Articolo di giornale diffamatorio in caso di mancata correlazione tra il fatto narrato e quello realmente accaduto

L’enunciazione nell’articolo di giornale di numerose notizie false, volte a rappresentare il fatto in modo diverso dalla sua effettiva consistenza, comporta il carattere diffamatorio dell’articolo stesso, mancando la correlazione tra il fatto raccontato e quello realmente accaduto.

Così si è espressa la Suprema Corte con sentenza n. 14887/18 depositata l’8 giugno. Il caso. La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, condannava i convenuti, citati in giudizio per aver pubblicato nei confronti del PM un articolo di giornale avente carattere diffamatorio, al pagamento, in solido fra loro, di un’ingente somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Avverso tale decisione, i condannati al risarcimento ricorrono in Cassazione. La diffamazione in caso di divulgazione di notizie non rispondenti al vero. Qualora nell’articolo di giornale siano riportate numerose informazioni non rispondenti al vero, viene meno la correttezza dell’informazione infatti, tali elementi falsi, secondo la Corte di merito, nel loro complesso, sono volti a rappresentare il fatto in modo del tutto diverso rispetto alla sua effettiva consistenza. Sembra addirittura che, nel caso di specie, l’articolo fosse stato costruito sulla base di personali congetture dell’articolista desunte dalle poche informazioni disponibili , senza riferimento al contenuto effettivo dell’atto giudiziario a carico del PM diffamato una semplice denuncia anonima . Pertanto, vista la mancata correlazione tra il fatto narrato e quello accaduto realmente, appare evidente il carattere diffamatorio dell’articolo. Ed inoltre, occorre aggiungere che i ricorrenti hanno omesso di riportare nel ricorso il contenuto delle parti sulle quali si incentrano le considerazioni che hanno portato i giudici di secondo grado alla suddetta conclusione del carattere diffamatorio della pubblicazione. Dunque, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 13 dicembre 2017 – 8 giugno 2018, n. 14887 Presidente Di Amato – Relatore D’Arrigo Ritenuto P.G. , magistrato addetto alle funzioni di pubblico ministero, convenne in giudizio Il Messaggero s.p.a., il direttore responsabile della testata giornalistica Pietro Calabrese e i giornalisti autori C.I. e M.C. , chiedendo che, accertato il carattere diffamatorio di un articolo pubblicato sull’omonimo quotidiano nazionale in data omissis , tal titolo omissis , i convenuti fossero condannati al risarcimento del danno non patrimoniale. Nel contraddittorio fra le parti, il Tribunale di Perugia respinse la domanda. Il P. impugnò la sentenza, ma successivamente rinunziò agli atti nei confronti del Ca. , proseguendo il giudizio solo nei confronti degli altri appellati. La Corte d’appello di Perugia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha dichiarato estinto il giudizio, relativamente alla domanda proposta nei confronti del Ca. . Nel merito, in totale riforma della decisione di primo grado, ha condannato gli altri convenuti al pagamento, in solido fra loro, dell’importo di Euro 80.000,00 oltre accessori a titolo di risarcimento del danno, nonché il C. e la M. , sempre in solido, al pagamento, ai sensi dell’art. 12 legge n. 47 del 1948, della somma complessiva di Euro 5.000,00, dichiarando sul punto il difetto di legittimazione passiva della Il Messaggero s.p.a. Il tutto oltre spese di entrambi i gradi di giudizio in favore dell’appellante. Avverso tale decisione ricorrono congiuntamente Il Messaggero s.p.a., il C. e la M. , chiedendone la cassazione per un unico motivo. Il P. resiste con controricorso, seguito dal deposito di memorie. Considerato In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata. I ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 51 cod. pen. in relazione all’art. 21 Cost. In particolare, dopo ampia e generica premessa sui limiti costituzionali alla libertà di stampa, la censura si incentra sulle numerose circostanze riferite nell’articolo ed accertate come vere. Il motivo è carente di specificità e autosufficienza e, dunque, non risponde ai requisiti richiesti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. Va premesso che la Corte d’appello ha ritenuto rispondente a verità la notizia principale ossia che il P. fosse stato iscritto nel registro degli indagati per corruzione e sussistente un interesse pubblico alla conoscenza del fatto. La corte di merito, però, ha messo in evidenza numerose circostanze aggiunte non rispondenti al vero che, nel loro complesso, hanno inficiato la correttezza dell’informazione. In particolare, è stata sottolineata la falsità della notizia, riportata sia nel titolo dell’articolo sia nel testo, della costituzione della Procura della Repubblica quale parte civile circostanza enfatizzata nell’articolo a riprova della fondatezza dell’accusa e della sicura colpevolezza dell’indagato. È stato inoltre colto il malizioso collegamento operato, anche a mezzo fotografie, con P.B. , ed il contenuto delle intercettazioni, nelle quali il P. sarebbe stato considerato come un giudice amico anche tale accostamento è stato interpretato dai giudici di merito come finalizzato ad accreditare il P. come altamente corruttibile, specie ove si consideri che il contenuto delle intercettazioni per le quali il P. ha proposto una separata azione giudiziale era diverso da quello riferito. La sentenza impugnata prosegue con l’enucleazione di numerose altre informazioni false contenute nell’articolo in questione e conclude nel senso che tutti questi elementi erano volti, nel loro complesso, a rappresentare il fatto in modo molto diverso dalla sua effettiva consistenza. Addirittura, dalla lettura della sentenza sembra evincersi che gli autori avrebbero addebitato al P. una specifica vicenda corruttiva - relativa ad una indagine per frode fiscale a carico della casa farmaceutica A. - del tutto diversa da quella cui si riferiva l’ipotesi di reato. Ed ancora, è stato evidenziato che gli stessi convenuti hanno ammesso, nella comparsa di costituzione in appello, che l’articolo era stato costruito sulla base di personali congetture dell’articolista desunte dalle poche informazioni disponibili , senza alcun riferimento all’effettivo contenuto dell’atto giudiziario a carico del P. una semplice denuncia anonima . La corte d’appello, dunque, valorizzando tutti gli elementi che formano il contesto dell’informazione sul punto v. Sez. 3, Sentenza n. 25157 del 14/10/2008, Rv. 605477 e l’evidente mancanza di correlazione fra il fatto narrato e quello realmente accaduto, ha ritenuto il carattere diffamatorio dell’articolo. A fronte di una così approfondita analisi del testo dell’articolo di stampa, dei fatti in esso narrati e delle relative fonti, ogni censura che avesse voluto convincentemente dimostrare la violazione, da parte dei giudici di merito, del principio costituzionale della libertà di stampa, avrebbe dovuto riportare integralmente il contenuto dell’articolo stesso o, quantomeno, gli stralci di tutti i punti censurati nella sentenza impugnata. In carenza di tale informazione, il ricorso risulta incompleto e come anticipato - privo di autosufficienza. I ricorrenti, infatti, si limitano ad enfatizzare le parti veritiere dell’articolo, senza neppure porsi in rapporto dialettico con l’accertamento compiuto dai giudici d’appello e sottacendo del tutto il contenuto delle parti sulle quali si incentrano le considerazioni che hanno portato all’affermazione del carattere diffamatorio della pubblicazione. Il ricorso, in conclusione, non consente a questa Corte di delibare la fondatezza o meno delle generiche censure ivi esposte, le quali risultano incapaci di cogliere l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti in solido, ai sensi dell’art. 385, comma primo, cod. proc. civ., nella misura indicata nel dispositivo. Sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, sicché va disposto il versamento, da parte dei ricorrenti in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da loro proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550 . P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.