Accensione dell’impianto di riscaldamento prima del collaudo: esclusa la responsabilità dell’installatore

Nell’ipotesi di appalto che non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera, non viene meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza. Ne consegue che nessun rimprovero può essere mosso all’appaltatore nel caso in cui l’opera si trovi al di fuori del suo potere di controllo, nell’esclusiva disponibilità del committente.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 23915 del 22 ottobre 2013. Il caso. Due coniugi citano in giudizio i soggetti incaricati per l’installazione dell’impianto di riscaldamento nella loro abitazione al fine di chiederne la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa del malfunzionamento dell’impianto stesso. In particolare, era accaduto che, a seguito dell’accensione dell’impianto da parte del fratello dell’attore, la famiglia era rimasta intossicata a causa di esalazioni nocive. Nel giudizio successivamente instaurato, si costituivano i convenuti, i quali eccepivano che il suddetto impianto non era stato completato e che la mancanza del foro di aerazione era stata segnalata all’attore ed a suo fratello il giorno precedente all’accensione. La domanda veniva quindi respinta sia dal Giudice di primo grado che dal Giudice d’appello, sull’assunto che l’impianto non era stato ultimato e non risultava essere stata effettuata alcuna operazione di collaudo, né la consegna dell’opera. Gli attori si rivolgono quindi alla Corte di Cassazione. Autonomia del giudizio civile rispetto al giudizio penale. In primo luogo, i ricorrenti lamentano la mancata valutazione, da parte dei Giudici di merito, della sentenza penale emessa a conclusione del processo instaurato a carico dei convenuti per il reato di lesioni personali colpose, con la quale era stato dichiarato estinto il reato ascritto per effetto del decreto di amnistia di cui al d.p.r. 865/86. A tal proposito, la Suprema Corte osserva che, la disposizione di cui all’art. 652 c.p.p. così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 c.p.p. , la quale attribuisce efficacia di giudicato all’accertamento contenuto nella sentenza penale rispetto al giudizio civile o amministrativo instaurato per le restituzioni e il risarcimento, costituisce un’eccezione al principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, perciò non è applicabile, in via analogica, oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che solo alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, può riconoscersi una simile efficacia, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente. Pertanto, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione. Nessuna responsabilità per danni da cose in custodia. Passando ad esaminare, nello specifico, i profili di responsabilità astrattamente ascrivibili agli appaltatori nel caso di specie, la Suprema Corte esclude che possa trovare applicazione la fattispecie di cui art. 2051 c.c., in tema di danno da cosa in custodia. Ed invero, i Giudici di legittimità respingono la ricostruzione dei ricorrenti secondo cui sussisteva un obbligo, in capo agli appaltatori, titolari del potere di signoria e di ingerenza sulla res , di controllare lo stato dell’impianto e impedire che quest’ultimo potesse, in qualunque modo, arrecare danno a terzi. A tal proposito, si evidenzia che, nell’ipotesi di appalto che non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza. Nella fattispecie de qua , tale dovere gravava sui ricorrenti, che avevano il potere esclusivo di accedere nell’appartamento dove si trovava l’impianto. Pertanto agli appaltatori non può essere imputata alcuna violazione dell’art. 2051 c.c. in quanto gli stessi non avevano alcuna possibilità di controllo sull’uso dell’impianto. Nessuna responsabilità per danni da attività pericolosa. La Suprema Corte ritiene che debba altresì escludersi la sussistenza di una responsabilità ex art. 2050 c.c. per l’esercizio di attività pericolose. Infatti, se è vero che l’installazione di un impianto di riscaldamento può considerarsi attività pericolosa, è vero anche che la normativa di prevenzione prevista in materia si riferisce solo alle specifiche tecniche da seguire per la realizzazione dell’impianto, mentre la responsabilità extracontrattuale va ricollegata al fatto dell’accensione, alla quale gli appaltatori erano rimasti estranei. Interruzione del nesso causale. Da ultimo i ricorrenti lamentano la mancata applicazione, da parte dei giudici di merito, in ordine all’accertamento del nesso di causalità materiale di cui all’art. 2043 c.c., del principio della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale di cui agli artt. 40 e 41 c.p. Nel dichiarare infondata la censura, la Cassazione osserva che, secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità, in tema di illecito aquiliano, affinché rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo, deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso. Nella specie, l’iniziativa del fratello dell’attore, il quale aveva acceso l’impianto pur essendo a conoscenza della mancata messa in opera della canna fumaria, ha interrotto il nesso di causalità tra il comportamento degli appaltatori e il danno subito dai ricorrenti, risultando da solo idoneo a determinare il danno stesso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 17 settembre - 22 ottobre 2013, n. 23915 Presidente Massera – Relatore D’Amico Svolgimento del processo M T. e D C. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Frosinone, P.A. e V S. per sentirli condannare al pagamento della somma di L. 20.000.000 a favore del T. e della somma di L. 35.000.000 in favore della C. , a titolo di risarcimento dei danni materiali, fisici e morali che assumevano di aver subito a causa del malfunzionamento di un impianto di riscaldamento installato dagli stessi convenuti. Esponevano gli attori che Massimo T. nel 1983 aveva affidato a questi ultimi l'installazione del suddetto impianto nella sua abitazione e che lo stesso era stato completato e consegnato al committente nel mese di marzo 1986. Dichiaravano altresì gli attori che il 6 aprile 1986 il fratello di M T. aveva acceso l'impianto e che essi, dopo averlo spento, si erano recati a dormire. Il giorno seguente la madre di M T. aveva trovato il figlio e la nuora intossicati a causa delle esalazioni di tale impianto. Per questa ragione il T. e la C. erano stati trasportati in ospedale. Si costituirono A P. e S.V. eccependo che il suddetto impianto non era stato completato e che la mancanza del foro di aerazione era stata segnalata all'attore ed a suo fratello Silvio il giorno precedente all'accensione. In via riconvenzionale chiedevano condannarsi gli attori al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. e comunque T.M. al pagamento della somma dovuta per i lavori da loro effettuati. Il Tribunale di Frosinone respinse sia la domanda attrice che la domanda riconvenzionale. Proposero appello M T. e D C. . La Corte d'appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale dichiarando che correttamente il primo giudice aveva ritenuto non provata la responsabilità dei convenuti perché l'impianto non era stato ultimato e non risultava essere stata effettuata alcuna operazione di collaudo, né la consegna dell'opera. Propongono ricorso per cassazione M T. e C.D. con sei motivi più memoria. Resistono con controricorso A P. e S.V. . Anch'essi presentano memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo i ricorrenti denunciano Insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio - art. 360 comma I n. 5 cpc . Violazione dell'art. 116 c.p.c. art. 360 n. 3 cpc ”. Secondo i ricorrenti la Corte d'appello ha omesso di esaminare sia la testimonianza di S T. sia la testimonianza di P.V. , dipendente e fratello del convenuto A P. . Quanto alla testimonianza del teste Pr. i ricorrenti segnalano poi che lo stesso era un ausiliare degli appaltatori e che all'udienza del 27 giugno 1994 egli aveva rilasciato dichiarazioni inverosimili per esonerare i convenuti dalla responsabilità loro contestata. Il giudice d'appello, ad avviso dei ricorrenti 1 ha fatto proprie in maniera assolutamente generica le argomentazioni del primo giudice, senza esprimere le ragioni della conferma di tale pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti 2 non ha fatto alcun riferimento alla sentenza penale emessa dal Pretore a conclusione del processo instaurato a carico dei convenuti per il reato di cui all'art. 590 c.p.c. con la quale è stato dichiarato estinto il reato ascritto per effetto del decreto di amnistia di cui al DPR 865/86. Il motivo è infondato. I ricorrenti sviluppano infatti solo argomentazioni attinenti al merito della vicenda, mentre il Tribunale, nella sua motivazione, prendendo in esame le varie risultanze processuali, ha correttamente indicato le ragioni per cui ha ritenuto non provata la responsabilità di A P. e V S. . In particolare la sentenza impugnata, sulla scorta della ctu, ha accertato che l’impianto non era stato ultimato e che non era stata eseguita alcuna operazione di collaudo e consegna dello stesso prima dell'accensione, effettuata da S T. al di fuori di ogni intervento e controllo degli appaltatori. In tal senso il Tribunale ha ritenuto attendibile la testimonianza del Pr. secondo il quale l'incontro