Irrilevante la detenzione domiciliare ai fini dell’indennità per violazione dell’art. 3 Cedu

La domanda di indennizzo per violazione dell’art. 3 Cedu deve essere proposta, a pena di decadenza, entro 6 mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia in carcere, non potendo a tal fine assimilare la detenzione domiciliare.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10449/19, depositata il 15 aprile. La vicenda. Il Tribunale di Roma rigettava la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti dall’attore per la violazione dell’art. 3 Cedu in conseguenza del periodo di detenzione subito. Il giudice riteneva maturato il termine di decadenza in quanto il ricorso sarebbe stato depositato oltre il termine di 6 mesi dalla cessazione della detenzione in carcere, con irrilevanza del successivo periodo di detenzione domiciliare. Avverso tale decisione il soccombente ricorre in Cassazione deducendo violazione dell’art. 1, comma 3, d.l. n. 92/2014, conv. in l. n. 117/2014 per aver il Tribunale escluso dalla nozione di stato di detenzione” ivi citato la detenzione domiciliare. Il ricorrente lamenta inoltre la violazione dell’art. 3 Cedu invocando l’interpretazione offerta dalla Corte EDU con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia. Indennità. La questione sottoposta ai Supremi Giudici riguarda l’interpretazione dell’art. 35- ter , comma 3, l. n. 354/1975 secondo il quale l’azione per il risarcimento per violazione dell’art. 3 Cedu deve essere proposta a pena di decadenza entro 6 mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere . Richiamando la sentenza delle Sezioni Unite n. 11018/18, il Collegio ricorda che il termine di prescrizione decorre dalla cessazione dello stato di detenzione , in quanto si tratta di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege” sull’amministrazione penitenziaria . Nel caso di specie, il ricorrente tenta di sussumere nella detenzione carceraria quella domiciliare così da far coincidere la cessazione dello stato di detenzione rilevante ai fini dell’indennità di cui si tratta con la cessazione di ogni species di detenzione, e quindi anche quella domiciliare . Tale impostazione mira però ad eludere la ratio della norma che si fonda sulla necessità di ripristinare l’equilibrio dei diritti lesi dal sovraffollamento carcerario, come accertato anche dalla sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia. In altre parole non si tratta di una indennità attinente alla privazione al soggetto della libertà personale in forza di una misura detentiva, definitiva o cautelare che essa sia, bensì di una indennità attinente alla collocazione della persona, quanto è privata della suddetta libertà, in una struttura carceraria inidonea perché affetta da un sovraffollamento tale da rendere necessario un riequilibrio dei diritti . Nel caso della detenzione domiciliare non è dunque riscontrabile il presupposto dell’indennità legato appunto al sovraffollamento carcerario, condizione riconosciuta dalla sentenza Torreggiani come lesiva dei diritti del detenuto. In conclusione, la Corte rigetta il ricorso compensando le spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 7 febbraio – 15 aprile 2019, n. 10449 Presidente Travaglino – Relatore Graziosi Rilevato che Con ricorso ai sensi della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 35 ter, comma 3, depositato il 20 maggio 2016 C.A. adiva il Tribunale di Roma per ottenerne il risarcimento dei danni derivatigli da violazione dell’art. 3 CEDU in conseguenza di un periodo di detenzione carceraria di 2624 giorni, dal 30 maggio 2007 all’8 agosto 2014, data in cui gli era stata applicata la detenzione domiciliare, cessata poi il 21 novembre 2015. Si costituiva il Ministero della Giustizia, resistendo e in particolare eccependo la decadenza e la prescrizione del diritto, oltre a contestare la fondatezza della domanda. Con ordinanza del 6 marzo 2017 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo maturato il termine di decadenza il ricorso sarebbe stato depositato oltre il termine di sei mesi dalla cessazione della detenzione o della custodia cautelare in carcere, previsto dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, art. 1, comma 3, convertito in L. 11 agosto 2014, n. 117, e sarebbe stata irrilevante la successiva sottoposizione a detenzione domiciliare, entro i sei mesi dalla cui cessazione era stato depositato il ricorso. C.A. ha presentato ricorso, articolato in due motivi. Il Ministero della Giustizia Si è difeso con controricorso. Considerato Che 1.1 Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. n. 92 del 2014, art. 1, comma 3, convertito in L. n. 117 del 2014, in relazione all’osservanza del termine di legge e all’ammissibilità del ricorso. Il Tribunale ha escluso che nello stato di detenzione di cui al citato art. 1, comma 3, fosse rientrata anche la detenzione domiciliare. Si argomenta nel senso di una interpretazione opposta, invocando anche la Relazione del 13 aprile 2015 del Massimario di questa Suprema Corte, per cui il condannato sottoposto a misura alternativa non avrebbe tecnicamente terminato di espiare la pena detentive in carcere perché la misura detentiva potrebbe essergli in ogni momento revocata, con ripristino del regime detentivo inframurario. Si osserva altresì che il giudice naturale dell’esecuzione della pena, anche durante la misura alternativa, rimane il Tribunale di Sorveglianza, per cui, ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 35 ter la giurisdizione civile perviene soltanto al momento della cessazione della pena detentiva o della misura alternativa, onde solo allora decorrerebbe il termine di decadenza. Nel caso in esame sarebbe allora stato tempestivo il ricorso, date che la cessazione della misura alternativa era avvenuto il 21 novembre 2015 e il deposito del ricorso era stato effettuato il 20 maggio 2016. 1.2 Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 CEDU il provvedimento impugnato verrebbe a negare al ricorrente l’accesso ad una tutela effettiva, in violazione appunto dell’art. 3 CEDU, sul quale si è pronunciata la Corte EDU con la nota sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiare e altri c. Italia, atti-lente alla violazione da parte della Italia del suddetto quale conseguenza di trattamenti inumani e degradanti da essa inflitti ai detenuti per sovraffollamento carcerario. 1.3 I due motivi possono essere valutati congiuntamente, in quanto vertono sulla stessa questione. Tale questione consiste nella interpretazione - alla luce anche della normativa sovranazionale nella L. 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, del’art. 35 ter, Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati, laddove nel secondo periodo del comma 3 recita L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere . Questo dettato, a livello letterale, potrebbe effettivamente prestarsi al dubbio, nel senso di rendere accettabile anche l’interpretazione proposta dal ricorrente, poiché la l’espressione specificativa in carcere è stata collocata soltanto dopo il riferimento alla custodia cautelare , e la detenzione , di per sé, può essere anche domiciliare. Per risolvere il suddetto quesito ermeneutico la chiave non può non rinvenirsi nella ratio della norma. 1.4 Fondamentale in questa tematica è stato l’intervento - successivo al deposito del ricorso delle Sezioni Unite con la sentenza dell’8 maggio 2018 n. 11018, massimata nel senso che il diritto ad una somma di denaro pari a otto Euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cu. all’art. 3 della CEDU. previsto dalla L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, come introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1, conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che ambiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore dei D.L. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dal D.L. n. 92 del 2014, art. 2, il termine comincia a decorrere solo da tale data . In motivazione, le Sezioni Unite osservano nel meccanismo a regime, potrà accadere che la prescrizione maturi in corso di detenzione e quindi prevalga sulla decadenza che, ai sensi dell’art. 1, decorre dalla cessazione nello stato di detenzione la carcerazione non costituisce impedimento a decorrere del termine di prescrizione con riferimento a pretese di natura civilistica . La decorrenza della decadenza dalla cessazione dello stato di detenzione , che - come appena rilevato - si afferma nella suddetta sentenza, viene in sostanza confermata da un arresto immediatamente successivo, Cass. sez. 3, ord. 6 dicembre 2018 n. 31552 In tema di violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati, il rimedio previsto dalla L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 1, secondo cui il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio, presuppone che l’interessato versi in condizione di restrizione in carcere e che questa abbia una durata tale da consentire l’eventuale decurtazione nella misura richiesta, mentre in tutti i casi in cui lo stato di carcerazione sii cessato, l’interessato può agire in sede civile, al fine di ottenere la provvidenza di natura indennitaria prevista dall’art. 35 ter, comma 3 . 