Somme liquidate dall’INPS: anche in caso di risarcimento da sinistro trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno

Il danneggiato non può cumulare il risarcimento e l’indennizzo e non può trovarsi, dopo la liquidazione, in una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non si fosse verificato.

Così la Terza Sezione della Cassazione Civile, ponendosi nella scia di quanto deciso dalle Sezioni Unite con le sentenze quadrigemellari del 2018 nn. 12564, 12565, 12566 e 12567 nella sentenza n. 4374 del 19 febbraio 2019. Il caso. Avendo riportato gravissime lesioni dopo uno scontro con un’altra moto, priva di copertura assicurativa, il conducente di una moto citava in giudizio l’impresa di assicurazione designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada. La sentenza di primo grado, dichiarata la pari responsabilità ai sensi dell’art. 2054, comma 2, c.c., liquidava sia il danno patrimoniale che non patrimoniale, detraendo dalla somma riconosciuta a tale titolo quanto percepito dall’INPS sotto forma di rendita vitalizia, applicando l’istituto della c.d. compensatio lucri cum damno . Nel sentenza d’appello veniva superata la presunzione di pari responsabilità e, relativamente alle somme erogate dall’INPS secondo il principio della capitalizzazione all’attualità della rendita la Corte territoriale riteneva che non dovesse essere sottratto al totale risarcitorio quanto percepito dall’INPS in quanto si sarebbe trattato di somme provenienti da titoli diversi. Veniva inoltre nuovamente respinta la domanda di personalizzazione del danno non patrimoniale, in considerazione del fatto che non sarebbero state dimostrate le maggiori sofferenze patite dal danneggiato rispetto a quello patito da altri soggetti nella stessa condizione vale a dire un macroleso a cui è stata riconosciuta una invalidità permanente dell’85% . Oltre ad altri motivi di ricorso minori”, la questione della c.d. compensatio lucri cum damno è stata sottoposta all’attenzione della Cassazione. Si procede verso una applicabilità sempre più estesa della compensatio lucri cum damno. Inizialmente era stata fissata la discussione in camera di consiglio, ma, viste le sentenze dello scorso anno delle Sezioni Unite sul tema, è stata disposta la trattazione alla pubblica udienza, al fine di decidere con sentenza invece che con ordinanza, trattandosi di questione parzialmente differente da quelle già decise dalle Sezioni Unite. Per esempio, la n. 12566 era stato trattato il tema della compensabilità della rendita INAIL derivante da infortunio in itinere, ed in tale occasione il principio enunciato era stato quello per cui l’importo della rendita per inabilità permanente corrisposta dall’INAIL per infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile dell’illecito . La Terza Sezione ha ritenuto che i principi indicati in tema di infortunio in itinere debbano applicarsi anche all’ipotesi in cui l’erogazione della prestazione previdenziale provenga dall’INPS in conseguenza di un sinistro. L’ente previdenziale, nel momento in cui riconosca un assegno di invalidità in conseguenza di un fatto dannoso cagionato da un terzo, ha diritto ad agire in surroga nei confronti del terzo responsabile e del suo assicuratore. Del tutto irrilevante, invece, è la circostanza che l’INPS abbia poi esercitato o meno tal diritto di surrogarsi nel caso di cui alla sentenza in commento, per esempio, l’INPS intervenne tardivamente nel giudizio di primo grado e venne pertanto estromesso dal giudizio consentire al danneggiato di cumulare un assegno di invalidità con l’intero risarcimento significherebbe, per il responsabile e il suo assicuratore all’obbligo di un doppio pagamento per il medesimo danno. Ciò che compete al danneggiato, in questi casi, è dunque solamente il cd. danno differenziale ovvero quello non coperto dall’indennizzo . Spetterà nuovamente alla Corte d’Appello decidere adesso al questione, facendo applicazione del principio appena esposto.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 13 dicembre 2018 – 19 febbraio 2019, n. 4734 Presidente Travaglino - Relatore Cirillo Fatti di causa 1. R.W. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Trieste, S.D. e la Generali Assicurazioni s.p.a., quest’ultima quale impresa designata del Fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di un sinistro stradale nel quale egli, alla guida della propria moto, era stato investito dalla moto condotta dal convenuto, priva di copertura assicurativa. Si costituì in giudizio la società di assicurazione, chiedendo che il danno fosse comunque liquidato entro il massimale ed esercitando il diritto di regresso nei confronti dello S. . Nel procedimento intervenne l’INPS al fine di far valere il proprio diritto di surroga fino a concorrenza della somma di Euro 193.642,78, pari al valore dell’assegno di invalidità riconosciuto al R. . Il Tribunale, dichiarata l’inammissibilità dell’intervento e disposta una c.t.u., fece applicazione della presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, e, dichiarata la pari responsabilità tra il R. e lo S. , accolse la domanda, condannò i convenuti in solido al risarcimento dei danni, respinse la domanda di mala gestio nei confronti della società di assicurazione, accolse la domanda di regresso di quest’ultima e condannò i convenuti al pagamento delle spese di giudizio. 2. La pronuncia è stata appellata da entrambe le parti e la Corte d’appello di Trieste, dopo aver espletato una nuova c.t.u., con sentenza del 25 novembre 2014, in parziale riforma di quella del Tribunale, ha superato la presunzione di pari responsabilità del sinistro, ponendo il 75 per cento a carico dello S. ed il 25 per cento a carico del R. ha rideterminato il danno complessivo nella misura di Euro 150.531,75 per danno patrimoniale e di Euro 715.651,84 per danno non patrimoniale ha condannato lo S. e la società di assicurazione a pagare al R. la differenza, detraendo la somma di Euro 418.047,83, già versata al danneggiato ed ha regolato le spese. Ha osservato la Corte d’appello, per quanto di interesse in questa sede, che il motivo dell’appello principale volto alla liquidazione del danno da invalidità temporanea era da respingere, posto che l’indagine svolta dal c.t.u. non aveva potuto basarsi sulla documentazione medica tardivamente prodotta dal R. in primo grado. In ordine alla liquidazione del danno alla salute, la sentenza ha innalzato la percentuale di invalidità permanente del danneggiato nella misura dell’85 per cento ed ha quindi liquidato nuovamente il danno ha respinto la domanda di personalizzazione del danno, affermando che la vittima non aveva dimostrato un grado di sofferenza maggiore rispetto a quello patito da altri soggetti nella sua situazione ciò sia quanto ala fine di una relazione sentimentale che alla necessaria interruzione dell’attività sportiva . La Corte ha poi respinto, per mancanza di ogni prova dei danni derivanti da esborsi in favore di terzi per l’assistenza domiciliare, la relativa domanda di risarcimento del danno patrimoniale. Quanto al danno da lucro cessante, la Corte di merito ha osservato che il R. , elettricista, aveva perso la capacità lavorativa specifica, mantenendo solo una residua capacità lavorativa generica, di certo non idonea a compensare la perdita di guadagno a lui assicurato dal precedente impiego non poteva, quindi, essere riconosciuta contrariamente a quanto deciso dal Tribunale - la compensatio lucri cum damno in ordine alla pensione erogata dall’INPS, trattandosi di somme provenienti da titoli diversi. Ai fini della liquidazione, poi, la sentenza ha affermato di poter recepire il conteggio proposto in via equitativa dall’appellante, pari ad Euro 207.709,03, somma che poi, applicando la riduzione del 25 per cento per il concorso di responsabilità, è stata liquidata in quella di Euro 150.531,75. La Corte d’appello, infine, ha accolto anche il motivo relativo al riconoscimento della mala gestio della società d assicurazione la scelta attendista della debitrice, infatti, non poteva ritenersi giustificata, posto che la società avrebbe potuto liberarsi mettendo a disposizione dei creditori l’intero massimale . 