Pena patteggiata, ma condanna alle spese? Sì al ricorso per cassazione

È ricorribile per Cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla refusione delle spese di parte civile, sia per quanto attiene alla legalità della somma liquidata, sia per quanto attiene all’esistenza di una corretta motivazione sul punto, anche se, sulla relativa richiesta, nulla sia stato eccepito durante l’udienza di discussione del rito pattizio.

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40288/2011 depositata il 7 novembre. Il caso. Due soggetti imputati del reato di falsità materiale commessa da un privato in atti pubblici art. 482 c.p. , avevano raggiunto un accordo con il Pubblico Ministero per l’applicazione di pena concordata il c.d. rito del patteggiamento previsto dagli artt. 444 e ss. c.p.p. , di mesi 4 di reclusione, con riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e concessione della sospensione condizionale della pena. Il Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Sansepolcro, aveva accolto la richiesta pronunciando sentenza di condanna alla pena concordata e al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile liquidate in complessivi euro 3.098,72 oltre IVA e CPA. Gli imputati, evidentemente ritenendo eccessiva la somma globalmente liquidata, avevano proposto ricorso per cassazione contro questa parte della sentenza denunciando i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione. In particolare, lamentavano il fatto che il giudice non avesse fornito adeguata e analitica motivazione delle spese e degli onorari liquidati contestavano, inoltre, che alcuni voci di spesa ricomprese nella nota, non trovavano riscontri obiettivi nell’attività effettivamente svolta dalla parte civile data la peculiare natura del rito del patteggiamento per altre voci, invece, non erano stati rispettati i limiti previsti dalle tariffe professionali. Serve l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La Quinta sezione della Corte di Cassazione alla quale era stato assegnato il ricorso, registrava l’esistenza di un netto contrasto giurisprudenziale tra le varie sezioni semplici che necessitava di una composizione ad opera delle Sezioni Unite. Opposte soluzioni interpretative erano, infatti, state date in precedenti sentenze, sulla questione principale se fosse ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla refusione delle spese di parte civile, sia sotto il profilo della congruità delle somme liquidate, sia sotto il profilo della necessità di una motivazione coerente sul punto da parte del giudicante. Altra questione strettamente connessa riguardava la possibilità di proporre ricorso anche se la parte interessata non aveva avanzato specifica eccezione sul punto al giudice in quel momento investito della richiesta di patteggiamento e di liquidazione delle spese della parte civile. Con la sentenza in esame, le Sezioni Unite, come da prassi motivazionale, hanno in primo luogo evidenziato gli opposti indirizzi interpretativi delle sezioni semplici formatisi sulla questione relativa alla necessità di motivazione, in sentenza, della determinazione delle somme liquidate alla parte civile, questione che si interseca con quella più generale relativa ai caratteri della decisione sul rito del patteggiamento previsto dall’art. 444 c.p.p. e sull’estensione dell’accordo delle parti. Per il primo orientamento le spese di parte civile non rientrano nell’accordo sì al ricorso per cassazione. Il primo indirizzo ritiene che l’accordo raggiunto tra il Pubblico Ministero e l’imputato abbia esclusivamente ad oggetto gli aspetti penalistici e sanzionatori, per cui la liquidazione delle spese di parte civile che è una parte del risarcimento del danno in favore del danneggiato dal reato , non rientrando nell’accordo, può essere impugnata mediante ricorso per cassazione secondo le ordinarie regole di censura di legittimità della decisione giudiziale, riguardanti la pertinenza delle voci di spesa e la loro documentazione e congruità. Con il corollario che per consentire siffatto controllo è necessario che il giudice fornisca adeguata motivazione. Pertanto anche il vizio di motivazione può essere fatto valere in Cassazione, perché non consente alle parti di verificare il rispetto dei criteri e delle condizioni di legge stabiliti dalle tariffe. L’opposto indirizzo sostiene che la statuizione sulle spese di parte civile rientri nell’accordo patteggiativo. Questo, infatti, secondo tale orientamento, è necessariamente oggetto di conoscenza da parte dell’imputato che abbia avanzato la richiesta di applicazione di pena concordata. La conseguenza è che il ricorso per cassazione sulla parte relativa alla liquidazione delle spese non è ammissibile, dovendo l’imputato sollevare specifica eccezione sui contenuti della nota spese nel corso dell’udienza prima che venga formalizzato al giudice l’accordo sull’applicazione della pena. È deciso sì al ricorso. Le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover condividere le tesi del primo orientamento, attraverso un’analisi testuale del contenuto dell’art. 444 c.p.p. e alcune argomentazioni di carattere logico e sistematico. Nel dettaglio, la Corte ha sostenuto che il comma secondo dell’art. 444 c.p.p. esclude in maniera evidente il danneggiato dalla possibilità di partecipare all’accordo, pur avendo quest’ultimo la possibilità di rappresentare al giudice alcune circostanze, ad esempio riguardanti la gravità del danno derivante dal reato e delle sue conseguenze, che possono indurre il giudice a respingere l’accordo o a subordine la richiesta di concessione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno. Tuttavia, è indubbio che il danneggiato non partecipa all’accordo che riguarda solo ed esclusivamente gli aspetti penalistico-sanzionatori del fatto di reato commesso dall’imputato. La conferma di tale conclusione è data dalla previsione contenuta nella parte finale del comma secondo dell’art. 444 c.p.p. secondo la quale se il giudice accoglie la richiesta di patteggiamento, e vi è stata costituzione di parte civile, vale a dire se il danneggiato si è costituito nel giudizio penale tramite il suo procuratore speciale per chiedere il risarcimento del danno procuratogli dall’imputato, il giudice non decide sulla relativa domanda , cioè non può procedere ad accertare e liquidare il danno. In altre parole, il patteggiamento blocca la liquidazione del danno. Al giudice, invece, non è preclusa la possibilità di liquidare le spese sostenute dalla parte civile. Il divieto di pronunciarsi sul risarcimento del danno dimostra che al danneggiato non è data la possibilità di entrare nell’accordo. Allo stesso modo, non è data al danneggiato la possibilità di raggiungere con l’imputato un accordo parallelo sulle spese sostenute. A una tale soluzione osterebbero, secondo le Sezioni Unite, alcune facoltà che al giudice sono riservate sulla valutazione della costituzione di parte civile e sulla liquidazione delle spese. Il giudice potrebbe, innanzitutto, ritenere il danneggiato privo di legittimazione ad agire ad esempio perché potrebbe risultare che il titolare del diritto leso dal reato sia altro soggetto , così non ammettendo la costituzione di parte civile in secondo luogo il giudice potrebbe disporre la compensazione delle spese, cioè non condannare l’imputato alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile in terzo luogo il giudice potrebbe procedere alla liquidazione delle spese, anche in mancanza di specifica nota di liquidazione della parte civile, sulla base della tariffa professionale vigente. Anche la necessità, postulata dal secondo degli orientamenti sopra riportati, di sollevare specifica eccezione sulla richiesta di refusione delle spese nel corso dell’udienza, è destituita di fondamento perché la presentazione della nota spese, come si è visto, non è necessaria, potendo il giudice liquidare le spese anche sulla base delle tariffe professionali. Inoltre la decisione sulle spese interviene, secondo la Corte, dopo che il giudice ha positivamente vagliato la richiesta di patteggiamento. Perché la domanda di refusione delle spese di parte civile è estranea all’accordo. Il principio affermato dalle Sezioni Unite comporta che la relativa decisione sia qualificabile come sentenza di condanna contro la quale la parte interessata è legittimata a proporre ricorso per cassazione per far valere i vizi attinenti alla pertinenza delle voci di spesa, alla loro congruità e documentazione. Ne consegue che, sussiste il dovere del giudice di fornire adeguata motivazione sulle singole voci, in rapporto all’attività svolta dal difensore, sulla loro congruità in relazione all’importanza e al grado di difficoltà delle questioni trattate. La mancanza di motivazione costituisce vizio di legittimità che conduce all’annullamento della sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla liquidazione delle spese in favore della parte civile, così come si è verificato nel caso in esame. Le Sezioni Unite, applicando il disposto dell’art. 622 c.p.p., hanno tuttavia rimesso la causa al giudice civile competente per valore in grado di appello, trattandosi di valutare esclusivamente l’entità delle spese da liquidare.

In materia di demansionamento, il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni non è automatico e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e le caratteristiche del pregiudizio lamentato. Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20663 del 7 ottobre. La fattispecie. Una dipendente pubblica della Regione Valle d'Aosta si rivolgeva al Tribunale lamentando un demansionamento professionale e chiedendo il relativo risarcimento dei danni. La domanda veniva accolta in primo e secondo grado e la Regione, datrice di lavoro, proponeva ricorso per cassazione. Lavoratrice costretta all'inattività c'è il demansionamento. La pretesa risarcitoria della lavoratrice è fondata sulla lesione del diritto all'espletamento dell'incarico attribuito. Nel caso di specie, è stato accertato che la dipendente è stata costretta ad una sostanziale inattività perché il conferimento di un incarico dirigenziale si è rivelato puramente formale, essendo in realtà privo di contenuto professionale al servizio di controllo di gestione affidatole non erano stati assegnati né personale né risorse finanziarie. Tanto basta per ritenere leso il diritto, riconosciuto ai lavoratori dalla normativa in materia, ad essere adibiti alle mansioni proprie della qualifica. Ma il danno non è automatico. Tanto premesso, la S.C. ritiene fondato il motivo di ricorso della datrice di lavoro e riconosce che l'errore in cui è incorsa la Corte d'appello è stato quello di far discendere automaticamente da tale demansionamento un danno, pur in mancanza della prova di uno specifico pregiudizio di natura patrimoniale. Serve la prova. Infatti, incombe sul lavoratore l'onere di provare in giudizio il danno subito, con tutti i mezzi consentiti, anche mediante presunzioni. Nel caso di specie, invece, la prova de quo manca del tutto, perché si lamentano danni in carriera e perdita di chance, senza però specificare quali siano state le chances perdute e in cosa si sia concretizzato il danno alla carriera. Per questi motivi, la S.C. cassa la sentenza e dispone il rinvio alla Corte d'appello per un riesame della controversia.