Figlia violentata dal padre, nessuna corresponsabilità della madre se non lo ha denunciato

Cinque anni di abusi tra le mura domestiche. Confermata la condanna nei confronti dell’uomo. La posizione della donna, invece, viene rimessa in discussione l’obbligo di intervento non comporta l’obbligo di denuncia. E anche l’allontanamento della ragazza dalla famiglia può essere un’azione adeguata.

5 anni di abusi sulla figlia. Per il padre prima le infamanti accuse e poi la condanna a sei anni di carcere. Ma gli ignobili episodi sembrano coinvolgere anche la moglie, a cui si imputa il fatto di non avere impedito il crimine. Tuttavia, la denuncia nei confronti del marito – chiarisce la Cassazione, con sentenza n. 1369, sezione Terza Penale, depositata oggi – non è obbligatoria, anche altre azioni – come l’allontanamento della figlia da casa – possono essere considerate intervento utile a ‘bloccare’ il crimine. Genitori sotto accusa. I terribili racconti di una ragazzina sconvolgono un’intera famiglia ella, difatti, afferma di aver subito le violenze sessuali compiute dal padre. Prima le confidenze con un’amica, poi i dettagli descritti all’assistente e ai giudici per l’uomo non c’è via di scampo. Così, arriva la condanna emessa dal Giudice delle indagini preliminari e confermata dalla Corte d’Appello sei anni di carcere, in tutto. Ma sorte simile tocca anche alla moglie – con una pena ridotta a quattro anni di reclusione, in secondo grado –, perché ritenuta colpevole dei medesimi reati per aver consentito al marito di appartarsi con la figlia e di compiere gli abusi sessuali ed omettendo di denunciare i fatti, in violazione del dovere di impedire l’evento . Violenza e responsabilità. La delicata vicenda arriva sino in Cassazione. Sono marito e moglie a presentare ricorso, percorrendo però strade difensive diverse e mirando ad obiettivi diversi. L’uomo contesta addirittura la ricostruzione dei fatti, contestando l’attendibilità della figlia come vittima e richiamandone anche la ritrattazione compiuta in udienza preliminare. La donna, invece, mira a rivendicare la legittimità del proprio operato, consistito nell’aver allontanato la ragazza dalle mura domestiche, e a contestare l’ipotesi della sua corresponsabilità per i crimini compiuti dal marito. Fatti chiari. Le differenti strade seguite dai due genitori sono ancora più distanti agli occhi dei giudici di Cassazione. Per questi ultimi, difatti, la posizione dell’uomo è netta i crimini a lui addebitati sono acclarati, perché le dichiarazioni accusatorie sono state ritenute precise, coerenti e costanti nonché riscontrate dalle testimonianze delle persone che avevano raccolto le confidenze della vittima, e perché mai la ragazza aveva manifestato atteggiamenti psicologici rilevanti sotto il profilo patologico . E la ritrattazione? Irrilevante , e comunque qualificabile come un tentativo di sminuire la responsabilità del genitore . Molto più complessa la valutazione sulla posizione della donna. Secondo la Corte d’Appello, la madre della ragazza era a conoscenza dei comportamenti illeciti del marito, ma non aveva adempiuto all’obbligo giuridico di impedire l’evento perché non aveva denunciato il marito , e proprio su questo punto si soffermano i giudici di Cassazione, chiarendo che non esiste l’obbligo di denunciare il marito. Piuttosto, esiste l’obbligo di effettuare un intervento idoneo ad impedire l’evento, ivi compresa eventualmente anche la denuncia del coniuge, sempre però che non vi sia la possibilità di altri interventi idonei . Ebbene, la pronuncia di secondo grado, da un lato, richiama la scelta della donna di mandare la figlia in un istituto, lontano dal luogo di residenza familiare e, quindi, dal padre, ma, dall’altro, non chiarisce come mai tale decisione non possa essere considerata utile a soddisfare l’obbligo di intervento . Per questo motivo, la condanna della donna viene rimessa in discussione – mentre quella dell’uomo viene confermata in pieno –, affidando la valutazione delle sue azioni alla Corte d’Appello.