3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Trieste propone ricorso principale la Generali Italia s.p.a., con atto affidato a cinque motivi. Resiste R.W. con controricorso contenente ricorso incidentale affidato ad otto motivi. La società di assicurazioni resiste con controricorso al ricorso incidentale. S.D. non ha svolto attività difensiva in questa sede. Fissata per la discussione la camera di consiglio del 23 marzo 2017, questa Sezione, con ordinanza interlocutoria 1 agosto 2017, n. 19113, ha rimesso la trattazione alla pubblica udienza, posto che il terzo motivo del ricorso principale investe la questione della c.d. compensatio lucri cum damno. La discussione del ricorso è stata quindi fissata per l’udienza pubblica del 13 dicembre 2018 e la società Generali Italia ha depositato una memoria. Ragioni della decisione Ricorso principale. 1. Con il primo ed il secondo motivo del riarso principale si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., in relazione alla liquidazione degli interessi compensativi primo motivo e della sorte capitale secondo motivo quanto al danno non patrimoniale. Le due censure prendono le mosse dalla circostanza, risultante anche in dispositivo, per cui la Corte d’appello, nel liquidare la somma da porre a carico dei danneggianti, ha dato atto che la società ricorrente aveva già versato la somma di Euro 418.047,83. La sentenza avrebbe riconosciuto al danneggiato un qualcosa in più di quanto a lui spettante, perché gli interessi compensativi sono stati calcolati senza tenere conto della somma versata e quest’ultima è stata sottratta dal debito complessivo senza la necessaria rivalutazione. 1.1. I due motivi, da trattare congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistente, sono entrambi fondati. La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo spiegato, con un orientamento consolidato al quale va data ulteriore continuità, che nel giudizio risarcitorio derivante da illecito aquiliano, qualora intervenga, da parte del debitore, un adempimento parziale nelle more del giudizio, il giudice, ai fini del calcolo del debito residuo, deve procedere in modo tale da comparare i valori monetari in termini di valore reale. In vista di tale obiettivo egli ha diverse possibilità 1 esprimere in moneta attuale tutti i valori, rivalutando dall’epoca del fatto la somma equivalente all’entità del danno e dall’epoca del versamento quella corrisposta in acconto 2 ridurre l’acconto al minor valore che, in termini di espressione monetaria, avrebbe avuto all’epoca del fatto produttivo del danno, rivalutando poi la differenza tra le due somme da comparare 3 rivalutare l’importo originariamente equivalente al danno sino all’epoca dell’acconto, raffrontare i valori a quella data e rivalutare la differenza da tale data all’attualità 4 rapportare il valore monetario di acconto e danno ad una data intermedia - ad esempio quella della decisione di primo grado - e quindi effettuare il calcolo tra il dare e l’avere. Gli interessi compensativi dovranno essere calcolati, dopo aver reso omogenei i due valori, sull’intero capitale, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto, e solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla definitiva liquidazione v. la sentenza 3 settembre 2005, n. 17743, ribadita, tra le altre, dalle più recenti sentenze 19 marzo 2014, n. 6347, e 1 dicembre 2016, n. 24539 . In altri termini, non è possibile che il credito risarcitorio venga rivalutato senza provvedere ad analoga operazione in ordine alla somma pagata medio tempore a titolo di acconto, perché in tal modo le due grandezze non sarebbero omogenee. La Corte d’appello non si è attenuta a tale principio. La sentenza impugnata, infatti - dopo aver osservato in motivazione p. 21 che l’importo capitale di Euro 615.657 doveva essere incrementato per il danno da ritardo ad Euro 715.651,84, seguendo il criterio degli interessi compensativi in misura pari a quella legale sulla somma capitale devalutata al momento del sinistro e poi, di anno in anno, progressivamente rivalutata - nel dispositivo ha genericamente sottratto dalla somma dovuta al R. l’acconto di Euro 418.047,83. Deve ritenersi, in assenza di specificazioni, che la somma dell’acconto non sia stata oggetto di rivalutazione la sentenza, anzi, nulla dice neppure in ordine alla data nella quale tale pagamento fu effettuato. Ne consegue che la detrazione di una somma pagata in acconto senza rivalutazione comporta che il danneggiato ha ricevuto certamente una somma maggiore di quella dovuta per cui il Giudice di rinvio dovrà provvedere a conteggiare il residuo rendendo prima omogenee le due grandezze, scegliendo uno dei meccanismi indicati dalla giurisprudenza di questa Corte. 2. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1909, 1910 e 2059 c.c Osserva la società assicuratrice che la Corte d’appello avrebbe errato nel non operare la compensazione con quanto liquidato dall’INPS a titolo di trattamento pensionistico. Il ricorso richiama, sul punto, la sentenza 13 giugno 2014, n. 13537, di questa Corte, che avrebbe riconosciuto l’operatività del principio della compensatio lucri cum damno, in base al fatto che il danneggiato non può cumulare il risarcimento e l’indennizzo e non può trovarsi, dopo la liquidazione, in una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non si fosse verificato. 2.1. Il motivo è fondato. 2.2. Come si è detto descrivendo i fatti di causa, questa Corte ha rinviato la decisione del ricorso con l’ordinanza interlocutoria n. 19113 del 2017 proprio perché il motivo in esame obbliga ad affrontare la questione dell’ammissibilità della c.d. compensatio lucri cum damno, oggetto di rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte. Queste ultime, com’è noto, si sono pronunciate sull’argomento con quattro sentenze del 22 maggio 2018, recanti i numeri 12564, 12565, 12566 e 12567. Nessuna di queste pronunce ha affrontato direttamente la questione oggetto dell’odierno ricorso tuttavia i principi ivi enunciati, ai quali il Collegio presta integrale e convinta adesione, consentono di decidere il motivo in esame nel senso indicato dalla parte ricorrente principale. In particolare, la sentenza delle Sezioni Unite che maggiormente si approssima, per la materia affrontata, al caso odierno è la n. 12566, nella quale era in discussione la compensabilità della rendita INAIL derivante da infortunio in itinere pronuncia nella quale è stato enunciato il principio di diritto secondo cui l’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL per l’infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile dell’illecito. Le Sezioni Unite, inquadrando il tema della compensati alla luce dei principi generali e delle regole sulla responsabilità civile, hanno affermato che ammettere o negare il cumulo non può essere il frutto di una mera operazione contabile , dovendo viceversa sempre aversi presente la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato . E hanno aggiunto, con un’affermazione fondamentale ai fini che qui interessano, che simile verifica impone anche di accertare se l’ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall’altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito . Affrontando, quindi, il problema specifico di quel caso, le Sezioni Unite hanno posto in luce, da un lato, che la rendita corrisposta dall’INAIL soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l’infortunio in itinere subito dal lavoratore dall’altro, che l’art. 1916 c.c., dispone che l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso il terzo danneggiante , con una disposizione che si applica anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e le disgrazie accidentali art. 1916 cit., u.c. . La sentenza ha anche richiamato, in proposito, il complesso meccanismo regolato olim dalla L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 28, e attualmente dal D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 142, ed ha spiegato che l’art. 1916 c.c., e l’art. 142 cit., determinano entrambi la successione nel credito risarcitorio dell’assicurato-danneggiato. In altri termini, l’istituto della surrogazione, mentre consente all’ente previdenziale di recuperare dal terzo responsabile le spese sostenute per le prestazioni assicurative erogate al lavoratore danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l’intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo , consentendo al medesimo di agire solo per il c.d. danno differenziale cioè quello non coperto dall’indennizzo . 