Poliziotto si “incontra” con la compagna in una casa del Ministero: è reato

Condannato per abuso d’ufficio e rivelazione di segreti di ufficio l’assistente che, per avere un po’ di intimità con la sua donna, ha usato un immobile che l’amministrazione impiegava come alloggio per soggetti sottoposti a protezione rivelandone la destinazione.

L’utilizzo per incontri intimi, da parte di un poliziotto, di un appartamento locato dal Ministero e adibito ad alloggio per le persone sottoposte a protezione integra il reato di abuso d’ufficio. Il requisito della doppia ingiustizia sussiste in quanto da un lato vi è l’utilizzo dell’immobile per finalità estranee a quelle per il quale è adibito, dall’altro vi è il soddisfacimento di interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale, dato che, diversamente, per dar corso all’incontro intimo il pubblico ufficiale avrebbe dovuto impegnare una casa privata o un locale a pagamento. Così afferma la VI sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 1208/12, depositata il 16 gennaio scorso. Il caso. Un assistente della Polizia di Stato vive una relazione amorosa con una donna. La passione è forte, ma purtroppo i due non dispongono di uno spazio dove potersi concedere qualche momento di intimità. Il poliziotto pensa allora di utilizzare un appartamento che il Ministero degli Interni ha in locazione e usata come alloggio per i soggetti posti sotto protezione. L’uomo è pure sincero e racconta alla donna come normalmente viene utilizzata quella casa. È così che l’innamorato chiacchierone, accusato di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio, viene condannato dal Tribunale ad un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei due reati in continuazione tra loro. L’appello conferma la sentenza e il poliziotto ricorre in Cassazione. La Cassazione non può giudicare sull’attendibilità di un teste. Davanti alla Suprema Corte vengono proposti tutti gli argomenti possibili. Si comincia con il criticare la valutazione di attendibilità operata dai giudici di merito nei confronti della donna che ha riferito della confidenza ricevuta, ma i giudici di legittimità precisano come non sia tra i loro compiti quello di stabilire se un teste sia attendibile, dovendo solo accertare se la relativa valutazione del giudice di merito sia adeguata e rispondente alle regole della logica del diritto e nel caso specifico le precedenti decisioni non presentano apprezzabili vizi argomentativi di sorta. Raccontare alla donna che nella casa vengono ospitate le persone sotto protezione è reato. Il poliziotto cerca poi di difendersi sostenendo che la segretezza e la riservatezza dell’immobile era venuta meno in data anteriore a quella della consumazione del reato, a seguito di una comunicazione del servizio regionale di protezione. Quindi, anche sotto il profilo psicologico ben si poteva ritenere, per errore di fatto, che l’alloggio avesse perso la destinazione d’uso. Inoltre, a suo dire, né l’aver detto genericamente alla donna che quella era una casa nella disponibilità del Ministero, né l’averla materialmente condotta nei locali, può costituire rivelazione di notizie segrete. Purtroppo però la Corte rileva che alla comunicazione citata dal pubblico ufficiale non è stato dato riscontro con formale provvedimento ministeriale e, dunque, l’immobile non ha mai cambiato la sua destinazione. Inoltre, nella ricostruzione dei fatti è emerso come l’uomo sia stato molto preciso nel rivelare alla compagna l’utilizzo che si faceva della casa e quindi la commissione del reato di rivelazione di segreto d’ufficio è stata accerta. Utilizzare l’immobile per incontri intimi è abuso d’ufficio. Dall’altro capo d’accusa poi, il poliziotto prova a difendersi sostenendo che la sua condotta non può costituire reato in quanto l’uso dell’appartamento sarebbe consistito in una permanenza di pochi minuti, senza consumo di elettricità o acqua. A dire dell’imputato, non sussisterebbe alcun vantaggio patrimoniale ingiusto. L’azione non sarebbe poi da ricondurre nell’ambito delle sue funzioni o del suo servizio e mancherebbe il dolo intenzionale, stante l’erroneo convincimento circa la cessazione dell’utilizzo dell’immobile a fini istituzionali. La Corte taglia corto e, appurato che l’imputato ha condotto la donna nell’appartamento, verificato che l’appartamento era di appartenenza dell’amministrazione, constatato che l’imputato non ne aveva la disponibilità per usi privati, ma che era in grado di procurarsi le chiavi in ragione del suo servizio, ha ritenuto che ci fossero gli elementi sufficienti per ricondurre la condotta al paradigma dell’abuso d’ufficio. L’ingiusto vantaggio, in questo caso, consiste nell’aver usufruito gratuitamente dei locali per gli incontri intimi. La continuazione dei reati è possibile. Ulteriore argomento speso dalla difesa è quello secondo cui il reato di abuso d’ufficio, per il suo carattere di residualità, non può concorrere con quello di rivelazione di segreti di ufficio, considerando inoltre che, a detta dell’imputato, la Corte d’appello ha fatto riferimento alle identiche condotte