Acqua non potabile nel distributore automatico della stazione: senza prova della nocività non c’è reato

In stazione l’acqua non è potabile, ma per concretizzarsi il reato è necessario fornire la prova della nocività. Infatti, il concetto della non potabilità dell’acqua è differente dalla nocività della stessa.

La fattispecie decisa dalla sentenza della Terza sezione Penale del 20 gennaio 2011, n. 2375 è destinata a rimanere ben impressa nella mente dei viaggiatori, in quanto coinvolge l’applicazione del reato previsto e punito dagli articoli 5 e 6 legge n. 283/1962 recante la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande. Acqua non potabile presa dai bocchettoni della stazione. Ed infatti, era accaduto che l’imputato, nella sua qualità di socio di una cooperativa risultata appaltatrice dei servizi di rifornimento, pulizia e manutenzione dei distributori automatici di bevande distribuiva per il consumo o deteneva per la vendita di bevande con riscontrate cariche microbiotiche o comunque nocive acqua non potabile prelevata da bocchettoni presente nella stazione ferroviaria di Ventimiglia e destinata ad uso industriale inserendola, peraltro, in due taniche non periodicamente pulite che si trovavano proprio all’interno dei distributori automatici. Il Tribunale di Sanremo, sezione distaccata di Ventimiglia, sulla base delle analisi condotte dall’ARPAL condannava l’imputato per il delitto previsto dalla lettera d dell’articolo 5 legge n. 283/1962 che vieta di impiegare nella preparazione di alimenti o bevande sostanze insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione . In base ai risultati di quelle analisi, infatti, era emersa, da un lato, una carica batteriologica nell’acqua posta nei distributori automatici ma non nell’acqua che fuoriusciva dai bocchettoni ad uno industriale e, dall’altro lato, che le taniche non erano in uno stato ottimale di conservazione in quanto neppure sottoposte a disinfezioni periodiche. Tuttavia, per il Tribunale, era innegabile che l’acqua utilizzata – essendo destinata ad uso industriale – avesse un carattere nocivo in quanto non destinataria dei controlli previsti per l’acqua destinata a consumo umano. L’imputato propone, però, ricorso per cassazione lamentando essenzialmente che il reato in questione presuppone non l’ipotetica ed astratta possibilità di nocumento ma l’attitudine concreta ed immanente del prodotto a provocare un danno alla salute . Partendo da quel presupposto e in assenza di una prova della nocività dell’acqua, quindi, il reato non avrebbe potuto dirsi sussistente. Il pericolo deve essere concreto ed attuale. Orbene, la Suprema Corte decide di accogliere il ricorso dell’imputato annullando la sentenza impugnata e rinviando per un nuovo esame del contesto fattuale. Ed infatti, per la Suprema Corte, il Tribunale avrebbe commesso un errore di motivazione in quanto pur partendo dalla corretta premessa che la disposizione citata postula la prova della nocività dell’acqua utilizzata, finisce poi in realtà per incentrarsi unicamente sull’aspetto del mancato accertamento della potabilità dell’acqua medesima sottolineando l’esistenza di un pericolo astratto derivante dall’utilizzazione di essa per fini alimentare senza i controlli previsti dal d.lgs. n. 31/2001 . Viceversa, oggi, dopo il d.lgs. 31/2001 attuativo della dir. 98/83/CE e modificato dal d.lgs. 27/2001 che ha abrogato l’art. 21 del d.p.r. 236/88 ed ha trasformato in illeciti amministrativi molte delle ipotesi penali, il presidio penale per l’utilizzazione di acqua non potabile nella preparazione di prodotti destinati al consumo umano è dunque attualmente rappresentato dall’art. 5 lett. d L. 283/62, ove naturalmente non siano ipotizzabili più gravi reati . Quella disposizione, però, integra un reato di pericolo per la salute pubblica che deve essere concreto ed attuale del resto – osserva la Cassazione – anche il previgente articolo 21 d.p.r. 236/88 era un reato di danno che presupponeva, ai fini della sua consumazione, che fossero derivate conseguenze dannose per la salubrità del prodotto alimentare finale. La non potabilità dell’acqua è concetto diverso dalla nocività. Ecco allora che la motivazione avrebbe dovuto esprimere le ragioni per le quali la condotta contestata dovesse essere attratta nell’area dell’illecito penale, anziché in quella dell’illecito amministrativo non essendo a ciò