Beccato con 20 gr. di marijuana: lo spaccio va comunque dimostrato

L’onere della prova è integralmente a carico della pubblica accusa e non basta il superamento dei limiti tabellari.

Il caso. Un imputato ricorre avverso la sentenza d’appello di secondo grado confermativa della prima resa in sede di giudizio abbreviato, che lo aveva condannato per spaccio di sostanze stupefacenti. Nell’occasione denunciava l’illogicità della motivazione e il deficit della massa istruttoria a suo carico. La Quinta sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5000/12 depositata il 9 febbraio scorso, annullando senza rinvio, accoglieva con formula assolutoria piena le doglianze dell’imputato affermando che il mero dato quantitativo del superamento dei limiti tabellari previsti dall’articolo 73, comma 1 bis, del DPR n. 309/1990, non vale ad invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, ovvero ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad uso non esclusivamente personale. Il giudice deve valutare globalmente se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano idonee ad escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione. Nessun rilievo può essere dato al fatto che abbia negato un uso solo personale, giustificato con l’intento di evitare l’applicazione delle sanzioni amministrative . La pubblica accusa deve corredare il superamento della soglia limite con ulteriori dati istruttori. Che l’articolo 73 del DPR n. 309/1990 utilizzi una ambigua terminologia, quando specifica che la detenzione ai fini di spaccio della sostanza stupefacente possa presumersi dal superamento delle soglie limite di principio attivo descritte negli allegati al testo normativo, costituisce una evidenza sulla quale già ampia letteratura e giurisprudenza hanno esposto le proprie riserve. La sentenza in commento si allinea a quanto in proposito consolidato nella giurisprudenza di legittimità il semplice superamento della suddetta soglia non importa alcuna inversione dell’onere probatorio che permane, per l’intero e su ogni elemento costitutivo della fattispecie tipica, in capo alla pubblica accusa. Vanno forniti sostegni sintomatici che relazionino quel possesso, seppur anomalo per un uso solo personale della sostanza, ad un intento criminale ed ulteriore, sanzionato penalmente anziché con il meno grave ventaglio delle sanzioni amministrative rubricate nell’articolo 75 del DPR cit La Cassazione ben fa a precisare il valore del dato testuale. L’impeto punitivo che accompagnò la modifica normativa del 2006 introdusse un elemento di estraneità all’interno della più coerente redazionistica in materia penale. La novella aggiunse un inciso ibrido, dalla dubbia identificabilità – è punito in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministero della Giustizia – all’interno di una norma che, in quanto espressione e geografia del disvalore penale connesso allo spaccio di sostanze vietate, deve attenersi ai principi di tassatività e di specificità dei comportamenti puniti e, dunque, deve superare ogni ambiguità con l’utilizzo di terminologie quanto più ferme nella interpretabilità, univoche nella semantica, chiaramente relazionabili con gli altri elementi della fattispecie tipica e, per quanto appena indicato, non suggestive o presuntive nelle condotte descritte. Una difforme prassi in sede di richiesta dell’applicazione di misure cautelari. Tuttavia alla rigidità di questo dato giurisprudenziale, non mancano pronunce dei giudici penali di merito che riconoscono a quel superamento delle soglie ministeriali, l’integrazione del fumus propedeutico alla convalida di fermi/arresti e alla concessione di misure di tipo cautelare restrittive della libertà personale. La minore completezza procedurale della fase cautelare, il relato deficit istruttorio e la temporaneità delle adottande misure legittimerebbe l’affievolimento rispetto a quel rigore probatorio a cui si è poco prima accennato. L’ambiguità di quel dato testuale acquisirebbe vigore fra le maglie più estese della limitata cognizione cautelare, con la sovente adesione della Cassazione nei casi in cui ivi si produce ricorso ai sensi dell’articolo 311 cod. proc. pen., all’esito di quelle medesime procedure. Una nota critica non si comprende perché la clave che la giurisprudenza di legittimità agita quando costituisce il terzo grado di giudizio debba essere smessa nella fase monitoria. Eppure, in quanto