fra l'appaltatore e gli appellanti avvenne per trattare il pagamento dei lavori da ultimare. Per le ragioni esposte deve ritenersi che la decisione del Tribunale si fonda su una valutazione discrezionale delle prove e che la stessa, proprio in quanto correttamente motivata ed immune da vizi logici o giuridici, è insindacabile in sede di legittimità. Per contro, le argomentazioni del ricorrente si sostanziano nella critica, sotto un profilo di merito, del contenuto decisorio della sentenza impugnata e non possono quindi essere prese in considerazione in questa sede. Per quanto riguarda poi il rapporto fra giudizio penale e giudizio civile in caso di amnistia va rilevato che, in tema di giudicato, la disposizione di cui all'art. 652 c.p.p., cosi come quelle degli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice, costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è pertanto applicabile, in via analogica, oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima , pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente ne consegue altresì che, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2011, n. 1768 . Con il secondo motivo si denuncia Violazione e falsa applicazione dell'art. 1173 - 1176 - 1177 cc 1655 2050 e 2051 cc art. 360 n. 3 cpc ”. Sostengono i ricorrenti che la decisione della Corte d'appello, la quale ha ritenuto non sussistere la responsabilità contrattuale dei convenuti perché l'opera non era stata completata e consegnata come funzionante, è errata per i seguenti motivi a perché nel contratto di appalto, quale quello stipulato fra le parti, l'appaltatore è tenuto a realizzare l'opera a regola d'arte, osservando la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. b perché durante tutto il tempo dell'esecuzione dell'opera, e fino alla consegna all'appaltante, il dovere di custodia e di vigilanza sulla cosa da consegnare passa dal committente all'appaltatore il quale è tenuto per contratto sia ad impedire che la cosa sia distrutta o si deteriori, sia che essa possa causare danni al committente. L'obbligo di custodire l'impianto è infatti incluso in quello di riconsegna e la diligenza del buon padre di famiglia che qualifica l'adempimento della obbligazione di custodire la cosa del terzo da parte del custode è del tutto uguale a quella richiesta all'appaltatore a cui carico è posta, ope legis , l'obbligazione di consegnare la cosa che sta realizzando, trattandosi di obbligazione accessoria e funzionale al contratto. Con il terzo motivo si denuncia Nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell'art. 112 cpc in relazione all'art. 360 n. 4 cpc omesso esame di un motivo di appello. Violazione degli art.li 2050 - 2969 cc. Dm 7.6.1973 n 724800 Approvazione e pubblicazione delle tabelle Uni Gig di cui alla legge 6.12.1971 n 1083 Art. 1 della legge 6.12.71 n. 1086 e dell'art. 1176 cc”. Sostengo i ricorrenti che il giudice d'appello è incorso in violazione dell'art. 112 c.p.c. in quanto non si è pronunciato sulla responsabilità dei convenuti ai sensi dell'art. 2050 cc, sollevata in appello, perché l'installazione di un impianto di riscaldamento a gas deve considerarsi attività pericolosa. Con il quarto motivo si denuncia Nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell'art. 112 cpc in relazione all'art. 360 n. 4 cpc - Omessa pronuncia sui motivi di appello. Violazione dell'art. 1655 - 2051 e 2043 cc in relazione all'art. 360 n. 3 cpc”. Sostengono i ricorrenti che il giudice del gravame è incorso in violazione dell'art. 112 c.p.c., per non essersi pronunciato sulla questione dell'applicabilità dell'art. 2051 cc, nonostante gli appellanti avessero censurato la sentenza di primo grado per aver implicitamente ritenuto non sussistere la responsabilità degli appaltatori ai sensi di tale disposizione. Nel caso di specie, ad avviso di T. e C. , gli appaltatori S. e P. , titolari dell'effettivo potere di signoria e di ingerenza sulla res, erano obbligati, ai sensi della suddetta disposizione, a controllare lo stato dell'impianto e ad impedire che quest'ultimo, completo dell'allaccio del gas e dell'accensione elettrica ma privo dei tubi di scarico, potesse, per effetto di intrinseco dinamismo proprio, ovvero per la insorgenza di prevedibili agenti causali esterni, arrecare danno a terzi. I tre motivi, che per la stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, sono infondati. In particolare, quanto al profilo della dedotta responsabilità dell'appaltatore, si deve osservare che, nell'ipotesi di appalto che non implichi, come nel caso di specie, il totale trasferimento all'appaltatore del potere di fatto sull'immobile nel quale deve essere eseguita