolo 63, IV comma, c.p. - l'ha esclusa. Si deve comunque rilevare che questa Suprema Corte ha più volte affermato che l'aggravante di cui all'articolo 7 D.L. n. 152 del 1991 prevista per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'articolo 416 bis cod. pen., relativo all'associazione per delinquere di tipo mafioso è compatibile con l'aggravante di cui all'articolo 629 comma secondo cod. pen. consistente, in virtù del rinvio all'articolo 628 cod. pen., nella violenza o minaccia posta in essere da soggetto appartenente ad associazione mafiosa , giacché, per l'applicazione di quest'ultima aggravante, è sufficiente l'uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia, né, in particolare, che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al sodalizio mafioso, mentre, nel caso della prima aggravante, pur non essendo necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio, occorre tuttavia accertare in concreto che l'attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo mafioso Sez. 1, Sentenza n. 43663 del 18/10/2007 Cc. - dep. 23/11/2007 - Rv. 238419 . Infine la Corte territoriale valuta correttamente i vari elementi fissati dall'articolo 133 del c.p. per la concessione delle attenuanti generiche. Questa suprema Corte ha più volte affermato che ai fini dell'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all'articolo 62 bis cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all'ari 133 del codice penale, ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento nel caso di specie l'assenza di elementi utili ai fini del riconoscimento di tali attenuanti, la gravità del fatto e i numerosi precedenti penali si veda sul punto ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. - dep. 25/01/2005 - Rv. 230691 . Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte - condivisi dal Collegio - ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Ad esempio in un caso posto all'attenzione di questa Suprema Corte - che ha considerato corretta la relativa motivazione - il giudice di merito aveva ritenuto che non potessero concedersi le attenuanti generiche in relazione ai precedenti penali dell'imputato e alla gravità del fatto Si veda Sez. 1, Sentenza n. 3772 del 11/01/1994 Ud. - dep. 31/03/1994 - Rv. 196880 . Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, l'imputato che li ha proposti deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.