sufficiente un riferimento ad un pericolo astratto. Ed infatti, il giudice aveva ritenuto sufficiente fare riferimento alla non potabilità dell’acqua che, però, è concetto diverso da quello di nocività dell’acqua come già affermato dalla Suprema Corte in altre occasioni sent. n. 9823/1995 . Ed inoltre – osserva la Corte - ove si dovessero invece ritenere assolutamente coincidenti gli ambiti operativi della disposizione penale e di quella attualmente costituente illecito amministrativo, in forza dell’art. 9 L. 689/81 non potrebbe che trovare applicazione quest’ultima disposizione poiché speciale rispetto all’altra . Senonché quest’ultima affermazione appare essere contraddetta dal terzo comma dello stesso articolo 9 in base al quale i fatti puniti dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 30 aprile 1962, n. 283 - e, cioè, proprio quelli oggetto del nostro processo - e successive modificazioni ed integrazioni, si applicano soltanto le disposizioni penali, anche quando i fatti stessi sono puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 novembre 2011 – 20 gennaio 2012, numero 2375 Presidente Mannino – Relatore Sarno Osserva M.M. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con la quale il tribunale di Sanremo, sezione distaccata di Ventimiglia, lo condannava alla pena dell'ammenda per il reato di cui agli articoli 5 lettera d e 6 legge 283/62. All'imputato era stato contestato il reato perché in qualità di socio della cooperativa SCAD, ditta appaltatrice per la stazione ferroviaria di omissis dei servizi di rifornimento, pulizia e manutenzione dei distributori automatici di bevande della ditta DDS di Imperia, riempendo con acqua non potabile destinata ad uso industriale e dunque non adatta al consumo umano prelevata da un bocchettone presente all'interno della detta stazione FS due taniche in plastica poste all'interno del suo distributori adibiti a contenere ed erogare acqua per la preparazione delle bevande calde e comunque non provvedendo ad effettuare una corretta pulizia delle taniche stesse, distribuiva per il consumo o deteneva per la vendita di bevande con riscontrate cariche microbiche o comunque nocive. Il tribunale rilevava come dalle analisi ARPAL era emersa la presenza di inquinamento batteriologico nell'acqua prelevata dalle taniche di entrambi i distributori automatici e che viceversa non si era evidenziata la presenza di inquinamento batteriologico nell'acqua erogata dal bocchettone sito sotto il livello del marciapiede dal quale era stata appunto prelevata l'acqua per il riempimento delle taniche. Evidenziava altresì che lo stato di conservazione delle taniche non era ottimale essendo emerso che quest'ultime non venivano nemmeno sottoposte a disinfezioni periodiche. Riteneva pertanto non raggiunta la prova della riconducibilità delle cariche microbiche riscontrate all'operazione compiuta dal M. sia per l'accertata inadeguatezza igienico - sanitaria delle taniche, sia per l'assenza di contaminazione batteriologica dell'acqua prelevata dal bocchettone. Per contro riteneva innegabile il carattere nocivo dell'acqua utilizzata per il rifornimento dei distributori in quanto proveniente da rete destinata ad uso industriale e non al consumo umano e, come tale, non sottoposta ai controlli previsti da d.lgs. 31/01. Deduce in questa sede il ricorrente la violazione dell'articolo 5 lettera d e la violazione dell'articolo 125 c.p.p., nonché il vizio di motivazione assumendo che il reato di cui all'articolo 5 lettera d presuppone non l'ipotetica ed astratta possibilità di nocumento ma l'attitudine concreta ed immanente del prodotto di provocare un danno alla salute e, che quindi, in assenza di alcuna concreta indicazione in ordine alla nocività dell'acqua utilizzata dall'imputato, il reato non poteva essere ritenuto sussistente. Motivi della decisione Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate. L'art. 5 L. 283/62 dispone che è vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo, sostanze alimentari omissis lett. d insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione Il tribunale, pur partendo dalla corretta premessa che la disposizione citata postula la prova della nocività dell'acqua utilizzata, finisce poi in realtà per incentrarsi unicamente sull'aspetto del mancato accertamento della potabilità dell'acqua medesima, sottolineando l'esistenza di un pericolo