l'opera appaltata, non viene meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza Cass., 18 luglio 2011, n. 15734 . Nella fattispecie de qua tale dovere gravava quindi sugli attuali ricorrenti che avevano il potere di accedere nell'appartamento dove si trovava l'impianto di riscaldamento. Deve poi escludersi che sussista una responsabilità ai sensi dell'art. 2050 c.c Infatti, se è vero che l'installazione di un impianto di riscaldamento può considerarsi attività pericolosa, è anche vero che la normativa richiamata dai ricorrenti si riferisce solo alle specifiche tecniche da seguire per la realizzazione dello stesso, mentre la responsabilità extracontrattuale è correttamente ricollegata dalla Corte d'appello al fatto dell'accensione, alla quale gli appaltatori sono rimasti estranei. Emerge al riguardo dalla decisione della Corte d'appello che l'intempestiva accensione dell'impianto fu dovuta all'iniziativa di S T. , fratello del ricorrente, il quale agì pur essendo a conoscenza della mancata messa in opera della canna fumaria e al di fuori di ogni intervento e controllo degli appaltatori. A questi ultimi non può pertanto essere imputata alcuna responsabilità per essere rimasti estranei al fatto dell'accensione. Né si rileva alcuna violazione dell'art. 2051 c.c. in quanto gli appaltatori non avevano alcuna possibilità concreta di controllo sull'uso dell'impianto, essendo lo stesso collocato all'interno dell'appartamento dei coniugi del quale essi avevano l'esclusiva disponibilità. Deve peraltro rilevarsi che i quesiti formulati da parte ricorrente a conclusione dei motivi esaminati sono meramente valutativi, mentre non sussiste omessa pronuncia in quanto la violazione delle richiamate disposizioni deve ritenersi implicitamente disattesa. Con il quinto motivo si denuncia Violazione e falsa applicazione degli art. 40 e 41 c.p. e dell'art. 2043 cc art. 360 n. 3 cpc ”. Sostengono i ricorrenti che il convincimento della Corte d'appello, secondo la quale non sussiste la responsabilità extracontrattuale degli appaltatori perché gli stessi sono rimasti estranei al fatto dell'accensione, è in contrasto con gli artt. 2043 c.c. e 40 e 41 c.p In specie, secondo i ricorrenti, la Corte d'appello, per stabilire se sussistesse il nesso di causalità materiale di cui all'art. 2043 c.c. fra comportamento e danno, non ha correttamente applicato, alla luce del pacifico orientamento della Suprema Corte, il principio della conditio sine qua non , temperato da quello della regolarità causale di cui agli artt. 40 e 41 c.p Ad avviso di T. e C. la condotta omissiva degli appaltatori è stata la causa dell'evento ai sensi dell'art. 40 c.p. in quanto se questi ultimi avessero disattivato l'impianto la successiva accensione da parte di S T. non avrebbe causato alcun danno. Il motivo è infondato. È infatti giurisprudenza consolidata di questa Corte che, in tema di illecito aquiliano, perché rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l'evento lesivo, deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell'evento e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento stesso. Nella specie l'iniziativa di S T. ha interrotto il nesso di causalità tra il comportamento degli appaltatori e il danno subito dagli attuali ricorrenti, risultando da solo idoneo a determinare il danno stesso. Con il sesto motivo si denuncia Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia art. 360 n. 5 cpc . Violazione dell'art. 116 cpc art. 360 n. 3 cpc ”. Sostengono i ricorrenti che i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente motivato né hanno fatto buon uso del loro potere di valutazione della prova e di libero convincimento. Nella specie la mera accensione dell'impianto da parte di T.S. non costituisce, a loro avviso, né un atto eccezionale, né un atto imprevedibile e la stessa non sarebbe stata da sola sufficiente a determinare l'evento se non vi fosse stata la condotta omissiva degli appaltatori. Per tale motivo i ricorrenti ritengono illogica la motivazione laddove afferma che l'accensione dell'impianto sarebbe avvenuta fuori dal controllo degli appaltatori. Il motivo ripropone argomenti già sollevati nei precedenti e pertanto non si può che rinviare alle risposte elaborate in relazione agli stessi, sottolineando comunque che le critiche formulate da parte ricorrente nei confronti dell'impugnata sentenza non vertono su questioni di diritto ma su accertamenti di fatto dei quali si richiede una nuova valutazione nel merito, più favorevole agli stessi T. e C. . Ne risente la formulazione dei quesiti che risultano essenzialmente valutativi. Per tutte le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.