2.3. I principi enunciati nell’indicata sentenza delle Sezioni Unite possono essere applicati anche nel caso odierno, nel quale non siamo in presenza di un infortunio in itinere, bensì dell’erogazione di una prestazione previdenziale da parte dell’INPS in conseguenza del sinistro. Dalla lettura della sentenza di primo grado risulta, infatti, che l’INPS ha versato al R. , a partire dagli inizi del 2009, un assegno di invalidità che lo stesso danneggiato ha quantificato in Euro 5.577, rispetto al quale il Tribunale ha operato la compensatio, poi cancellata dalla Corte d’appello . Risulta sempre dalla sentenza del Tribunale - ripresa, sul punto, anche dalla Corte d’appello - che l’INPS tentò di intervenire in causa, ma che tale intervento fu dichiarato inammissibile per la sua tardività decisione da ritenere ormai passata in giudicato, stante l’assenza di contestazioni sul punto nel successivo giudizio di appello ed anche in questa sede l’INPS, infatti, non è più comparso nei successivi gradi di giudizio . Tale assenza, però, non muta i termini del problema. Proprio facendo applicazione delle indicazioni delle Sezioni Unite, ciò che conta non è che l’INPS sia o meno parte in causa nel giudizio odierno, quanto, invece, che esso abbia il diritto di agire in surroga nei confronti del danneggiante. L’ente previdenziale, infatti, proprio per aver riconosciuto al R. il diritto ad un assegno di invalidità in conseguenza del medesimo fatto dannoso, ha comunque diritto ad agire in surroga nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore nella specie, la Generali Italia s.p.a. è stata convenuta quale impresa designata del Fondo di garanzia per le vittime della strada, essendo il veicolo antagonista sprovvisto di copertura assicurativa . Tanto basta, dando continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite, per riconoscere il diritto della Generali Italia s.p.a. ad ottenere che dall’entità globale del danno risarcibile al R. venga detratta la somma capitalizzata corrispondente all’introito pensionistico a lui erogato dall’INPS. Che l’INPS, poi, abbia esercitato o meno la surroga non assume rilievo, perché il diritto si è comunque trasferito ed è evidente che consentire al danneggiato di cumulare l’assegno di invalidità con l’intero risarcimento significa, di fatto, esporre l’assicuratore del responsabile civile all’obbligo di un doppio pagamento per la medesima parte di danno. Il motivo è pertanto accolto ed al giudice di rinvio spetterà il compito di compiere simile operazione di calcolo, erogando al danneggiato il solo danno differenziale. 3. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 , in relazione alla liquidazione del lucro cessante. Il ricorrente lamenta che la sentenza, nell’attribuire la somma di Euro 150.531,75 a quel titolo, non avrebbe in alcun modo consentito di ricostruire i passaggi logici che hanno condotto a tale conclusione. Vi sarebbe, quindi, una totale mancanza di motivazione sul punto. 3.1. Il motivo è fondato. La Corte d’appello, infatti, ha reso su questo punto una motivazione che è soltanto apparente, non consentendo in alcun modo di comprendere come sia giunta alla liquidazione di quella somma. La sentenza p. 24 afferma di essere pervenuta alla liquidazione di un lucro cessante nella misura di Euro 207.709,03 - poi ridotta a quella di Euro 150.531,75 per il concorso di responsabilità - assumendo come parametro il criterio equitativo offerto dall’appellante che prende le mosse da un dato obiettivo salario del lavoratore e appare prudente nell’elaborazione delle conseguenze economiche ma non si dice né quale fosse tale salario né quale uso dell’art. 1226 cod. civ. sia stato concretamente compiuto. Trova applicazione, pertanto, il criterio indicato dalle Sezioni Unite nella sentenza 3 novembre 2016, n. 22232, in base al quale la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. Il giudice di rinvio dovrà provvedere ad una nuova liquidazione sul punto, che colmi il vuoto della motivazione della sentenza impugnata. 4. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1224 c.c., in relazione ai presupposti per la condanna oltre i limiti del massimale. Lamenta la società ricorrente che la sentenza impugnata, nel dare conto che il massimale di legge era pari ad Euro 774.685,35, avrebbe poi stabilito di incrementare tale somma, a titolo di mala gestio, per rivalutazione ed interessi. In realtà, invece, nessun superamento del massimale vi sarebbe stato qualora la Corte non avesse commesso gli errori suindicati in ordine al conteggio degli interessi e rivalutazione sulla somma già versata ed all’omessa detrazione del trattamento pensionistico erogato dall’INPS. 4.1. Osserva la Corte che l’accoglimento dei motivi precedenti determina l’assorbimento del quinto posto che il giudice di rinvio dovrà comunque provvedere ad una diversa liquidazione del danno risarcibile, sarà solo in quella sede che si potrà stabilire se essa sia tale da determinare o meno il superamento del massimale e, di conseguenza, i limiti dell’operatività dell’eventuale mala gestio da parte dell’assicuratore. Ricorso incidentale. 5. Con il primo, il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., e dell’art. 24 Cost., in relazione alla liquidazione del danno alla salute secondo le tabelle del Tribunale di Milano, nonché violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 , per motivazione apparente o perplessa. Lamenta il ricorrente che all’epoca del sinistro egli aveva 37 anni e non 38, come pretende la sentenza, e che la Corte d’appello avrebbe applicato le tabelle milanesi del 2013 mentre erano già in vigore, nel momento della decisione, quelle del 2014 ciò avrebbe ridotto indebitamente il diritto al risarcimento del danno, anche perché la sentenza non avrebbe specificato terzo motivo di quali tabelle abbia fatto applicazione. 5.1. I motivi, da trattare congiuntamente per l’evidente connessione, presentano profili di inammissibilità e sono, comunque, infondati nel merito. Osserva il Collegio che il richiamo alla presunta violazione delle tabelle del Tribunale di Milano, oltre ad essere generico, è inammissibile sotto due profili da un lato, perché nulla dice in ordine alla produzione delle tabelle nel presente giudizio dall’altro, perché non fornisce alcuna dimostrazione in ordine all’effettiva proposizione della questione in sede di giudizio di appello v. la sentenza 7 giugno 2011, n. 12408, confermata, sul punto, tra le altre, dalle sentenze 13 novembre 2014, n. 24205, e 21 novembre 2017, n. 27562 . D’altra parte, anche ammettendo l’errore derivante dall’età del danneggiato - peraltro di rilevanza minima, trattandosi di un solo anno di differenza - la liquidazione prevede comunque un margine di oscillazione tra un minimo e un massimo, per cui nessuna delle lamentate violazioni di legge è configurabile. 6. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., e dell’art. 24 Cost., in relazione alla liquidazione del danno alla salute sotto il profilo della personalizzazione del danno. Secondo il ricorrente la sentenza in esame, mentre ha valutato la domanda di danno esistenziale sotto il profilo della lesione della vita di relazione, non avrebbe proceduto, in effetti, ad una corretta valutazione del danno in rapporto alla gravità delle lesioni quali risultanti anche dalla c.t.u. svolta in secondo grado. 6.1. Il motivo non è fondato. Va innanzitutto osservato che la censura si presenta generica, perché il ricorrente lamenta una non idonea liquidazione del danno sotto il profilo della mancata personalizzazione, senza specificare bene in cosa consisterebbe il vizio della sentenza impugnata. Anche trascurando, però, la genericità della doglianza, la sentenza impugnata ha fornito, sul punto, una risposta adeguata e conforme al più recente insegnamento di questa Corte. La Corte d’appello, infatti, ha osservato che il diritto alla personalizzazione del danno sorge soltanto se la vittima dimostri che la sua sofferenza è maggiore, proprio per le peculiari condizioni della sua esistenza, tale da distaccarsi dalla normalità degli individui colpiti dalla medesima menomazione . Partendo da tale corretta premessa, la sentenza ha escluso che le condizioni personali del R. fossero tali da imporre una personalizzazione del danno con conseguente appesantimento del punto tabellare, proprio in relazione alla impossibilità di svolgere una disciplina sportiva e di praticare lo sci ed il motociclismo. Ora, in disparte il fatto che la valutazione dell’opportunità di una personalizzazione del danno è compito rimesso al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, è il caso di ricordare che questa Corte, con la recente ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513, ha spiegato, tra l’altro, che le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti dinamico-relazionali , che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale. Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico . Ciò partendo dalla premessa secondo cui la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza di una lesione della salute, qualora sia conseguenza normale del danno cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica , dovrà ritenersi adeguatamente risarcita con la liquidazione del danno biologico, senza diritto di ricevere una somma maggiore. Nel caso in esame, i danni che il ricorrente lamenta, facendo riferimento al calvario di visite mediche conseguenti alla necessità di fronteggiare il grave danno derivante dalla lesione dei nervi di connessione del plesso brachiale devono ritenersi già liquidati nel danno biologico, liquidato peraltro sulla base di un’altissima percentuale di invalidità permanente 85 per cento , in assenza di una prova specifica che dimostri l’esistenza di un danno ulteriore rispetto a quello che chiunque soffrirebbe nella stessa situazione. 7. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 , per motivazione apparente in relazione alla richiesta di risarcimento del danno da inabilità temporanea. Si contesta il fatto che la sentenza, con una motivazione apparente, basata sulla relazione del c.t.u. nominato in appello, abbia omesso di liquidare il danno suindicato in quanto risultante da documentazione asseritamente tardiva. In realtà, sostiene il ricorrente, la documentazione doveva essere ammessa e valutata, non sussistendo alcuna violazione dell’art. 345 c.p.c. nel dubbio, la Corte di merito avrebbe dovuto autorizzare il c.t.u. ad accedere a quella documentazione. 7.1. Il motivo, che presenta profili di inammissibilità, è comunque privo di fondamento. La Corte d’appello, chiamata a risarcire anche il danno da invalidità temporanea, ha osservato che la pretesa del R. era da respingere alla luce della nuova c.t.u. esperita in grado di appello la quale, però, non aveva potuto tenere in considerazione la documentazione medica della parte danneggiata, siccome tardivamente prodotta. A fronte di tali argomenti, il motivo di ricorso si presente eccentrico, in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza in esame la doglianza, infatti, contesta alla sentenza di non aver spiegato perché la documentazione sarebbe stata irritualmente acquisita ed utilizzata dal primo c.t.u., rendendo così la prima perizia inutilizzabile . Ma la sentenza ha escluso quella documentazione perché tardivamente prodotta, né l’odierno ricorrente contesta in qualche modo detta affermazione e la discussione sui limiti della proponibilità dei documenti nel giudizio di appello, alla luce delle modifiche intervenute sul testo dell’art. 345 c.p.c., con le due riforme del 2009 e del 2012, non va in alcun modo a spiegare le ragioni della tardività della produzione. Per cui, fermo restando che il rinnovo della c.t.u. in appello può legittimamente consentire al giudice di secondo grado di non tenere conto degli esiti della c.t.u. espletata in primo grado, non è prospettabile l’invocata violazione di legge, posto che la sentenza ha affrontato il punto ed ha fornito una sua motivazione, né può parlarsi di motivazione apparente e di conseguente nullità della sentenza. Né la pretesa indispensabilità dei documenti in questione è stata dedotta nei termini indicati dalla sentenza 4 maggio 2017, n. 10790, delle Sezioni Unite di questa Corte. 8. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., e dell’art. 24 Cost., in relazione alla liquidazione del danno da lucro cessante per perdita dell’attività lavorativa. Dopo aver riportato il passaggio della motivazione nel quale la Corte d’appello ha riconosciuto che il R. a seguito dell’incidente aveva perso integralmente la propria capacità lavorativa specifica quale elettricista , mantenendo una residua capacità lavorativa generica che non era comunque in grado di compensare la perdita dei guadagni conseguiti in precedenza, il motivo in esame lamenta che sulla somma liquidata non sia stata applicata alcuna attualizzazione, con rivalutazione ed interessi. Secondo il ricorrente, la sentenza avrebbe liquidato il danno con un criterio equitativo minimo , anche perché non sarebbe stata risarcita in modo congruo la perdita di ogni chance lavorativa per cui, in definitiva, si lamenta che la liquidazione sia alquanto limitativa e contraria alle norme che sorreggono l’equo indennizzo , non avendo tenuto conto in modo adeguato del danno derivante da perdita di chances. 