Gita di rafting finita male, club condannato

Una partecipante si è buttata da un ponte in un torrente ma ha riportato la frattura di un piede. Nonostante la condotta azzardata da lei tenuta, viene ritenuta prevalente la responsabilità degli organizzatori. Decisiva la lacuna relativa al contenimento dei rischi.

Gita finita male. La giornata all’insegna del rafting viene interrotta a causa dell’infortunio subito da uno dei partecipanti, una donna buttatasi in malo modo da un ponte in un torrente. Nonostante la condotta quantomeno azzardata da lei tenuta, responsabile per l’incidente è principalmente il club sportivo che ha organizzato e realizzato l’iniziativa. Cassazione, ordinanza 18903, Sezione Sesta Civile, depositata il 28 luglio scorso . Frattura. Ricostruito l’episodio, verificatosi in montagna, è emerso che la donna si è lanciata da un ponte in un torrente, dietro incitamento dell’organizzatore e ha riportato la frattura di un piede . Per i giudici, sia in Tribunale che in Appello, pur essendo evidente la corresponsabilità della vittima – lanciatasi tenendosi per mano con il marito e in un punto dove l’acqua era troppo bassa –, le colpe principali sono della struttura che ha messo su la gita dedicata al rafting . Consequenziale è la decisione con cui il club sportivo viene obbligato a risarcire i danni subiti dalla donna. Diligenza. Per i legali del club sportivo la decisione presa in Appello è sbagliata. Ciò perché l’organizzatore aveva esaurito il proprio obbligo di diligenza dando esatte indicazioni ai partecipanti alla gita che invece, viene osservato, hanno posto in essere un comportamento rischioso, non indicato e non evitabile . In particolare, viene evidenziato che la donna, dapprima spaventata, aveva deciso di rinunciare al salto, per poi eseguirlo abbracciata al marito e buttandosi da un punto sbagliato, nonostante gli inviti dell’organizzatore a non saltare . La visione prospettata dai difensori non è sufficiente però, secondo la Cassazione, a modificare la valutazione compiuta in Appello. In sostanza, i magistrati del ‘Palazzaccio’ sottolineano che l’organizzatore di un’attività sportiva obiettivamente pericolosa , come il rafting, deve predisporre una organizzazione adeguata sotto il profilo della protezione dei partecipanti, atta ad evitare danni a loro carico . Su questo fronte è emersa una lacuna evidente, secondo i giudici, nella gestione della giornata da parte del club sportivo, che avrebbe dovuto adottare tutte le cautele necessarie per contenere e non aggravare il pericolo e per impedire che venissero superati i limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 18 maggio – 28 luglio 2017, n. 18903 Presidente Amendola – Relatore Rubino Ragioni in fatto e in diritto della decisione La domanda di Cl. Hi. in We., volta ad ottenere nei confronti di Club Activ di Ob. He. la condanna al risarcimento dei danni alla persona riportati a seguito di una gita di rafting organizzata dal predetto club sportivo in cui, dietro incitamento dell'organizzatore, si lanciava da un ponte in un torrente riportando la frattura di un piede, veniva parzialmente accolta dal tribunale, che accertava la concorrente responsabilità della danneggiata nella misura di un terzo, con decisione integralmente confermata dalla Corte d'Appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con la sentenza n. 89 del 2016 qui impugnata. Il Club Activ di Ob. He. propone tre motivi di ricorso per cassazione nei confronti di Hi. in We. Cl. e di Faro Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione s.p.a., cui resiste la Hi. con controricorso. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ., su proposta del relatore, in quanto ritenuto manifestamente infondato. Il Collegio, all'esito della camera di consiglio, ritiene di condividere la soluzione proposta dal relatore. Il ricorso non contiene in effetti una chiara segnalazione degli errori di diritto in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata contesta che la sentenza impugnata non indichi le norme violate, sulle quali ha ritenuto di fondare la sua responsabilità contrattuale, fino a sconfinare nella nullità della motivazione. Contesta che la corte d'appello abbia ritenuto esistente la sua concorrente e prevalente responsabilità contrattuale nel verificarsi del danno in capo alla Hi., partecipante ad una escursione di rafting, perché, dopo aver illustrato ai partecipanti alla gita, nel momento della conclusione di essa, la possibilità di buttarsi da un ponticello nel torrente sottostante, non avrebbe posto in essere tutte le cautele necessarie ad evitare che questi potessero, nel porre in essere questa condotta pericolosa, provocarsi un danno, posizionando un assistente o controllando personalmente che essi si buttassero dall'esatto punto indicato e non dove l'acqua era troppo bassa, come ebbe a fare la danneggiata , né in limitate condizioni di autonomia, atte a condizionare i loro tempi di reazione la Hi. si buttò tenendosi per mano con il marito . Ritiene di aver esaurito il suo obbligo di diligenza nell'aver dato esatte indicazioni ai gitanti, alle quali questi non si sono attenuti, ponendo in essere un comportamento rischioso non indicato e non evitabile se non, sostiene il ricorrente, con la coazione fisica. Critica la sentenza anche sotto il profilo della motivazione, ritenendo che la corte d'appello non abbia tenuto conto di una serie di circostanze decisive che sono emerse con chiarezza dalla deposizioni testimoniali la chiarezza delle indicazioni date ai partecipanti e il mancato rispetto di esse da parte della danneggiata, che dapprima, spaventata, decideva di rinunciare al salto, per poi in effetti eseguirlo abbracciata al marito e buttandosi da un punto sbagliato, nonostante gli inviti del ricorrente a non saltare da quel punto. La sentenza impugnata resiste alle critiche mossele ed è coerente con la giurisprudenza di questa Corte laddove ha ritenuto che il ricorrente, che organizzava una attività sportiva obiettivamente pericolosa, non abbia predisposto una organizzazione adeguata sotto il profilo della protezione dei partecipanti, atta ad evitare a che da essa non sortissero danni a carico dei partecipanti. Deve ritenersi infatti che l'organizzatore di una attività sportiva che abbia caratteristiche intrinseche di pericolosità o che inserisca in una attività sportiva di per sé non pericolosa passaggi di particolare difficoltà, in cui il rischio di procurarsi danni alla persona per i partecipanti dotati di capacità sportive medie sia più elevato della media, debba, nell'ambito della diligenza dovuta per l'esecuzione della propria obbligazione contrattuale, illustrare la difficoltà dell'attività o del relativo passaggio e predisporre cautele adeguate a che quel particolare passaggio, se affrontato, sia nondimeno svolto da tutti i partecipanti in condizioni di sicurezza. Questa Corte ha infatti più volte affermato, specie all'interno di sentenze penali, che l'organizzatore e il gestore di attività sportive con caratteristiche di pericolosità quali il rafting si trovino in una posizione di protezione nei confronti nei confronti dei soggetti che a loro si rivolgono per praticare tale attività sportiva pericolosa e che, per andare esenti da responsabilità, debbano adottare tutte le cautele necessarie per contenere e non aggravare il rischio e per impedire che siano superati i limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva v. Cass. pen. n. 3446 del 2004, proprio a proposito del rafting, Cass. pen n. 16998\2006, Cass. pen n. 22037 del 2015 . Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo. Atteso che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza della ricorrente, la Corte, ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.600,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.