per ritenere integrate entrambe le fattispecie. La Suprema Corte ha però precisato come non venga in questione la clausola di consunzione contenuta nella norma che disciplina l’abuso d’ufficio e che suppone la integrazione di un più grave reato. Del resto, la rilevazione di segreti di ufficio è punita con la stessa pena dell’abuso. Viene invece in questione il principio della non assoggettabilità a duplice sanzione penale di una condotta derivante da un unico abuso di funzioni. Ma, al riguardo, va osservato che non ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose . Del resto condurre la compagna nell’appartamento e rivelarle la destinazione dell’immobile costituiscono due distinte e successive condotte, riconducibili ciascuna alle ipotesi di reato contestate.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 26 settembre 2011 – 16 gennaio 2012, n. 1208 Presidente Mannino – Relatore Conti Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza in data 20 aprile 2009 del Tribunale di Cagliari, appellata da C.G. , condannato alla pena di un anno di reclusione, condizionalmente sospesa, in quanto responsabile dei seguenti reati, in continuazione tra loro A del reato di cui all'art. 323 cod. pen., per avere, nella qualità di assistente della Polizia di Stato in servizio presso il Nucleo Operativo di Protezione per la Sardegna, in violazione dell'art. 10 comma 2-ter legge 15 marzo 1991, n. 82, utilizzato per uso personale un appartamento sito nella via omissis , preso in locazione dal Ministero degli interni per adibirlo ad alloggio di soggetti sotto protezione, conducendovi N.N. e trattenendosi con la stessa per un certo tempo B del reato di cui all'art. 326, comma primo, cod. pen., per avere, nella predetta qualità, violando i doveri inerenti la sua funzione e il suo servizio e in particolare le disposizioni normative circa il dovere di segreto su tutte le attività riguardanti il servizio di protezione, rivelato alla N. che l'appartamento nella quale essi si stavano trattenendo era adibito alla protezione di collaboratori. Fatti commessi in omissis . 2. Osservava la Corte di appello che le prove della responsabilità dell'imputato derivavano dalle dichiarazioni della N. rese a seguito della rottura della relazione sentimentale con il C. , ritenute attendibili nonostante l'astio che l'aveva mossa nei confronti del C. e nonostante alcune incertezze di ricordi, riscontrate da dati obiettivi, e in particolare dalle caratteristiche dell'appartamento di cui alle imputazioni, essendo di nessuna consistenza l'alibi dedotto dall'imputato. Ricorrevano entrambi i reati, non potendosi dire che quello di abuso di ufficio fosse assorbito in quello di rivelazione di segreti di ufficio, posto che il primo reato era stato integrato non solo dal fatto della rivelazione di segreti di ufficio ma anche dall'uso indebito dell'appartamento. 3. Ricorrono per cassazione l'imputato, a mezzo dei difensori avvocati Patrizio Rovelli e Gian Mario Sechi, che deducono i seguenti motivi. 3.1. Inosservanza dell'art. 194 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in punto di valutazione della attendibilità della N. , che in sede di denuncia aveva dichiarato che il C. solo alcuni giorni dopo la loro permanenza nell'appartamento gli aveva rivelato che si trattava di immobile in uso all'ufficio mentre in dibattimento ha riferito che tale confidenza gli venne fatta in quello stesso contesto, tanto che essa, preoccupata per tale improprio uso, aveva deciso dì non trattenersi ulteriormente in esso. Era sfuggito alla Corte di appello che questa seconda versione era idonea ad allontanare qualunque ipotesi di corresponsabilità della M. ed era comunque scarsamente credibile, non comprendendosi per quale motivo il C. , dopo aver detto alla donna che l'immobile era stato da lui affittato per adibirlo a luogo di comune convivenza, avesse subito dopo sentito l'esigenza di smentirsi e di dirle che in realtà si trattava di appartamento in uso all'amministrazione. 3.2. Inosservanza degli artt. 326, 43 e 47 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di rivelazione di segreti di ufficio, posto che a la segretezza e la riservatezza dell'immobile era venuta meno già in data 19 novembre 2004, quando il responsabile del servizio regionale di protezione aveva comunicato al Ministero che l'appartamento aveva perso tali caratteristiche, anche a seguito del fatto che la compagna di un collaboratore di giustizia lo aveva lasciato abbandonando il programma di protezione b la generica dichiarazione che il C. avrebbe reso alla N. secondo cui si trattava di immobile locato dall'Ufficio non comportava alcuna rivelazione di notizie segrete c neppure il materiale accesso all'immobile poteva integrare la rivelazione d sotto il profilo psicologico, poi, il C. ben poteva ritenere, per errore di fatto, che l'immobile avesse perso la destinazione ad uso di alloggio di collaboratori data la comunicazione formale fatta dal dirigente dell'Ufficio di cui sopra e considerato l'abbandono del programma di protezione dei precedenti inquilini. 