8.1. Il motivo è fondato, per la stessa ragione che ha condotto il Collegio all’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale. Non essendo affatto chiari i criteri che hanno guidato la Corte nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, la sentenza deve essere cassata su questo punto, e il giudice di rinvio dovrà provvedere ex novo alla liquidazione dando conto con precisione dei criteri seguiti. 9. Con il settimo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., e dell’art. 24 Cost., in relazione alla liquidazione del danno derivante dalla necessità di assistenza continua nella vita quotidiana. La censura si rivolge contro il rigetto della domanda volta al riconoscimento di tale voce di danno, benché dalla c.t.u. risultasse con chiarezza che il R. aveva bisogno di assistenza anche per svolgere le attività più normali, quali il vestirsi. 9.1. Il motivo non è fondato. Anche volendo trascurare, infatti, la genericità della doglianza, che non consente di comprendere quale tipo di prova sia stata data, occorre rilevare che la Corte d’appello non ha negato che le spese per l’assistenza personale presente e futura costituiscano un pregiudizio economico, ma si è limitata ad osservare che nel caso specifico era assente qualsiasi prova documentale di esborsi in favore di terzi per assistenza domiciliare . Ora, poiché si tratta, com’è ovvio, di un danno conseguenza, per potersi avere risarcimento occorre fornire una qualche prova sul punto, eventualmente poi richiamando la prova presuntiva. Ma poiché la sentenza è stata netta sul punto, è evidente che l’invocata violazione di legge non sussiste. 10. Con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 , per mancanza di motivazione in ordine alla liquidazione del danno sofferto successivamente al giudizio di primo grado e per l’omesso rimborso delle spese sostenute per la consulenza tecnica di parte. Si lamenta, sul punto, l’omesso esame di una serie di documenti richiamati nel ricorso, in particolare rilevando che la relazione del c.t.u. nominato in grado di appello non potrebbe considerarsi assorbente dell’intero danno subito. 10.1. Il motivo non è fondato. Rileva la Corte che esso è redatto in modo non rispettoso dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 , posto che fa riferimento ad una serie di documenti, asseritamente prodotti in appello, senza indicare in alcun modo se, dove e come essi siano a disposizione di questa Corte. Ciò premesso, va detto che il ricorso, nel riportare alla p. 5 quali furono le ragioni dell’appello proposto dal R. avverso la sentenza di primo grado, nulla dice né in ordine al c.d. danno sopravvenuto né in ordine alla liquidazione delle spese derivanti dalla c.t. di parte. Se ne deve dedurre che il motivo è inammissibile attesa la sua novità ma comunque, poiché la censura è, in effetti, di omessa pronuncia nonostante l’improprio richiamo all’art. 132 c.p.c., n. 4 , essa è priva di fondamento, perché nulla consente di affermare che la Corte d’appello sia stata effettivamente chiamata a pronunciarsi su queste due ulteriori voci di danno. Conclusioni. 11. In conclusione, sono accolti i motivi primo, secondo, terzo e quarto del ricorso principale, con assorbimento del quinto, nonché il sesto motivo del ricorso incidentale, mentre sono rigettati gli ulteriori motivi del ricorso incidentale la sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi a quanto indicato nella presente pronuncia. Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie i motivi primo, secondo, terzo e quarto del ricorso principale, con assorbimento del quinto, nonché il sesto motivo del ricorso incidentale, rigetta gli ulteriori motivi del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione.