Per le frasi offensive contenute negli atti del processo non sempre scatta il risarcimento dei danni

L’istanza di cancellazione di frasi offensive e denigratorie contenute in un atto difensivo del giudizio ex art. 89 c.p.c. costituisce una mera sollecitazione per il Giudice che conserva sul punto un potere meramente discrezionale il cui mancato esercizio non può formare oggetto di impugnazione né possibilità di richiedere il risarcimento dei danni.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 30057 depositata il 14 dicembre 2017. Il fatto. Un avvocato proponeva ricorso per Cassazione nei confronti del proprio cliente avverso la sentenza della Corte distrettuale territorialmente competente con la quale, confermando la pronuncia di primo grado, il ricorrente era stato condannato alla restituzione delle somme percepite per le prestazioni eseguite nel periodo successivo alla scadenza del termine di sei anni dalla sua iscrizione nel registro dei praticanti avvocati dell’Ordine di appartenenza. In particolare, il Collegio, affermava che il praticante avvocato decorsi sei anni dall’iscrizione al relativo registro perdeva ex lege l’ammissione al patrocinio, anche in assenza di cancellazione dal registro stesso. Da ciò derivava la nullità ex art. 1418 c.c. delle relative prestazioni, ed il diritto alla ripetizione delle some versate dal cliente quale compenso in forza delle prestazioni medesime. Inoltre, il ricorrente denunciava in sede di legittimità l’omessa pronuncia in relazione alla domanda di cancellazione di frasi offensive e denigratorie contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado e conseguente domanda di risarcimento dei danni. Il cliente presentava controricorso. Norma di riferimento. Art. 89 c.p.c. Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive. Il giudice, in ogni stato dell'istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa . Gli Ermellini, hanno ritenuto, tra l’altro, inammissibile il motivo di predetto motivo ricorso sull’omessa pronuncia in relazione alla domanda ex art. 89 c.p.c. evidenziando con riguardo a tale doglianza che secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità, l’istanza di cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’esercizio del potere discrezionale del giudice e pertanto, nè il suo omesso esame né il suo mancato esercizio, può formare oggetto di impugnazione. Concludendo. I Giudici, pertanto, rigettano tutti i motivi di ricorso proposti e concludono affermando che il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti ex art. 89 c.p.c. citato, impedisce che il suo mancato esercizio possa essere motivo di censura in sede di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 4 ottobre – 14 dicembre 2017, numero 30057 Presidente Bianchini – Relatore Federico Esposizione del fatto L’avv. C.F. propone ricorso per cassazione, con quattro motivi, nei confronti di R.E. , avverso la sentenza della Corte d’Appello di Perugia numero 64/13, pubblicata il 15 gennaio 2013, con la quale, confermando la pronuncia di primo grado, la C. è stata condannata alla restituzione delle somme percepite in rapporto alle prestazioni eseguite, trattandosi di prestazioni rese nel periodo successivo alla scadenza del termine di sei anni dalla sua iscrizione nel registro dei praticanti avvocati dell’Ordine di Viterbo. La Corte d’Appello di Perugia, in particolare, premessa la tardività della produzione documentale effettuata dalla C. , e rilevato in ogni caso che i documenti suddetti non erano indispensabili ai fini della decisione, affermava che il praticante avvocato decorsi sei anni dall’iscrizione al relativo registro perdeva ex lege l’ammissione al patrocinio, anche in assenza di cancellazione dal registro dei praticanti. Da ciò la nullità ex art. 1418 c.c. delle relative prestazioni, ed il diritto alla ripetizione delle somme versate dal cliente quale compenso in forza delle prestazioni medesime. R.E. ha resistito con controricorso. La ricorrente ha altresì depositato memorie illustrative. Considerato in diritto Deve in via pregiudiziale disattendersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per violazione del principio di tassatività e specificità dei motivi. Ed invero, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purché la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura. Cass. 1370/2013 . Orbene, nel caso di specie, in relazione a tutti i motivi, sulla base della indicazione delle norme che si assumono violate e delle ragioni di fatto esposte, è chiaramente ed univocamente desumibile lo specifico vizio denunciato. Ciò premesso, il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cpc, censurando la pronuncia di inammissibilità della produzione documentale effettuata dall’odierna ricorrente nel giudizio di appello. Il motivo è inammissibile, in quanto non censura le ulteriori autonome rationes decidendi della pronuncia, vale a dire la tardività della produzione, trattandosi di documenti che avrebbero dovuto essere depositati, a pena di decadenza, contestualmente all’instaurazione del giudizio di appello Cass. Ss.Uu. numero 8203/2005 , ed il fatto che essi non erano indispensabili ai fini della decisione, secondo la formulazione dell’art. 345 cpc applicabile ratione temporis . Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 37 comma 3 Rd 1578/1933 e la violazione del principio di non applicabilità della legge meno favorevole al reo come stabilito dall’art. 7 CEDU, nonché del principio di tutela del contraddittorio e di legalità. Conviene premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte Cass. 4114 del 2 marzo 2016 , e come recentemente riconosciuto dalla Corte costituzionale Corte cost. numero 193 del 6.7.2016 , il principio penalistico della c.d. lex mitior non si applica alle sanzioni amministrative, né tanto meno alle controversie civili. Ciò posto non può che ribadirsi, come affermato dalle Sezioni unite di questa Corte Cass. Ss.Uu. 17761/08 , in tema di pratica forense, che l’art. 8 del r.d.l. numero 1578 del 1933 prevede uno speciale registro in cui sono iscritti i laureati in giurisprudenza che svolgono la pratica per la professione di avvocato, i quali, dopo un anno dalla iscrizione, sono ammessi, per un periodo non superiore a sei anni, ad esercitare, limitatamente a determinati procedimenti, il patrocinio davanti ai tribunali del distretto nel quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro medesimo. Una volta decorso il sessennio, l’iscritto non potrà più esercitare detto patrocinio, senza però dover subire la cancellazione dal registro anzidetto, in assenza di specifica previsione normativa che la contempli, potendo, quindi, mantenere l’iscrizione per coltivare l’interesse a proseguire la pratica forense non in veste informale, ma con una precisa qualifica ed in un rapporto di giuridica dipendenze con un professionista già abilitato. Né appare ravvisabile una situazione di overruling , in forza della quale restano salvi gli effetti degli atti processuali compiuti dalla parte che abbia fatto incolpevole affidamento sulla stabilità di una previgente interpretazione giurisprudenziale, atteso che l’indirizzo interpretativo su menzionato non ha comportato il mutamento dell’interpretazione di una regola del processo che preveda una preclusione o una decadenza in precedenza non prevista Cass.929/2017 esso concerne, al contrario, un determinato assetto normativo di carattere sostanziale, avente ad oggetto le condizioni per il legittimo esercizio del patrocinio. Il terzo motivo censura la statuizione dell’impugnata sentenza che ha affermato la nullità della prestazione professionale, in conseguenza del venir meno del patrocinio, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 Rd 37/1934, degli artt. 37 e 45 Rd 1578/1933, della 1.241/1990 e dell’art. 1418 c.c., deducendo che, non avendo essa ricorrente ricevuto alcuna comunicazione della cancellazione dal registro dei praticanti abilitati, ha continuato in buona fede ad esercitare la professione. Il motivo non ha pregio. Deve infatti ribadirsi che, come già evidenziato, una volta decorso il sessennio, l’iscritto non potrà più esercitare il patrocinio, senza dover necessariamente subire la cancellazione dal registro anzidetto, in assenza di specifica previsione normativa che la contempli. La cancellazione dal registro, dunque, né, a fortiori, la mancata comunicazione della stessa, non producono dunque alcun effetto sul venir meno del patrocinio, che discende, ex se, dal decorso del termine di sei anni. Il quarto motivo denuncia l’omessa pronuncia in relazione alla domanda di cancellazione di frasi offensive e denigratorie contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado e conseguente domanda di risarcimento dei danni. Il motivo è inammissibile. Quanto alla mancata cancellazione delle frasi c.d. sconvenienti e conseguente risarcimento del danno, si rileva che, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, l’istanza di cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’esercizio di detto potere discrezionale, di guisa che non può formare oggetto di impugnazione l’omesso esame di esso, né il mancato esercizio di suddetto potere Cass. 22186/2009 . Il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti di cui all’art. 89 cpc, dunque, impedisce che il suo mancato esercizio da parte del giudice di merito possa essere censurato in sede di legittimità Cass. 4963/2007 . Il ricorso va dunque respinto ed il ricorrente va condannato alla refusione delle spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater Dpr 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione ad R.E. delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 2.700,00 Euro, di cui 200,00 Euro per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater Dpr 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.