Figlio malato e solo, giustificabili i falsi della madre per favorirne l’ingresso illegale in Italia

Ribaltata la pronuncia di condanna emessa in Appello. Prevale, in questa vicenda, il ‘peso’ dello stato di necessità. Le umane preoccupazioni della donna rendono comprensibili le azioni finalizzate a ‘scavalcare’ i tempi della burocrazia per le pratiche di ricongiungimento familiare.

Figlio piccolo malato, e a rischio abbandono nel Paese d’origine ebbene, lo stato di necessità, avvertito sulla pelle dalla madre – obbligata a tornare in Italia per conservare il proprio lavoro –, può rendere comprensibile l’azione che favorisce l’ingresso illegale in Italia del minore, anche col ricorso a documenti falsi. Così i giudici della Cassazione – con sentenza numero 5061, prima sezione penale, depositata oggi – legittimano la scelta di una madre di ignorare la burocrazia e le pratiche per il ricongiungimento familiare. Doppia condanna. Eppure, la vicenda era cominciata in maniera assolutamente negativa per la donna, che, accusata di aver compiuto atti diretti a favorire l’ingresso illegale, nel territorio dello Stato, del figlio minore , di aver alterato il permesso di soggiorno a sé intestato e di essere stata trovata in possesso di una carta di identità contraffatta , era stata condannata sia in primo che in secondo grado. Alla base di questa decisione, per i giudici d’Appello, la non fondatezza della causa di giustificazione dello stato di necessità invocata dalla donna, ovvero la grave malattia sofferta dal figlio, l’inadeguatezza delle cure approntabili nel Paese d’origine, il pericolo concreto di abbandono del minore . Ancor più sinteticamente, veniva chiarito che la malattia, pur seria, del fanciullo non lo esponeva al pericolo attuale di un danno grave alla persona, in una situazione di incompatibilità con i tempi richiesti dal regolare espletamento della pratica di ricongiungimento familiare . Cuore di mamma. Ma la donna rivendica, anche in Cassazione, la giustezza di fondo delle proprie azioni. Difatti, elemento centrale del ricorso contro la pronuncia d’Appello è lo stato di necessità , ovvero la convinzione che le condizioni di salute del figlio fossero molto gravi e potenzialmente letali . Secondo la donna, nella peggiore delle ipotesi, andava riconosciuta una giustificazione legata alla preoccupazione per il figlio, meglio ancora alla necessità di assicurare tempestivamente al minore cure non approntabili nel Paese d’origine e all’ evitare l’abbandono del bambino , non potendone occuparsi i familiari. Umana comprensione. Il quadro di riferimento, per i giudici, è chiaro, e con elementi limpidi la malattia del figlio della donna la mancanza di parenti, nel Paese di origine, in grado di occuparsi del minore e di assicurargli le cure mediche necessarie la regolarità del soggiorno della donna in Italia, caratterizzata anche da attività lavorativa. Di fronte a questo quadro, la valutazione della Corte territoriale è errata, secondo i giudici della Cassazione, perché non ha portato a ravvisare lo stato di necessità in cui si è trovata la donna, indotta a portare con sé illegalmente il minore, alterando a tal fine il suo regolare permesso di soggiorno con l’inserimento in esso anche del proprio figlio . Legittima, quindi, la scelta di non avviare la regolare procedura di ricongiungimento familiare , soprattutto tenendo presenti la necessità di evitare di lasciare il minore e assicurargli immediatamente idonee cure mediche in Italia e la considerazione che il Paese di origine della donna presenta un sistema sanitario più arretrato rispetto a quello italiano . Conseguenze? Ovviamente, la pronuncia di condanna emessa in Appello viene completamente azzerata, e la donna è, per i giudici, ritenuta non punibile .