Niente risarcimento per la padrona del cane con displasia bilaterale congenita

Vittoria minima per la proprietaria dell'animale la venditrice le deve versare 440 euro a titolo di riduzione del prezzo. Esclusa però la colpa della venditrice in merito a un presunto occultamento della malattia – una displasia bilaterale – che ha comportato la necessità di interventi chirurgici per salvaguardare il cane.

Sì alla riduzione del prezzo, no al rimborso delle spese mediche. Vittoria minima per la proprietaria di un cane , ritrovatasi a dover affrontare i problemi di salute del quadrupede. Impossibile addebitare una colpa alla venditrice, poiché ella non era consapevole della patologia – una displasia bilaterale –, nonostante la predisposizione genetica dell’animale a quello specifica malattia Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 7285/21, depositata il 16 marzo . Felice e soddisfatta per avere portato a casa uno splendido cucciolo di Akita-Inu – razza nota al grande pubblico grazie a uno splendido film con Richard Gere come protagonista –. Ma la gioia della nuova padrona – Chiara, nome di fantasia – del cane dura poco Il quadrupede inizia a manifestare problemi di salute, cioè una displasia bilaterale che può provocare anche la zoppia . Indispensabile il ricorso alla chirurgia per salvaguardare l’animale. Passaggio successivo logico, per Chiara, è l’ azione risarcitoria nei confronti della donna – Uga, nome di fantasia – che le ha venduto il cane e che, a suo dire, era consapevole del potenziale problema. Obiettivo di Chiara è vedersi riconosciuta la riduzione del prezzo corrisposto per l’acquisto del cucciolo, affetto da una grave patologia displasica bilaterale e ottenere anche il risarcimento del danno , quantificato in 6mila e 650 euro, cioè la somma da lei sborsata per le spese per l’esecuzione degli interventi chirurgici correttivi della displasia . In Tribunale la domanda viene accolta pienamente Uga viene condannata a versare a Chiara 440 euro a titolo di riduzione di prezzo e 6mila e 650 euro come risarcimento. In Appello, invece, viene escluso il ristoro economico riferito alle spese mediche sostenute da Chiara. Per i Giudici è decisiva la relazione del consulente tecnico, il quale ha affermato che la displasia è malformazione congenita , diagnosticabile tuttavia a partire dai tre mesi e mezzo o quattro mesi con appositi accertamenti . Ciò significa che il cane era già affetto dalla malattia al momento della vendita ma la patologia non si era ancora manifestata e, dunque, la venditrice, pur consapevole della predisposizione genetica della razza ad avere quel problema, non ne era consapevole al momento della vendita . Di conseguenza, esclusa la colpa della venditrice , i Giudici negano il risarcimento richiesto da Chiara, che deve accontentarsi solo della riduzione del prezzo pagato per l’acquisto dell’animale. La valutazione compiuta in Appello è condivisa in pieno dai Giudici della Cassazione. Respinta, in sostanza, l’ipotesi avanzata da Chiara in merito alla colpa di Uga nella vendita di un animale predisposto geneticamente ad essere affetto dalla displasia. Corretto il riferimento alla relazione del consulente tecnico. In sostanza, la displasia è una malformazione congenita , però diagnosticabile, a partire dai tre mesi e mezzo o quattro mesi, con appositi accertamenti . Ciò significa che, come stabilito in secondo grado, il cane era già affetto dalla malattia al momento della vendita, ma la malattia stessa non era ancora manifestata e quindi la venditrice, pur consapevole della predisposizione genetica della razza a contrarre la specifica patologia, non ne era consapevole quando ha consegnato il cane a Chiara. Impossibile, quindi, sostenere, come ha fatto la proprietaria del quadrupede, che toccava alla venditrice fare eseguire a proprie spese gli interventi chirurgici necessari per salvaguardare il cane.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 6 novembre 2020 – 16 marzo 2021, n. 7285 Presidente Olivieri – Relatore Scoditti Rilevato che B.P. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Vigevano poi Pavia V.D. chiedendo la riduzione del prezzo corrisposto per l’acquisto di un cucciolo di Akita Inu con grave patologia displasica bilaterale, oltre il risarcimento del danno nella misura di Euro 6.650,00 per le spese sopportate per l’esecuzione degli interventi chirurgici correttivi della displasia. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando la convenuta al pagamento della somma di Euro 440,00 a titolo di riduzione di prezzo, oltre il risarcimento richiesto. Avverso detta sentenza propose appello la V. . Con sentenza di data 10 aprile 2018 la Corte d’appello di Milano accolse parzialmente l’appello, rigettando la domanda risarcitoria. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, avendo il CTU affermato che la displasia era malformazione congenita diagnosticabile tuttavia a partire dai tre mesi e mezzo o quattro mesi con appositi accertamenti, doveva ritenersi che il cane fosse già affetto dalla malattia al momento della vendita ma che la malattia medesima non si fosse ancora manifestata e che dunque la venditrice, pur consapevole della predisposizione genetica della razza a contrarla, non ne fosse consapevole al momento della vendita. Aggiunge che non spettava il risarcimento per le spese mediche sostenute in quanto presupponeva il requisito della colpa. Ha proposto ricorso per cassazione B.P. sulla base di sei motivi e resiste con controricorso la parte intimata. È stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c Considerato che con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., artt. 1176, 1337 e 1218 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che, come affermato da Cass. n. 11892 del 2016, può essere denunciata la violazione dell’art. 116 c.p.c., quando la valutazione imprudente della prova sia grave ed abbia determinato un’errata ricostruzione del fatto e dunque un’erronea applicazione della norma di diritto. Aggiunge che il giudice di appello ha attribuito alla CTU un’affermazione contraria al suo contenuto, ovvero che la predisposizione displasica non potesse costituire una circostanza nota alla venditrice al momento della vendita. Il motivo è inammissibile. La censura è basata su un passaggio meramente argomentativo di Cass. 10 giugno 2016, n. 11892 il cui principio di diritto, sul punto dell’art. 116 c.p.c., è nel senso che la violazione di tale norma è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda il principio di libera valutazione della prova, salvo diversa previsione legale, in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime. Con tale pronuncia è stato anche affermato il principio che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio , nè in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 - dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Il cuore della censura in esame è invece nel senso del cattivo apprezzamento delle risultanze della CTU. In tali termini il motivo resta nell’ambito della mera critica del giudizio di fatto. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1494 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che l’art. 1494 c.c., pone a carico del venditore l’onere della prova liberatoria della colpa, essendo escluso l’obbligo della garanzia solo se il venditore provi di avere ignorato i vizi senza sua colpa, e che invece la corte territoriale ha ritenuto inesistente la colpa non solo contraddittoriamente qualificando la predisposizione displastica come presente al momento della vendita, ma anche senza considerare che la predisposizione displasica di uno dei genitori del cane avrebbe dovuto condurre la venditrice a svolgere gli stessi approfonditi accertamenti sull’altro genitore del cane venduto. Aggiunge che la condotta colposa emerge anche dal fatto che la venditrice non ha fornito la prova positiva della consapevolezza della predisposizione genetica alla displasia già al momento della nascita e dal fatto che, quando il vizio si era già compiutamente manifestato, il medico veterinario, a cui la venditrice aveva indirizzato la compratrice, aveva omesso di compiere i basilari accertamenti diagnostici che, se eseguiti, avrebbero evitato l’aggravamento del problema e gli interventi chirurgici correttivi. Il motivo è inammissibile. Va premesso che la regola sull’onere della prova assume rilievo solo nel caso di causa rimasta ignota. Si tratta quindi della regola residuale di giudizio grazie alla quale la mancanza, in seno alle risultanze istruttorie, di elementi idonei all’accertamento, anche in via presuntiva, della sussistenza o insussistenza del diritto in contestazione determina la soccombenza della parte onerata della dimostrazione rispettivamente dei relativi fatti costitutivi o di quelli modificativi o estintivi Cass. 16 giugno 1998, n. 5980 16 giugno 2000, n. 8195 7 agosto 2002, n. 11911 21 marzo 2003, n. 4126 . La ricorrente richiama la regola sull’onere della prova ma in modo inconferente perché il fatto non è rimasto ignoto per avere il giudice positivamente accertato la mancanza della colpa della venditrice. In realtà per la gran parte la censura si sviluppa come confutazione del giudizio di fatto in ordine all’esistenza della colpa della venditrice, in primo luogo richiamando una non comprensibile contraddittorietà della motivazione, essendo incontroversa la predisposizione genetica della razza canina in discorso alla displasia, in secondo luogo menzionando un fatto costitutivo della colpa il dovere di svolgere approfonditi accertamenti sull’altro genitore del cane venduto in relazione al quale però, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non si precisa se ed in quale sede abbia fatto ingresso nel processo a parte il richiamo ad altro fatto non accertato dal giudice di merito, e cioè le indagini svolte sull’altro genitore . Infine si richiamano altre circostanze, sempre ai fini di un riesame del giudizio di fatto precluso nella presente sede di legittimità, per di più denunciando la condotta colposa del veterinario che avrebbe svolto le indagini sul cane, ma senza illustrare le ragioni di rilevanza di tale contegno rispetto alla responsabilità della venditrice. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che la motivazione è attinta da irriducibile contraddittorietà, ed è dunque inesistente, perché da una parte afferma che la venditrice al momento della vendita non potesse conoscere la patologia dell’animale in quanto non ancora manifestata, dall’altro ha ritenuto che la patologia fosse già sussistente al momento della vendita. Il motivo è infondato. Ha affermato la corte territoriale che, avendo il CTU precisato che la displasia era malformazione congenita diagnosticabile tuttavia a partire dai tre mesi e mezzo o quattro mesi con appositi accertamenti, doveva ritenersi che il cane fosse già affetto dalla malattia al momento della vendita ma che la malattia medesima non si fosse ancora manifestata e che dunque la venditrice, pur consapevole della predisposizione genetica della razza a contrarla, non ne fosse consapevole al momento della vendita. Non vi è contraddittorietà della motivazione, tale da renderla apparente, perché la colpa della venditrice è esclusa dal giudice di merito sulla base del rilievo che la malattia fosse diagnosticabile solo a partire dai tre mesi e mezzo o quattro mesi di vita del cane. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che il giudice ha omesso di esaminare il fatto che la venditrice avesse omesso di comunicare all’acquirente in sede precontrattuale la predisposizione displastica genetica del cane. Il motivo è inammissibile. In violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la ricorrente non ha specificatamente indicato se il fatto di cui sarebbe stato pretermesso l’esame da parte del giudice di merito abbia costituito la causa petendi di una domanda ai sensi dell’art. 1337 c.c. azione in effetti cumulabile con la garanzia per i vizi, come affermato dalla migliore dottrina . In mancanza di tale indicazione non può essere valutata la decisività della circostanza. Con il quinto motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che il giudice ha omesso di esaminare il fatto che la venditrice avesse omesso di richiedere al veterinario, cui indirizzò la compratrice per la visita del cane, lo svolgimento delle indagini necessarie per la diagnosi tempestiva della patologia, prevenendo così l’aggravamento e gli inevitabili a quel punto interventi correttivi. Il motivo è inammissibile. In violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, la ricorrente non ha specificatamente indicato, in relazione al denunciato contegno colposo del sanitario, quale sia il titolo di responsabilità della venditrice, soggetto terzo rispetto al rapporto fra la B. ed il veterinario, e se con riferimento a tale titolo sia stata proposta domanda di responsabilità. In mancanza di tale indicazione non può essere valutata la decisività della circostanza. Con il sesto motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che il giudice ha omesso di esaminare il fatto che la venditrice avesse rifiutato di fare eseguire a proprie spese il duplice intervento chirurgico. Il motivo è inammissibile. Come per il motivo precedente, la ricorrente in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, non ha specificatamente indicato il titolo in base al quale la venditrice doveva reputarsi obbligata a fare eseguire a proprie spese gli interventi chirurgici e se con riferimento a tale titolo sia stata proposta domanda di responsabilità, avuto riguardo anche alla circostanza che il giudice di merito ha escluso l’esistenza della colpa ai sensi dell’art. 1494. In mancanza di tale indicazione non può essere valutata la decisività della circostanza. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.