3.3. Inosservanza dell'art. 323 cod. pen. e vizio di motivazione in punto di configurabilità del reato di abuso di ufficio, posto che a il reato, per il suo carattere di residualità, non può concorrere con quello di rivelazione di segreti di ufficio, tanto più che per ritenere integrate entrambe le fattispecie la Corte di appello hanno fatto riferimento alle identiche condotte comunicazione verbale e condotta materiale e in ogni caso nel caso in esame l'uso dell'appartamento sarebbe consistito in una permanenza di quindici-venti minuti, senza utilizzo di acqua o elettricità, essendo allora le utenze state distaccate b non sussisteva la violazione della norma richiamata, perché questa se aveva un collegamento con la rivelazione di segreto di ufficio non lo aveva con il vantaggio patrimoniale derivante dall'abuso di ufficio c era insussistente un vantaggio patrimoniale ingiusto, trattandosi di un uso dell'appartamento limitato a pochi minuti, né era stata offerta motivazione sul requisito della cd. doppia ingiustizia d il C. non aveva agito nell'ambito delle sue funzioni o del suo servizio, non valendo a tal fine che egli avesse la materiale disponibilità delle chiavi dell'appartamento e non sussisteva il dolo intenzionale, come sostenutosi nell'atto di appello sulla base di rilievi cui non è stata data alcuna risposta, in particolare rimarcandosi che il C. ben poteva ritenere, per ciò che si è detto, che l'immobile non fosse più utilizzabile a fini istituzionali. Considerato in diritto 1. Il ricorso, in tutti i suoi aspetti, appare infondato. 2. Va premesso che, come d'altra parte si riconosce nel ricorso, la Corte di cassazione non ha il compito di stabilire se un teste sia attendibile, dovendo solo accertare se la relativa valutazione del giudice di merito sia adeguata e rispondente alle regole della logica e del diritto. Nel caso in esame non sono apprezzabili vizi argomentativi di sorta. 3. Quanto alla contestazione di cui al capo A , non appare controvertibile che il C. abbia condotto la N. , con la quale aveva una relazione sentimentale, nell'appartamento di via omissis . Tale appartamento era di appartenenza dell'amministrazione, e certamente il C. non ne aveva la disponibilità per usi privati. Egli, in ragione del suo servizio quale appartenente al Nucleo Operativo Protezione per la Sardegna , era in grado di procurarsi le chiavi dell'appartamento, e tanto basta per ricondurre questa condotta al paradigma dell'abuso di ufficio. L'indebito utilizzo dello stesso ha infatti procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale per il C. , atteso che egli, per il suo incontro intimo con la M. , ha usufruito gratuitamente, sia pure per un limitato spazio temporale, dei relativi locali, nulla rilevando, in particolare, che la breve permanenza non abbia comportato consumi di acqua o elettricità, né che le relative utenze fossero distaccate. Sussiste all'evidenza il requisito della doppia ingiustizia il C. non poteva utilizzare l'immobile per usi estranei a quelli per i quali esso era adibito e in concreto tale uso ha soddisfatto interessi privati con relativo vantaggio patrimoniale, dato che, diversamente, per dare corso all'incontro intimo egli avrebbe dovuto impegnare una casa privata o, più verosimilmente, un locale a pagamento, quale ad esempio una camera di albergo. 4. Bene è stata ritenuta la configurabilità dell'ulteriore reato di cui all'art. 326 cod. pen Non viene in questione la clausola di consunzione di cui all'art. 323 cod. pen., che suppone la integrazione di un più grave reato, atteso che il reato di cui all'art. 326 cod. pen. è punito con la stessa pena stabilita per il reato di abuso di ufficio. Viene invece in questione il principio della non assoggettabilità a duplice sanzione penale di una condotta derivante da un unico abuso di funzioni v. tra le altre, proprio in tema di rapporti tra abuso di ufficio e rivelazione di segreti di ufficio, Sez. 6, n. 7960 del 09/06/1997, Palumbo, Rv. 209757 . Ma, al riguardo, va osservato che no ricorre nel caso in esame un’unica condotta inquadrabile in plurime figure criminose. Infatti, il C. , dopo avere condotto la N. nell’appartamento, le comunicò che si trattava di immobile destinato alla protezione di collaboratori si tratta dunque di due distinte e successive condotte, riconducibili ciascuna alle ipotesi criminose contestate vedi, per analoga fattispecie, Sez. 5, n. 1491 del 15/11/2005, dep. 2006, Cavallari, Rv. 233044 . Non rileva che l’ufficio regionale di Cagliari abbia comunicato al Ministero che l’appartamento aveva perso tali caratteristiche funzionali, dato che a tale comunicazione non era stato dato riscontro con formale provvedimento ministeriale, di competenza esclusiva della commissione centrale di protezione che anzi successivamente ai fatti di causa lo stesso appartamento venne adibito ad alloggio di altro collaboratore di giustizia. Né può ragionevolmente sostenersi che il C. abbia in buona fede ritenuto che tale destinazione fosse venuta meno prima ancora del formale provvedimento dell’organo centrale. 5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.