astratto derivante dall'utilizzazione di essa per fini alimentari senza i controlli prescritti dal d.lgs. 31/2001. Al riguardo, infatti, per un verso il tribunale ha ritenuto non decisivo l'esito negativo circa la contaminazione in esito al prelievo operato per stabilire la potabilità dell'acqua. Per altro verso, citando la nota dell'ASL numero dell'8 agosto 2007, ha rilevato che per definire l'acqua idonea al consumo umano e concedere l'utilizzo della stessa ai fini potabili, l'ASL deve valutare un insieme di fattori che vanno dalle caratteristiche acquifere di attingimento al sistema di presa, di trasporto e di distribuzione nonché al sistema di trattamento, ecc che qualsiasi operatore alimentare deve utilizzare per la preparazione degli alimenti acqua potabile e che l'approvvigionamento di acqua d'uso alimentare da un punto di prelievo ubicato lungo il cordolo di un binario ferroviario esposto ad agenti esterni e non sottoposti alle previste azioni di pulizia e disinfezione richiesta per tutte le attrezzature utilizzate nella preparazione degli alimenti può esporre l'acqua stessa a contaminazione con l'ambiente esterno. In questo modo, tuttavia, il tribunale omette di confrontarsi adeguatamente proprio con le disposizioni del decreto legislativo 2 febbraio 2001, numero 31 Attuazione della direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano , come modificato dal decreto legislativo 2 febbraio 2002 numero 27, menzionato. Lo stesso puntualizza all'art. 1, infatti, che Ai fini del presente decreto, si intende per a acque destinate al consumo umano 1 le acque trattate o non trattate, destinate ad uso potabile, per la preparazione di cibi e bevande, o per altri usi domestici, a prescindere dalla loro origine, siano esse fornite tramite una rete di distribuzione, mediante cisterne, in bottiglie o in contenitori 2 le acque utilizzate in un'impresa alimentare per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione o l'immissione sul mercato di prodotti o di sostanze destinate al consumo umano, escluse quelle, individuate ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera e , la cui qualità non può avere conseguenze sulla salubrità del prodotto alimentare finale All'art. 4. Obblighi generali prevede, inoltre, che 1. Le acque destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite. 2. Alfine di cui al comma 1, le acque destinate al consumo umano a non devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana b fatto salvo quanto previsto dagli articoli 13 e 16, devono soddisfare i requisiti minimi di cui alle parti A e B dell'allegato I c devono essere conformi a quanto previsto nei provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 14, comma 1. 3. omissis L'art. 19. Sanzioni stabilisce che 1. Chiunque fornisce acqua destinata al consumo umano, in violazione delle disposizioni di cui all'articolo 4, comma 2, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire venti milioni a lire centoventi milioni. 2. La violazione delle disposizioni di cui all'articolo 4, comma 2, secondo periodo, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire dieci milioni a lire sessanta milioni. 3. Si applica la stessa sanzione prevista al comma 2 a chiunque utilizza, in imprese alimentari, mediante incorporazione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione, l'immissione sul mercato di prodotti o sostanze destinate al consumo umano, acqua che, pur conforme al punto di consegna alle disposizioni di cui all'articolo 4, comma 2, non lo sia al punto in cui essa fuoriesce dal rubinetto, se l'acqua utilizzata ha conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale. 4.5.5 bis. omissis Infine l'art. 20 Norme transitorie e finali dispone che 1. Le disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, numero 236, cessano di avere efficacia al momento della effettiva vigenza delle disposizioni del presente decreto legislativo, conformemente a quanto previsto dall'articolo 15, fatte salve le proroghe concesse dalla Commissione Europea ai sensi dell'articolo 16. 