L'imprenditore che paga tangenti a funzionari del Comune può essere condannato a risarcire il danno all'immagine

Non può condividersi la tesi del ricorrente che esclude la possibilità di una tale condanna a carico di soggetto privo della qualifica di pubblico dipendente e circoscrive tale voce di danno ai soli casi di responsabilità contrattuale.

Così la Terza Sezione Civile nella sentenza n. 2695/2017, depositata il 2 febbraio 2017. Il caso. Il Tribunale di Torino aveva condannato tra gli altri un imprenditore a risarcire il danno all'immagine causato al Comune in seguito a fatti corruttivi, nei confronti di funzionari comunali, di cui si era reso responsabile. Nel successivo giudizio d'appello la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di condanna, escludendo solo la debenza di IVA e CPA, in quanto non dovuti. L'imprenditore svolgeva dunque ricorso per cassazione, sia sotto il profilo dell'erronea configurazione del reato di corruzione anziché di quello di concussione, che sotto il profilo della erronea liquidazione del danno all'immagine. Perché si tratta di corruzione e non di concussione. La Terza Sezione, nel respingere il ricorso, ha respinto i motivi di ricorso volti a far configurare nel caso di specie la qualificazione dei fatti come corruzione, anziché di concussione. In particolare, secondo la tesi del ricorrente, quella dei pagamenti era prassi diffusa e che coinvolgeva tutti gli imprenditori-aggiudicatari di un appalto, che dovevano confrontarsi coi funzionari comunali sarebbero stati anzi questi ultimi a richiedere le dazioni in denaro, in modo esplicito o implicito a seconda dei casi. Peraltro i pagamenti sempre secondo la tesi del ricorrente servivano per far compiere ai funzionari atti del loro ufficio, e non atti ad esso contrari. Secondo la Cassazione, da un lato le motivazioni utilizzate dalla Corte territoriale erano immuni da vizi di legge, e dall'altro l'applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. era stata effettuata sulla base dell'ipotesi di reato di corruzione e la richiesta di patteggiamento dell'imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato . Viene così ricordato il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il cd. patteggiamento, pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile, contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare . Inoltre, ha ricordato la Terza Sezione, non è corretto parlare di pagamenti effettuati per far sì che i funzionari svolgessero le attività del loro ufficio , considerato che i pagamenti evidentemente hanno fatto venir meno i principi di imparzialità e correttezza cui deve dovrebbe conformarsi l'attività dei funzionari pubblici. Relativamente alla distinzione tra corruzione e concussione, inoltre, la Cassazione ha ricordato il proprio orientamento per cui non si può nemmeno parlare di cd. concussione ambientale qualora il privato si inserisca in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della 'tangente' sia costante, atteso che in tale situazione viene a mancare completamente lo stato di soggezione del privato, che tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando dei meccanismi criminosi e divenendo anch'egli protagonista del sistema . Non sussiste il concorso di colpa del Comune. Dopo aver ribadito che anche a favore del Comune è liquidabile una danno all'immagine, la Cassazione rigetta anche la richiesta di corresponsabilità del Comune ex art. 1227, comma 1, c.c I giudici della Terza Sezione, infatti, hanno ritenuto che dai verbali riportati nel ricorso non vi sia prova della consapevolezza del Comune degli accordi corruttivi intervenuti tra l'imprenditore ricorrente e i dipendenti comunali e, conseguentemente, non è possibile imputare al Comune alcun omesso controllo.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 5 ottobre 2016 – 2 febbraio 2017, n. 2695 Presidente Chiarini – Relatore Scrima Svolgimento del processo Il Comune di Torino convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, tra gli altri, P.F. , O.G. , S.N. e A.R. , chiedendone la condanna al risarcimento dei danni provocati a seguito di dedotti episodi di corruzione, posti in essere dai convenuti e coinvolgenti funzionari del predetto ente. Per quanto rileva in questa sede, si costituirono, tra gli altri, P.F. e O.G. , eccependo il primo la prescrizione ed entrambi l’infondatezza della domanda proposta nei loro confronti. Il Tribunale adito, con sentenza n. 4897/11, depositata il 15 luglio 2011, accolse le domande risarcitorie formulate dal Comune di Torino. Avverso tale decisione proposero distinti gravami P.F. e O.G. . In entrambi i giudizi si costituì il Comune di Torino che chiese il rigetto delle proposte impugnazioni. La Corte di appello di Torino, pronunciando sugli appelli riuniti proposti da P. e da O. nei confronti del Comune di Torino, di S.N. e di A.R. , gli ultimi due appellati contumaci, escluso, dalla pronuncia di condanna dei convenuti in solido al rimborso delle spese processuali di primo grado - disposta nella sentenza appellata in favore del comune di Torino - il riferimento ad IVA e C.P.A come per legge, perché non dovuti, rigettò entrambi gli appelli proposti, condannò P.F. e O.G. , in solido tra loro, alle spese di quel grado in favore del Comune di Torino. Avverso la sentenza della Corte di merito P.F. ha proposto ricorso per cassazione basato su quattro motivi e illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso il Comune di Torino. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo, lamentando violazione art. 360 c.p.c. in relazione agli artt. 444 e 445 c.p.p. 319 c.p. 2730 e 2733 c.c. sul valore della confessione , sostiene il ricorrente che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare i soli fatti ammessi dall’imputato senza tener conto della qualificazione giuridica degli stessi contenuta nella decisione resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e il contesto in cui si erano svolti, posto che, come affermato dal giudice penale, svariati imprenditori effettuavano i pagamenti per essere agevolati nei pagamenti e nella stessa esecuzione delle opere affidate e cioè per far sì che i funzionari svolgessero le attività del loro ufficio. Ad avviso del P. , se la Corte avesse valutato il solo contenuto delle sue ammissioni, avrebbe dovuto concludere che, nella fattispecie, il reato commesso era quello di concussione e non di corruzione. 2. Il secondo motivo è così rubricato Violazione art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 12 delle preleggi al codice civile applicabile anche al diritto penale , 317 c.p. reato di concussione e 319 reato di corruzione nel testo previgente. Errata qualificazione giuridica del reato. Violazione art. 360 n. 5 c.p.c vizio logico a carico della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito per la qualificazione del reato di corruzione anziché concussione . Il ricorrente deduce che la Corte di appello, pur avendo affermato di aver tenuto conto delle risultanze delle cause penali, sarebbe pervenuta a conclusioni non conformi ai fatti emersi dall’istruttoria penale ed avrebbe, conseguentemente, errato nell’individuare la disciplina giuridica applicabile ai fatti di causa. Ad avviso del ricorrente, la diffusa prassi dei pagamenti che coinvolgeva tutti gli imprenditori che, aggiudicatisi un appalto, dovevano confrontarsi coi funzionari incriminati per svolgere la propria attività senza subire vessazioni e, quindi, i pagamenti che venivano richiesti sia in modo esplicito che implicito servivano per far compiere ai funzionari atti del loro ufficio e non ad esso contrari. Assume il ricorrente che se la Corte territoriale avesse tenuto conto dei fatti emergenti dalla complessiva istruttoria penale avrebbe concluso nel senso che il reato commesso sarebbe quello di concussione e che nulla il ricorrente dovrebbe a titolo di risarcimento del danno, in quanto parte lesa. 3. I primi due motivi - i quali, essendo strettamente connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati. Con i detti mezzi la parte ricorrente ripropone questioni già esaminate dalla Corte di merito e da questa disattese con argomentazioni del tutto condivisibili e immuni dai lamentati vizi di violazione di legge e di motivazione, sulla base delle risultanze processuali, anche emergenti dall’istruttoria penale. Si evidenzia che correttamente e motivatamente la Corte di merito, pur pervenendo alla medesima qualificazione giuridica del reato di cui si discute in causa operata prima dal P.M., con la richiesta di rinvio a giudizio, e poi dal G.U.P. nella sentenza ex art. 444 c.p.c., ha però operato un’autonoma valutazione delle predette risultanze processuali, osservandosi pure che l’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. è stata effettuata sulla base dell’ipotesi di reato di corruzione e che la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato Cass., sez. un., 31/07/2006, n. 17289 . Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p.p. - pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile - contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare Cass. 18/04/2013, n. 9456 Cass., ord., 6/12/2011, n. 26263 Cass. 19/11/2007, n. 23906 Cass., sez. un, 31/07/2006, n. 17289 v. anche di recente, Cass. 29/02/2016, n. 3980, secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione . A tanto va aggiunto che effettuare dazioni di denaro per essere agevolati nei pagamenti e nella stessa esecuzione delle opere affidate non significa certo, come sembra ritenere il ricorrente, effettuare tali dazioni per far sì che i funzionari volgessero le attività del loro ufficio v ricorso p. 14 , atteso che dette attività quanto meno venivano poste in essere, nel caso di specie, in violazione dei principi di imparzialità e correttezza cui deve conformarsi l’attività dei funzionari pubblici. Pertinente risulta poi, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, il richiamo della Corte territoriale al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di distinzione tra i reati di corruzione e concussione, non è ravvisabile l’ipotesi della concussione cosiddetta ambientale qualora il privato si inserisca in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della tangente sia costante, atteso che in tale situazione viene a mancare completamente lo stato di soggezione del privato, che tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando dei meccanismi criminosi e divenendo anch’egli protagonista del sistema Cass. pen., 12/04/2011, dep. 26/04/2011, n. 16335 principio ribadito da Cass. pen. 11/01/2011 dep. 28/06/2011, n. 25694 . Come evidenziato dalla Corte di merito, peraltro, il P. ha seguito uno schema di comportamento ormai radicato da più generazioni nell’impresa da lui gestita, avendo il medesimo fatto riferimento a una consuetudine , ad una situazione ereditata dal padre e dal nonno ed affermato che il pagamento al fine di ingraziarsi i funzionari comunali e ottenere una serie di utilità . data da moltissimo tempo , il che denota la sussistenza di un rapporto paritetico e non vessatorio tra i dipendenti comunali e l’imprenditore ora ricorrente. 3. Con il terzo motivo si lamenta violazione art. 360 n. 3 in relazione agli artt. 10, 2043, 2059 c.c. danno all’immagine . Deduce il ricorrente che la Corte di appello lo avrebbe condannato per il profilo dell’esistenza e l’entità del danno all’immagine subito dal Comune nella misura di Euro 85.000,00. Tale sentenza, ad avviso del P. , non sarebbe corretta in quanto non sarebbe liquidabile un danno all’immagine nei confronti di soggetto che non sia un dipendente dell’ente, in quanto il soggetto privato compirebbe un reato che provoca un danno all’immagine di sé stesso e non dell’ente di cui sarebbero responsabili solo i suoi funzionari. 3.1. Il motivo è infondato. Correttamente la Corte di merito ha condannato il ricorrente al risarcimento del danno all’immagine in favore dell’ente pubblico, evidenziandosi che non può condividersi la tesi del ricorrente che esclude la possibilità di una tale condanna a carico di soggetto privo della qualifica di pubblico dipendente e circoscrive tale voce di danno ai soli casi di responsabilità contrattuale v. in motivazione anche Cass. 16 febbraio 2010, n. 3672 . 4. Con il quarto motivo si lamenta violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 1227/1 e 2056 c.c. con riferimento all’art. 41 c.p. . Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata dovrebbe essere comunque annullata per violazione delle richiamate norme e, conseguentemente, il Comune dovrebbe essere considerato corresponsabile del danno da esso subito in quanto l’art. 1227 c.c. si applica anche alla Pubblica Amministrazione. Alla luce di quanto emerso dall’intera istruttoria penale emergerebbe, secondo il ricorrente, che i funzionari avrebbero preteso il pagamento di somme di denaro con le modalità e per le ragioni illustrate in ricorso per contestare la qualificazione giuridica del reato individuata dalla Corte territoriale. Ad avviso del P. , attivando i controlli interni previsti dalla normativa, l’Amministrazione avrebbe potuto avvedersi del comportamento dei propri funzionari ed evitare o comunque ridurre il danno di cui dovrebbe essere chiamata a rispondere e, pertanto, anche il Comune sarebbe responsabile ex art. 1227 c.c 4.1. Il motivo è infondato. Non è configurabile nella specie l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, primo comma, c.c., contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, atteso che, dagli stessi estratti dei verbali riportati in ricorso, non vi è prova della consapevolezza del Comune degli accordi corruttivi tra il convenuto e i dipendenti comunali sicché non può al predetto ente imputarsi un omesso controllo con riferimento ai fatti di cui si discute in causa, tenuto conto anche delle modalità degli stessi. 5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. 6. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, tra le parti costituite, mentre non vi è luogo a provvedere per dette spese nei confronti degli intimati, non avendo essi svolto attività difensiva in questa sede. 7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori, come per legge ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.