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 ottobre 2011 – 17 gennaio 2012, n. 1369 Presidente Mannino – Relatore Franco Svolgimento del processo Con la sentenza in epigrafe la corte d'appello di Catanzaro revocò a seguito di rinuncia della parte civile le statuizioni civili e confermò nel resto la sentenza emessa il 22.9.2008 dal Gip del tribunale di Vibo Valentia, che aveva dichiarato V. F. colpevole del reato di cui agli artt. 609 quater ult. comma, in relazione all'art. 609 ter , comma 2, e 609 bis , 61, n. 11, cod. pen. per avere con la forza costretto la figlia minore V. G., da quando questa aveva sette anni a quando ne aveva dodici, a subire atti sessuali, e lo aveva condannato alla pena di anni sei di reclusione, oltre pene accessorie, ed aveva altresì dichiarato la moglie R. F. colpevole dei medesimi reati in relazione all’art. 40, comma 2, cod. pen., per avere concorso con il marito nella commissione degli stessi, consentendo al marito di appartarsi con la figlia e di compiere gli abusi sessuali ed omettendo di denunciare i fatti alla autorità in violazione del dovere di impedire l'evento, e la aveva condannata alla pena di anni quattro di reclusione. Gli imputati propongono personalmente ricorso per cassazione deducendo A1 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione su punti specifici indicati nei motivi di appello, limitandosi la sentenza impugnata ad una comoda ed acritica motivazione per relationem , senza dar conto degli specifici motivi di impugnazione. A2 mancanza e mera apparenza della motivazione mancata presa d'atto delle censure defensionali contenute nei motivi di gravame e degli atti processuali ivi menzionati, travisamento del fatto e della prova. Lamentano che la corte ha omesso di valutare gli elementi a discarico aventi carattere di decisività, ed in particolare ha omesso di esaminare i motivi di appello relativi a al ruolo svolto dall'assistente A.C., che ha fatto ampio uso di domande suggestive condizionando le dichiarazioni della ragazza b al ruolo di G. R., che aveva condizionato l’amica c alla persona offesa ed alla attendibilità della medesima, nonché al fatto che l'intera sua deposizione era stata connotata da incoerenza, incertezza, contraddittorietà d alla ritrattazione della ragazza. 2 quanto alla posizione di garanzia ed alla responsabilità della R., si lamenta motivazione apparente ed assertiva. 3 lamentano che la motivazione della sentenza impugnata è una mera frammentaria enumerazione di una serie di passaggi argomentativi totalmente scoordinati tra loro e fondata su una ricostruzione meramente congetturale. B violazione delle regole sulla valutazione delle prove non avendo la Corte usato la cautela ed il rigore che esigono le dichiarazioni dei minori, specie se vittime di reati sessuali. C violazione degli artt. 40 cpv., 609 quater ult. co., 609 ter co. 2, 609 bis cod. pen., circa il ruolo e la posizione di garanzia assunta dalla R, insufficienza e manifesta illogicità della motivazione, assenza di motivazione sui motivi di appello. Si lamenta che non sussistono gli estremi di una responsabilità omissiva, e in particolare manca la prova della volontà delle inosservanze agli obblighi e della loro finalizzazione alla realizzazione dell'evento antigiuridico. Manca poi la prova della possibilità materiale di tenere l'azione impeditiva. Non è infine neppure configurabile una ipotesi concorsuale. D inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 546 cod. proc. pen. per l'omessa enunciazione delle ragioni per le quali sono state ritenute non attendibili le prove contrarie. In particolare la corte non ha risposto al motivo di gravame con il quale si erano chieste le ragioni per le quali il giudice aveva acriticamente aderito alle conclusioni del CT del PM, tralasciando il contenuto della relazione della difesa, che non è stata nemmeno menzionata. Motivi della decisione Ritiene il Collegio che il ricorso del V. sia infondato, in quanto il giudice del merito ha fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali ha ritenuto, in punto di fatto, che sussisteva la prova che il V. avesse tenuto i comportamenti addebitatigli e che fosse responsabile dei reati per i quali è intervenuta condanna. La corte ha invero basato il suo convincimento sulle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, ritenute precise, coerenti e costanti nonché riscontrate dalle testimonianze delle persone che ne avevano raccolto le confidenze, senza che mai la ragazza avesse manifestato atteggiamenti psicologici rilevanti sotto il profilo patologico. Del resto, il consulente medico legale del PM aveva escluso disturbi della percezione o della memoria ed aveva considerato come rientranti nella normalità i tempi e le modalità di rivelazione dell'abuso sessuale. E' vero che la sentenza impugnata ha illegittimamente fatto riferimento ad un colloquio del consulente con il V., il quale in quella occasione gli avrebbe confessato l'abuso sessuale . Queste dichiarazioni, rese nel corso delle indagini preliminari, dall'imputato al consulente tecnico del PM senza alcun rispetto delle garanzie difensive, sono infatti inutilizzabili. Ciò tuttavia non comporta l'annullamento della sentenza impugnata, dal momento che le dette dichiarazioni sono risultate in pratica