1.5 Il ricorrente, come si è visto, tenta di sussumere nella detenzione carceraria la detenzione domiciliare, così da far coincidere la cessazione dello stato di detenzione rilevante ai fini della indennità di cui si tratta con la cessazione di ogni species di detenzione, e quindi anche quella domiciliare in tale impostazione, l’indennità dovrebbe essere rilasciata meramente per avere subito una detenzione, intesa questa appunto come genus, ovvero prescindendo dalla pluralità, pur sussistente, delle sue species. La detenzione, invero, si suddivide in carceraria detta pure inframuraria e domiciliare. Questa generalizzazione della detenzione, tuttavia, mira indubbiamente ad eludere la ratio dell’intervento di novellazione sulla L. n. 354 del 1975, il quale, come attesta la prodromica vicenda dinanzi alla Corte di Strasburgo, è stato diretto a porre come presupposto dei rimedi cui fa riferimento apertis verbis la rubrica dall’art. 35 ter la costrizione della persona al carcere, sia come esecuzione di condanna, sia come custodia cautelare. Come è ben noto, la novellazione trova infatti la sua ratio nel riequilibrio dei diritti lesi dal sovraffollamento carcerario. L’intervento del legislatore è stato suscitato proprio dalla sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo, ed è stato poi ritenuto sostanzialmente adeguato dalla successiva sentenza della stessa Corte del 25 settembre 2014, Stella e altri c. Italia. E la questione del sovraffollamento come attribuibile allo Stato non può che rapportarsi, logicamente, alla detenzione carceraria, ovvero alla inidoneità delle strutture carcerarie di cui lo Stato si avvale. Quindi non si tratta di una indennità attinente alla privazione al soggetto della libertà personale in forza di una misura detentiva, definitiva o cautelare che essa sia, bensì di una indennità attinente alla collocazione della persona, quando è privata della suddetta libertà, in una pubblica struttura carceraria inidonea perché affetta da un sovraffollamento tale da rendere necessario un riequilibrio dei diritti. 1.6 Il fatto poi che la persona sottoposta ad una detenzione domiciliare possa subire una mutazione in peius della species di detenzione, nel senso di essere trasferita in carcere, costituisce una mera eventualità che non è certo idonea a trasformare la detenzione domiciliare in una, per così dire, condanna al sovraffollamento ovvero a rendere la detenzione domiciliare presupposto per l’indennità correlata al sovraffollamento carcerario. Solo la detenzione carceraria, infatti, può dar luogo alla lesione di diritti riconosciuta dalla sentenza Torreggiani, la cui riparazione costituisce espressamente come manifesta la rubrica dell’art. 35 ter, si ripete la ratio della norma da interpretare nel caso in esame. Non sussiste neppure fondatezza, d’altronde, nella doglianza di un mancato accesso ad una tutela effettiva, alla non incidenza della detenzione domiciliare dovendosi invero aggiungere il fatto che questa non impedisce di avvalersi del diritto di indennizzo, onde è del tutto ragionevole, e non confliggente con alcun diritto costituzionale e sovranazionale, interpretare la norma de qua nel senso che il termine semestrale di decadenza deve decorrere dalla cessazione della lesione del diritto indennizzabile, ovvero dalla cessazione della detenzione carceraria, definitiva o cautelare. 1.7 Deve pertanto affermarsi il seguer te principio di diritto il termine semestrale di decadenza previsto dalla L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, secondo periodo, deve intendersi decorrente dalla cessazione della detenzione carceraria, definitiva o cautelare, della persona, a nulla rilevando la eventuale successiva sottoposizione di questa anche a detenzione domiciliare. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, stimandosi equo compensare le spese per la particolarità della questione che ha presentato. Poiché dagli atti il processo risulta esente, non sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo. P.Q.M. Rigetta il ricorso compensando le spese processuali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.