giudice di legittimità chiamato, anche, a pronunciarsi sul corretto valore del testo legislativo dovrebbe vincolare ogni giudice di merito alle ristrettezze semantiche di un testo normativo – l’articolo 73 cit. – che non può che essere interpretato analogamente per ogni passo della procedura penale, sia cautelare che di cognizione piena. Il fumus commissi delicti richiesto dall’articolo 273 cod. cit., costituisce – ad una attenta lettura - un criterio non valutabile in astratto , ma necessita di una verifica alla luce delle prospettazioni dei fatti che la pubblica accusa ha avanzato, al fine di integrare almeno l’elevata probabilità che l’indagato abbia realizzato la condotta violata. Quella astrattezza dei dati che si nega possa condurre all’applicazione della misura cautelare, è tale quando il quadro istruttorio maturato pretenda di trarre vigore dal solo superamento della soglia limite - il dato testuale/astrattamente determinato nell’articolo 73 cit. - al fine di poter concedere la misura cautelare richiesta, quando a mancare è il conforto di dati istruttori ulteriori. In conclusione quel testo normativo e l’indizio presuntivo contenuto non possono che essere interpretati restrittivamente salvo produrre delle violazioni di legge, le agilità delle procedure cautelari non consentono di valicare gli stretti corridoi semantici delle espressioni utilizzate. La detenzione ai fini di uso personale di sostanze stupefacenti non può costituire elemento – anche solo sintomatico – della finalità di spaccio. Convincente è la Cassazione quando esclude che il dato istruttorio ulteriore al superamento della soglia limite possa essere costituito dal comportamento dell’indagato nell’atto di consumare le sostanze in compagnia di colui che, per la pubblica accusa, avrebbe costituito il soggetto passivo/acquirente della sostanza stupefacente detenuta dall’indagato. La Cassazione rimprovera al giudice di merito di utilizzare un elemento del fatto piuttosto relazionabile con la fattispecie prevista dall’articolo 75 del DPR cit. – che sanziona in via amministrativa il solo utilizzo o detenzione personale delle sostanze stupefacenti –, in quanto tale non acquisibile per suffragare un distinto e più grave illecito, per lo più sanzionato penalmente. In realtà la sensibilità della Cassazione tocca le corde dell’antica dogmatica giuridica costituita dal c.d. versari in re illicita, per il quale consistente letteratura giuridica di teoria generale del diritto ha chiarito che il fatto che un agente si trovi in una condizione di illiceità non consente, salvo accedere ad una forma di responsabilità penale di tipo oggettivo, di dedurre un dato rilevante ai fini della dimostrazione della colpevolezza e della reità di un imputato per una fattispecie ulteriore, sebbene affine nel disvalore contenuto e nel bene giuridico tutelato. Il messaggio appare allora ancora più chiaro, anche alla luce delle considerazioni prima esposte la pubblica accusa deve confortare il superamento della soglia minima con dati ulteriori ricavati dal fatto e anche dalla immediata istruzione investigativa. Tali non sono costituiti, a meno di condurre a fragili ortopedie giuridiche, dall’integrazione del solo dato quantitativo di sostanza posseduta indicato della norma o dall’accertamento di violazioni minori connesse.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 ottobre 2011 – 9 febbraio 2012, n. 5000 Presidente Agrò – Relatore Fidelbo Svolgimento del processo 1. Con la decisione in epigrafe la Corte d'appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, ha confermato la sentenza del 29 maggio 2008 con cui il G.u.p. del Tribunale di Bolzano, in sede di giudizio abbreviato, aveva ritenuto M A. responsabile del reato di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990, per avere detenuto a fine di spaccio gr. 22,90 di marijuana e, ritenuta l'ipotesi lieve, lo aveva condannato alla pena di un anno di reclusione ed euro 3.000 di multa. 2. Ricorre per cassazione l'imputato, personalmente. Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione, in quanto le sentenze di merito non avrebbero dimostrato che la detenzione del quantitativo di marijuana fosse finalizzata allo spaccio. Più precisamente il ricorrente assume che i giudici hanno trascurato una serie di elementi da cui emergerebbe, comunque, l'uso personale dello stupefacente. Con il secondo motivo denuncia l'erronea applicazione delle disposizioni processuali, in quanto la sentenza non avrebbe potuto utilizzare come fonti di prova le dichiarazioni dell'imputato rese nel corso dell'attività ispettiva in cui sarebbero emersi fatti apprezzabili come reato. Motivi della decisione 3. Il ricorso è fondato. La sentenza impugnata afferma correttamente che in materia di stupefacenti il superamento dei limiti massimi indicati nel decreto ministeriale, cui fa riferimento l'art. 73 comma 1-bis lett. a d.P.R. 309/1990, non costituisce una presunzione assoluta in ordine alla condotta di spaccio del detentore, ma che occorre valutare anche altre circostanze che siano indicative di un uso non esclusivamente personale dello stupefacente detenuto tuttavia, a tale affermazione non corrisponde una altrettanto corretta individuazione e valutazione degli ulteriori elementi , in quanto la Corte territoriale da rilievo a fatti e circostanze del tutto inidonei a dimostrare la destinazione a terzi dello stupefacente detenuto dall'imputato. Questi i dati presi in considerazione a l'essere stato visto dai carabinieri operanti entrare e uscire da un esercizio pubblico e avvicinarsi a più persone con fare anomalo b l'aver fumato uno spinello insieme ad un'altra persona T. c l'aver negato ai Carabinieri di detenere stupefacenti d l'aver detenuto in casa, sotto il materasso, 300 euro f l'aver detenuto in casa gr. 22,9 di marijuana . Si tratta di elementi tendenzialmente neutri, che non appaiono in grado di provare, oltre ogni ragionevole dubbio, che lo stupefacente non fosse destinato ad un uso personale. Privo di significato è il riferimento, contenuto in sentenza, ad un atteggiamento anomalo dell'imputato, non avendo i giudici precisato in cosa sia consistita l'anomalia riscontrata dai Carabinieri operanti nessun rilievo può essere attribuito al fatto che l'A. abbia negato di detenere stupefacenti, tenuto conto che anche la semplice detenzione è comunque vietata nel nostro ordinamento, sicché un tale atteggiamento trova piena giustificazione anche rispetto ad una detenzione finalizzata al consumo personale per evitare l'applicazione delle sanzioni amministrative anche il rinvenimento della somma di denaro nell'abitazione non costituisce elemento che possa dimostrare l'attività di spaccio, dal momento che si tratta di una somma modesta, proporzionata al reddito di un dipendente di albergo, qual è l'imputato nessun rilievo può essere attribuito alla circostanza che l'A. fumava uno spinello insieme al T. , dal momento che la stessa formulazione dell'accusa riconosce, implicitamente, essersi trattato di un uso personale, tanto è vero che la contestazione dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 riguarda esclusivamente il quantitativo di marijuana rinvenuto presso l'abitazione dell'imputato, sicché l'affermazione contenuta in sentenza, secondo cui non vi sarebbe alcun dubbio che l'A. abbia ceduto uno spinello al T. è del tutto apodittica, sfornita di ogni riscontro. Come unico dato obiettivo resta il possesso di gr. 22,90 di marijuana, che l'imputato ha ammesso di detenere per uso personale. Tuttavia, il mero dato quantitativo del superamento dei limiti tabellari previsti dall'art. 73, comma 1-bis, lett. a , d.P.R. n. 309 del 1990, non vale ad invertire l'onere della prova a carico dell'imputato, ovvero ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale cfr., tra le tante, Sez. VI, 28 gennaio 2008, n. 17899, Cortucci Sez. VI, 12 febbraio 2009, n. 12146, Delugan . In questi casi, il giudice deve valutare globalmente, sulla base degli ulteriori parametri indicati nella predetta disposizione normativa, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell'azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione. Poiché nella presente fattispecie il giudice, come si è visto, non ha indicato ulteriori circostanze idonee a dimostrare un uso diverso da quello personale deve escludersi la sussistenza del reato. Del resto, deve rilevarsi che non appare contestato che l'A. faccia abitualmente uso di marijuana e dalla stessa sentenza risulta che nella sua abitazione non è stato rinvenuto alcun oggetto utilizzabile per la suddivisione in dosi della confezione di marijuana rinvenuta, circostanze queste che confermano la mancanza di prove per affermare che la detenzione dello stupefacente fosse collegata ad una attività di spaccio. 4. Pertanto, la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.