2-3 omissis Risulta dunque abrogato l'art. 21 comma primo del D.P.R. 24 maggio 1988 numero 236 il quale, ai primi due commi, prevedeva come reato le seguenti condotte 1 salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque in violazione delle disposizioni del presente decreto fornisce al consumo umano acque che non presentano i requisiti di qualità previsti dall'allegato I è punito con l'ammenda da lire duecentocinquantamila a lire duemilioni o con l'arresto fino a tre anni. 2 la stessa pena si applica a chi utilizza acque che non presentano i requisiti di qualità previsti dall'allegato I in imprese alimentari, mediante incorporazione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione, l'immissione sul mercato di prodotti e sostanze destinate al consumo umano, se le acque hanno conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale. omissis . Riepilogando, come si evince dal combinato degli artt. 4 co. 2 lett. a e 19 d.lgs. 31/2001 attualmente rappresenta illecito amministrativo a l'utilizzo per il consumo umano di acque che non soddisfino le previsioni tabellari del decreto b l'utilizzo di quelle che contengano microrganismi e parassiti o altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana e l'utilizzo di quelle utilizzate in imprese alimentari mediante incorporazione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione, l'immissione sul mercato di prodotti o sostanze destinate al consumo umano, acqua che, pur conforme al punto di consegna alle disposizioni di cui all'articolo 4, comma 2, non lo sia al punto in cui essa fuoriesce dal rubinetto, qualora l'acqua utilizzata abbia conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale. Si può rilevare che non vi è piena sovrapponibilità tra le disposizioni abrogate e quelle che le hanno sostituite. Come evidenziato al punto b per il comma 1 dell'art. 21 si è operata la depenalizzazione richiedendo, tuttavia, anche il potenziale pericolo per la salute umana. Le conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale continuano a rilevare invece quale elemento costitutivo dell'illecito - anch'esso depenalizzato - di cui al punto c ma, a differenza della disposizione precedente, la norma attuale è limitata al caso in cui l'acqua sia conforme alle disposizioni del decreto al punto di consegna ma non al momento in cui fuoriesca dal rubinetto. Abrogato l’art. 21 DPR numero 236/88, il presidio penale per l'utilizzazione di acqua non potabile nella preparazione di prodotti destinati al consumo umano è dunque attualmente rappresentato dall'art. 5 lett. d L. 283/62 ove naturalmente non siano ipotizzabili più gravi reati. Tale disposizione richiede, tuttavia, la nocività del prodotto ed in questo senso, come costantemente affermato da questa Corte, si è in presenza di un reato di pericolo per la salute pubblica che deve essere però concreto ed attuale Sez. 3, numero 976 del 26/11/2003 Rv. 227840 . Del resto anche l'art. 21 co. 2 dell'abrogato DPR già costituiva un reato di danno che, per espressa disposizione di legge, veniva ad esistenza e consumazione soltanto se ed in quanto dall'uso di acque prive dei requisiti di legge, in imprese alimentari, mediante incorporazione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione o la immissione sul mercato di prodotti o sostanze destinate al consumo umano fossero derivate conseguenze dannose per la salubrità del prodotto alimentare finale Sez. 3, numero 449 del 24/11/1997 Rv. 209251 . Conclusivamente occorre quindi tenere distinta l'area dell'illecito amministrativo da quella penale ed indicare in motivazione le ragioni per le quali la condotta accertata si ritenga esulare dall'area dell'illecito amministrativo. Non si appalesa pertanto sufficiente, per le ragioni esposte, la sola constatazione della mancata osservanza delle disposizioni del DLvo 31/2001 o il riferimento ad un pericolo astratto. Peraltro che la nozione di non potabilità dell'acqua non coincida necessariamente con quella di nocività dell'acqua, è stato già affermato da questa Corte anche in relazione a questioni poste con riferimento ad altre tipologie di reati Sez. 1, numero 9823 del 13/07/1995 Rv. 202543 ed è anche del tutto evidente che ove si dovessero invece ritenere assolutamente coincidenti gli ambiti operativi della disposizione penale e di quella attualmente costituente illecito amministrativo, in forza dell'art. 9 L. 689/81, non potrebbe che trovare applicazione quest'ultima disposizione poiché speciale rispetto all'altra. La sentenza deve essere pertanto annullata con rinvio per consentire un nuovo esame che tenga conto dei principi affermati. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia al tribunale di Sanremo per nuovo esame.