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 24 novembre 2011 – 9 febbraio 2012, n. 5061 Presidente Umberto – Relatore Mazzei Ritenuto in fatto 1. Con sentenza pronunciata il 9 novembre 2010 e depositata il 5 gennaio 2011 la Corte di appello di Genova ha confermato la sentenza del Tribunale di Sanremo, sezione distaccata di Ventimiglia, di condanna di T. A. M. C., cittadina ecuadoregna, alla pena di mesi sei di reclusione per il ritenuto delitto continuato di cui agli artt. 12 comma 1 e 5 comma 8- bis d.lgs. 25/07/1998, n. 286 abbreviato in T.U. imm. e all'art. 497bis cod. pen. [rispettivamente capi a , b e c della rubrica], per aver compiuto atti diretti a favorire l'ingresso illegale nel territorio dello Stato del figlio minore, G.T. J.G., alterando il permesso di soggiorno a sé intestato, apparentemente rilasciato dalla Questura di Milano l'8/02/2006, sul quale apponeva la propria foto e quella del figlio minore con i relativi dati anagrafici, facendosi inoltre sorprendere possesso di una carta d'identità contraffatta apparentemente rilasciata dal Comune di Milano, il 1° marzo 2006, in favore del figlio minore, con le generalità e la fotografia di quest'ultimo fatti accertati in Ventimiglia il 14 ottobre 2006 . A ragione della decisione i giudici di mento hanno addotto la non contestata materialità dei fatti e l'insussistenza degli estremi della causa di giustificazione dello stato di necessità, invocata dall'imputata, la quale aveva allegato la grave malattia sofferta dal figlio polinevrite e l'inadeguatezza delle cure approntabili nel paese di origine, precisando il pericolo concreto di abbandono del minore, ove lasciato in Ecuador, dal momento che i suoi congiunti erano impossibilitati a prendersene cura e lei stessa aveva urgenza di rientrare in Italia dove era dedita a regolare attività lavorativa. Secondo i giudici di merito, la malattia pur seria del fanciullo non lo esponeva al pericolo attuale di un danno grave alla persona, in una situazione di incompatibilità con i tempi richiesti dal regolare espletamento della pratica di ricongiungimento familiare davanti alle Autorità italiane, essendo peraltro l'esimente dello stato di necessità invocabile solo in relazione all'art. 12 d.lgs. n. 286 del 1998 e non anche con riguardo ai pur contestati delitti di falso, non necessariamente funzionali al delitto di immigrazione clandestina. 2.1. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la T. A. personalmente, la quale, con il primo motivo, lamenta il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione, con riguardo alla non ravvisata ricorrenza della causa di giustificazione dello stato di necessità, di cui all'art. 54 cod. pen., neppure sotto il profilo putativo, essendo l'imputata convinta, per errore incolpevole, che le condizioni di salute del figlio fossero molto gravi e potenzialmente letali. Sottolinea la ricorrente che, comunque, l'eventuale dubbio sull'esistenza degli estremi dello stato di necessità avrebbe dovuto essere risolto a suo favore con il riconoscimento dell'esimente., sia per la necessità di assicurane tempestivamente al minore cure non approntabili nel paese di origine, sia per evitare l'abbandono del bambino in Ecuador, non potendo i suoi familiari occuparsi dello stesso. Aggiunge la ricorrente che erroneamente sarebbe stata esclusa la configurabilità dello stato di necessità con riguardo ai delitti di falso, essendo .essi funzionali e non indipendenti rispetto al reato di agevolazione dell'immigrazione clandestina del minore. 2.2. Con il secondo motivo la ricorrente sostiene l'errata qualificazione del delitto di possesso documento di identificazione falso sotto il titolo previsto dall'art. 497bis cod. pen , anziché come reato di cui agli artt. 477 e 489 cod. pen., punito con una sanzione meno grave, considerato che la carta di identità contraffatta di cui era in possesso, intestata al figlio minore, recava la dicitura di documento non valido per l’espatrio. Considerato in diritto 3. Il ricorso è fondato. 3.1. Va subito rilevato, in accoglimento del secondo motivo di gravame, l'errore di diritto in cui è incorsa la Corte territoriale nel ritenere integrato il delitto previsto dall'art. 497bis cod. pen., il quale postula che il documento di identità contraffatto contenga la clausola di validità per l'espatrio, mentre risulta per tabulas che la carta di identità intestata al minore, apparentemente rilasciata dal Comune di Milano il 1° marzo 2006, non era un documento valido per l'espatrio, con la conseguenza che il medesimo fatto, nei termini in cui è stato contestato all'imputata capo c non sussiste. 