Sentenza di fallimento poi revocata: nessun risarcimento del danno, né in via diretta, né per analogia

In presenza della legge n. 117/1988 sulla responsabilità civile del magistrati, non sussiste alcun vuoto normativo che giustifichi il ricorso all’analogia in caso di danno lamentato dal soggetto dichiarato fallito con sentenza successivamente revocata, con la disciplina che prevede una equa riparazione per ingiusta detenzione o in caso di errore giudiziario.

Con la sentenza n. 7767 del 29 marzo 2018, il S.C. esclude la possibilità di applicare la disciplina prevista in tema di errori giudiziari o di ingiusta detenzione qualora venga chiesto il risarcimento del danno in caso di fallimento di un soggetto, in caso di successiva revoca della sentenza. Il caso. Nel caso di specie, il ricorrente in Cassazione aveva richiesto, nel giudizio di merito, il risarcimento del danno subito per essere stato dichiarato fallito, con sentenza poi revocata dalla Corte di Appello. In particolare, la richiesta veniva avanzata sulla base di una applicazione analogica degli artt. 314 e 315 c.p.p. relativi all’equa riparazione per ingiusta detenzione e degli artt. 643 ss. c.p.p. per le vittime di errori giudiziari. Sul punto, con tesi confermata dalla Cassazione, i Giudici di merito si erano espressi nel senso che non è possibile applicare analogicamente le suddette discipline al caso di specie, stante la diversità di situazione ed in ragione del fatto che l’interpretazione di norme di diritto non può mai dar luogo a responsabilità. Risarcimento per ingiusta detenzione e per errore in sede civile diversi gli interessi protetti. Ad avviso della Corte nella sentenza in commento, non sussiste la eadem ratio tra la disciplina per il risarcimento in caso di ingiusta detenzione e quella del risarcimento da errore in sede civile ed è quindi da escludersi la possibilità di ricorrere all’analogia per la diversità degli interessi in gioco tanto più che, nel caso di specie, si trattava di interpretazione di norme di diritto che non può mai dare luogo a responsabilità civile e che il risarcimento per ingiusta detenzione deve comunque fondarsi su comportamenti concreti o specifici rivelatori di grave o macroscopica negligenza. Risarcimento ex art. 24 Costituzione no all’applicazione diretta. Al tempo stesso, per la Corte, non potrebbe invocarsi una responsabilità dello Stato per la mancata realizzazione del precetto costituzionale di cui all’art. 24, comma 4, Costituzione, posto che tale articolo non è di diretta applicazione ma contiene una riserva di legge, necessaria per dare concretezza e determinatezza all’affermazione di principio. Legittimità costituzionale della legge 117/1998? Sulla base dei principi espressi in precedenza, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 Costituzione dell’assenza di un risarcimento in un caso come quello prospettato rispetto alla legge n. 117/1988, con la quale, invece, il legislatore aveva operato un equilibrio bilanciamento degli interessi tutelati. Senza considerare che, nel caso di specie, l’azione ex lege n. 117/1988 non era stata dichiarata inammissibile ma infondata, in ragione dell’incompleta produzione documentale. Indennizzo o risarcimento? Può essere peraltro utile rammentare che l'indennizzo per la perdita temporanea della libertà – disciplina che il ricorrente chiedeva applicarsi in via analogica - non comprende il lucro cessante e che il danno da perdita di chance può essere oggetto di risarcimento secondo le regole generali della responsabilità extracontrattuale, sussistendone i presupposti, nell'ambito della diversa procedura riguardante l'errore giudiziario. Risarcimento per ingiusta detenzione. Analogamente, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, la liquidazione dell'indennizzo è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 ottobre 2017 – 29 marzo 2018, n. 7767 Presidente Di Amato – Relatore Scrima Fatti di causa Nel 2006 C.L.E. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia e delle Finanze e chiese che fosse accertato e dichiarato il suo diritto alla riparazione dell’errore giudiziario che assumeva essere stato commesso nei suoi confronti dal Tribunale di Firenze, il quale, nell’ambito della procedura per fallimento della società omissis S.r.l. , con la sentenza n. 252/98 del 7 ottobre 1992, aveva esteso il fallimento all’attore sul presupposto che questi fosse socio unico della predetta società, dichiarazione di fallimento poi revocata dalla Corte di appello di Firenze, con sentenza depositata il 28 febbraio 2005. Il C. chiese, altresì, che, in applicazione analogica degli artt. 314 e 315 cod. proc. pen. nonché degli artt. 643 e ss. cod. proc. pen., che prevedevano rispettivamente una equa riparazione sia per ingiusta detenzione art. 314 e segg. sia per le vittime di errori giudiziari art. 643 e segg. , la condanna dei convenuti al pagamento di una somma, da determinarsi in corso di causa, a titolo di riparazione per l’errore giudiziario di cui egli era stato vittima. In subordine, l’attore chiese la condanna dei convenuti ex art. 2043 cod. civ., al risarcimento dei danni nella misura ritenuta dovuta all’esito dell’istruttoria, per non avere lo Stato Italiano dato attuazione al precetto dell’art. 24, quarto comma, della Costituzione, in relazione agli errori giudiziari diversi da quelli contenuti in sentenze e/o decreti penali di condanna. Nel costituirsi i convenuti contestarono la domanda di cui chiesero il rigetto, sostenendo l’inapplicabilità per analogia delle norme indicate dall’attore e asserendo che l’ipotesi dei danni cagionati nell’esercizio della funzione giudiziaria era disciplinata dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, i cui presupposti non erano ravvisabili nella fattispecie dedotta dall’attore. Con sentenza n. 23783, depositata il 4 dicembre 2005, il Tribunale adito rigettò la domanda e condannò l’attore alle spese di lite. Avverso la sentenza di primo grado il C. propose gravame cui resistettero gli appellati. La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata in data 17 febbraio 2014, rigettò l’appello e compensò integralmente tra le parti le spese di quel grado. In particolare, la Corte osservò che 1 il Tribunale aveva affermato, in considerazione della presenza della legge n. 117/1988, l’insussistenza di un vuoto normativo che giustificasse il ricorso all’analogia. Tale affermazione non era stata specificamente censurata e, quindi, non sussistevano i lamentati vizi motivazionali per omessa valutazione delle ragioni addotte dall’attore circa l’assimilabilità della situazione di soggetto ingiustamente fallito con quella di soggetto ingiustamente detenuto 2 in ogni caso non ricorreva l’eadem ratio tra la disciplina dell’ingiusta detenzione e quella del risarcimento del danno da errore in sede civile 3 il Tribunale non aveva ritenuto inammissibile l’azione ex lege 117/1988 ma aveva reputato tale azione infondata, in quanto l’incompleta produzione documentale non consentiva di escludere che il fallimento fosse stato dichiarato sulla base di una non censurabile interpretazione delle norme 4 la domanda subordinata di risarcimento del danno da omessa attuazione dell’art. 24 Cost. era infondata, stante la presenza di una specifica normativa legge 117/1988 , rispetto alla quale non era stata sollevata alcuna eccezione di incostituzionalità. Avverso la sentenza della Corte territoriale C.L.E. ha proposto ricorso per cassazione basato su un unico motivo. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Ragioni della decisione 1. Osserva il Collegio che risulta irrilevante, nella specie, verificare se la pec degli intimati sia stata desunta v. relazione di notifica del ricorso correttamente o meno dall’indice della Pubblica Amministrazione INIPA e non da REGINDE, tenuto dal Ministero della Giustizia, in quanto il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ. di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato come nella specie, v. § 2 o inammissibile, appare superflua, pur potendone sussistere i presupposti, la fissazione del termine per la rinnovazione della notifica del ricorso o l’integrazione del contraddittorio , atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti Cass. 8 febbraio 2010, n. 2723 Cass., sez. un., 22 marzo 2010, n. 6826 Cass., ord., 13 ottobre 2011, n. 21141 Cass. 17/06/2013, n. 15106 . 2. Con l’unico motivo si lamenta Violazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3- 4, quanto alla Legge 3 aprile 1988 n. 117, all’art. 12 delle preleggi in relazione agli artt. 314, 315, 643 c.p.p. nonché degli artt. 3 e 24 C. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. . Ad avviso del ricorrente, la decisione della Corte di merito sarebbe illogica laddove ha ritenuto la sentenza di primo grado non affetta da vizi motivazionali o da contraddittorietà , in quanto l’aver escluso il Tribunale il ricorso all’analogia, sul presupposto dell’esistenza della legge 17/88, e l’aver poi tuttavia escluso l’applicabilità di tale legge, trattandosi di interpretazione di norme di diritto che non può mai dar luogo a responsabilità , non potrebbe ritenersi immune da vizi motivazionali . Altrettanto illogica sarebbe, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’eadem ratio tra le situazioni del fallito e del detenuto. 2.1 n motivo è infondato. 2.2. Con riferimento all’affermazione della Corte di merito, secondo cui le ragioni addotte dal Tribunale circa l’insussistenza di alcun vuoto normativo in punto di risarcimento di danni correlabili all’esercizio delle funzioni giudiziarie anche in ambito civile sono rimaste immuni da specifica censura, osserva il Collegio che quanto dedotto dal ricorrente a p. 2 e 3 del ricorso, oltre a difettare di specificità non avendo riportato testualmente le censure sollevate al riguardo in appello , non evidenzia che effettivamente, con le sue doglianze, il C. abbia efficacemente contestato le ragioni addotte dal Tribunale sul punto in questione. La Corte territoriale ha poi correttamente e motivatamente escluso l’invocato ricorso all’analogia per insussistenza della eadem ratio per la diversità dei beni in gioco v. sentenza impugnata p. 7 e al riguardo si evidenzia pure che, senza restrizioni personali, il fallito subiva, con il previgente testo dell’art. 49 l. fall., solo la limitazione della libertà di allontanarsi dalla residenza senza autorizzazione. Deve altresì escludersi che la pretesa mancata realizzazione del precetto costituzionale possa dare luogo a responsabilità, considerato anche che l’art. 24, quarto comma, Cost. non è di diretta applicazione, ma contiene una riserva di legge, necessaria per dare concretezza e determinatezza all’affermazione di principio. Inoltre, non riferendosi le norme di cui si chiede l’applicazione per analogia a casi simili o a materie analoghe a quelli di cui si discute nella presente causa, difettando, appunto, l’eadem ratio normativa, risulta manifestamente infondata - in caso di mancato ricorso all’invocato procedimento analogico - la prospettata questione di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., stante la diversità delle fattispecie a confronto e la prevista disciplina di cui alla legge 117/88, con la quale il legislatore ha operato un equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati. 2.3. Osserva, infine, il Collegio che sono inammissibili le censure motivazionali proposte. Si evidenzia che, essendo la sentenza impugnata in questa sede stata pubblicata in data 17 febbraio 2014, nella specie trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione novellata dal comma 1, lett. b , dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134. Alla luce del testo di detta norma, così come novellata, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4 del medesimo art. 360 cod. proc. civ. Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928 v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300 e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257 . E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia - nella specie all’esame non sussistente - si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione. Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia . Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Nella specie, con le censure formulate, per quanto attiene ai lamentati vizi motivazionali, il ricorrente non ha proposto le relative doglianze nel rispetto del paradigma legale di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 del codice di rito, non avendo neppure specificamente evidenziato quale sia il fatto storico cui si riferisce l’omesso esame ai sensi della norma appena richiamata, lamentato nella rubrica dell’unico motivo di ricorso. 3. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. 4. Non vi è luogo a provvedere per le spese del presente giudizio di legittimità, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede. 5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.