irrilevanti ai fini della decisione adottata, la quale si fonda su altri elementi di prova, e principalmente sulle dichiarazioni della persona offesa ritenute pienamente credibili ed anche riscontrate da quelle degli altri testi, con i quali la ragazza si era confidata. Quanto alla ritrattazione che sarebbe stata compiuta dalla ragazza nell'udienza preliminare, la corte d'appello la ha plausibilmente ritenuta irrilevante rilevando che la ragazza, probabilmente per sminuire la responsabilità del genitori, aveva in quella occasione escluso di essere stata penetrata, ma aveva confermato gli episodi di violenza sessuale subiti ad opera del padre. Ritiene poi il Collegio che la corte d'appello abbia anche implicitamente escluso - anche rinviando alla motivazione della sentenza di primo grado -che le dichiarazioni della persona offesa potessero essere state condizionate dall'assistente sociale C., che avrebbe fatto uso di domande suggestive, o dalla amica R., che le aveva raccontato di abusi da lei subiti. Il ricorso del V. deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. E' invece fondato il ricorso della R La corte d'appello, dopo aver ritenuto che la R. fosse a conoscenza dei comportamenti illeciti che il marito teneva nei confronti della figlia, ha anche ritenuto che l'imputata non avesse adempiuto al suo obbligo giuridico di impedire l'evento perché non aveva denunciato il marito. Sembra però che questa conclusione sia frutto di una erronea interpretazione delle decisioni di questa Corte, ed in particolare della sentenza di questa Sezione n. 11243 del 4.2.2010, R., m. 246259, massimata nel senso che & lt & lt il genitore esercente la potestà sul figlio minore vittima di abusi sessuali commessi dal coniuge risponde del reato se, venuto a conoscenza di detti abusi, omette un intervento diretto a impedire l'evento. Nella specie, relativa ad abusi sessuali commessi dal padre ai danni della figlia minore e personalmente constatati dalla madre, la Corte ha affermato che l'obbligo di intervento imponeva a quest'ultima di denunciare il marito . Sennonché con questa decisione non è stato affermato che l'obbligo di intervento impone in ogni caso alla madre di denunciare senz'altro il marito, bensì che le impone di effettuare un intervento comunque idoneo ad impedire l'evento, ivi compresa eventualmente anche la denuncia del coniuge, sempre però che non vi sia la possibilità di altri interventi idonei. Non è quindi mutata la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui & lt & lt Il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 cod. civ., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell'integrità psico - fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all'art. 40 cpv. cod. pen. degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate a dalla conoscenza o conoscibilità dell'evento, b dalla conoscenza o riconoscibilità dell'azione doverosa incombente sul '' garante c dalla possibilità oggettiva di impedire l'evento” Sez. III, 14.12.2007, n. 4730, B., m. 238698 . Ora, sul punto la motivazione della sentenza impugnata è non solo carente perché non spiega le ragioni per le quali si debba ritenere che la G. si fosse astenuta, con coscienza e volontà, dall'attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento cfr. Sez. III., n. 6208 del 1997, Ciciani, m. 208804 , ma è altresì contraddittoria. Infatti, dapprima a pag. 8 la corte accerta che la G. aveva mandato la figlia in un istituto, lontano dal luogo di residenza familiare, ritenendo che questa iniziativa non poteva essere stata giustificata dalle presunte attenzioni di un vicino novantenne bensì era stata determinata proprio dalla finalità di impedirgli abusi provenienti dal padre, allontanando la bambina da casa. Subito dopo pag. 9 però la sentenza impugnata afferma che la G. non aveva adempiuto all'obbligo di impedire l'evento perché non aveva denunciato il marito. La corte d'appello tuttavia non spiega perché l'allontanamento della figlia ed il suo internamento in un istituto lontano dal luogo di residenza familiare e dal padre non potessero concretare iniziative idonee a far ritenere soddisfatto l'obbligo di intervento e perché invece occorresse addirittura la denuncia del marito. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata nei confronti di R.F., con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Catanzaro per nuovo esame. Per questi motivi La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata nei confronti di R. F. e rinvia ad altra sezione della corte d'appello di Catanzaro per nuovo esame. Rigetta il ricorso di V. F. e lo condanna al pagamento delle spese processuali.