3.2. E' parimenti fondato il primo motivo del ricorso attinente ai delitti di cui ai capi a e b . Premesso che non sono controversi i profili storici del fatto, come emerge dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero la malattia polineurite da cui è affetto il figlio minore della T. e la mancanza di altri referenti parentali, nel paese di origine, in grado di occuparsi del minore e di assicurargli le cure mediche necessarie, nonché la regolarità del soggiorno dell'imputata in Italia dove svolge attività lavorativa, ha errato la Corte territoriale nel non ravvisare lo stato di necessità, quanto meno putativo, in cui si è trovata la T., indotta a portare con sé illegalmente il minore in Italia, alterando a tal fine il suo regolare permesso di soggiorno con l’inserimento in esso anche del proprio figlio, senza avviare la regolare procedura di ricongiungimento familiare prevista dall'art. 29 T.U. imm. per l'avvertita necessità di evitare di lasciare il minore nel paese di origine e assicurargli immediatamente idonee cure mediche in Italia, essendo l'Ecuador notoriamente un paese con un sistema sanitario più arretrato rispetto a quello italiano e dovendo la T. rientrare nel territorio nazionale per non perdere la sua unica fonte di reddito. Al riguardo è opportuno richiamare un recente sentenza di questa stessa sezione della Corte, la quale, in un caso analogo, ha escluso che sia ravvisabile il delitto previsto dall'art. 12, comma 1,. T.U. imm., cit., nella condotta del genitore straniero che faccia illegalmente ingresso nel territorio dello Stato portando con sé la propria figlia minorenne, da ricondurre invece alla meno grave fattispecie penale di ingresso illegale nello Stato, di cui all'art. 10bis dello stesso T.U. imm., inserito dall'art. l, comm.16, lett. a , della legge 15/07/2009, n. 94 Sez. 1, n. 23872 del 03/06/2010, dep. 22/06/2010, Rahimi, Rv. 247983 . L'art. 12 T.U. imm. prevede e punisce, infatti, condotte che si pongono, rispetto alla fattispecie dell’ingresso irregolare realizzato o tentato dal migrante, come di ausilio o concorso. Il delitto è, in altri termini, connotato dal requisito necessario della terzietà dell’agente rispetto all'immigrato o agli immigrati clandestini ed è da escludere che possa concernere l’”auto favoreggiamento”. Tale requisito della terzietà non è configurabile nei riguardi del figlio minore illegalmente introdotto nel territorio nazionale dai propri genitori, trattandosi di condotta, da un lato, resa addirittura doverosa dalla necessità dei genitori di non abbandonare il minore a loro affidato, e, dall'altro, interamente imputabile come fatto proprio agli stessi genitori, sicché per il principio dì responsabilità che accede alla potestà parentale, detta condotta non si presta ad essere ricondotta all'ipotesi del favoreggiamento dell'immigrazione di un terzo. Senza tacere che in tutti i procedimenti giurisdizionali finalizzati al dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'articolo 3, comma 1, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20/11/1989, ratificata e resa esecutiva in Italia ai sensi della legge 27/05/1991, n. 176. 4. Segue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché, per le ragioni anzidette, non sussiste il fatto di possesso di documento di identificazione falso, valido per l’espatrio reato di cui all'art. 497 bis cod. pen., contestato al capo c e perché l’imputata, con riguardo ai reati ascrittile ai capi a e b , salva la corretta qualificazione del fatto di cui al capo a come contravvenzione prevista dall'art 10bis, comma 1, T.U. imm., secondo il perspicuo precedente di questa Corte sopra richiamato, e considerata la stretta funzionalità ad essa del fatto contestato al capo b , non è punibile ai sensi dell'art. 54 cod. pen. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto di cui al capo c non sussiste e perché l’imputata non è punibile per i fatti di cui al capi a e b ai sensi dell'art. 54 cod. pen.