Espressioni offensive, per il risarcimento è competente il giudice che le ha lette

Il potere di assegnare al soggetto offeso da espressioni diffamatorie, pronunciate nel corso di un procedimento, una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, spetta, a conclusione del giudizio, al giudice della causa nel cui ambito furono scritte o proferite.

Nel caso di specie la Cassazione sent. n. 20593/12 depositata il 22 novembre ha escluso la risarcibilità in ragione della richiesta avanzata dall’offeso nel corso di un autonomo e distinto procedimento. Diffamazione La questione affrontata dalla Cassazione nella sentenza in esame tratta dell’esimente di cui all’art. 598 c.p. in relazione alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dalla parte offesa nel corso di un procedimento civile. Richiamando il testo dell’art. 598 c.p. è appena il caso di ricordare come lo stesso preveda che non siano punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'Autorità amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo. e risarcimento del danno. Se il primo comma individua chiaramente l’esimente della norma penale, il secondo comma assegna al giudice il potere di riconoscere alla persona offesa, nella pronuncia sulla causa, una somma a titolo di risarcimento del danno. La peculiarità del caso analizzato risiede nella circostanza che l’offeso in un procedimento penale, avanza richiesta di risarcimento del danno nel corso di un autonomo procedimento civile, in cui la domanda viene effettivamente respinta. La Cassazione, nel confermare il rigetto della richiesta risarcitoria, attraverso il richiamo al principio di diritto secondo cui spetta al giudice della causa, nell’ambito della quale furono pronunciate le frasi, decidere se accordare o meno il risarcimento in realtà, sembra criticare la scelta operata dall’offeso in merito al capo d’impugnazione della pronuncia. In effetti, muovendo da una premessa, i giudici di legittimità lasciano intendere che più correttamente l’offeso avrebbe dovuto impugnare la qualificazione dei fatti da cui l’offesa nasceva, opponendosi alla loro sussunzione nella categoria delle attività difensive svolte mediate scritti. Il caso. Un avvocato proponeva domanda di risarcimento danni per diffamazione avverso un soggetto che, nel corso di un procedimento penale promosso dal medesimo professionista a suo carico, aveva indirizzato alla Procura della Repubblica competente, al Presidente del Tribunale ed al Pretore, una lettera con cui erano attribuiti al legale dei comportamenti maniacali, una tendenza alla persecuzione ed alla denuncia facile. L’offensore avanzava domanda riconvenzionale. Il Tribunale respingeva entrambe le richieste. La Corte Territoriale chiamata a decidere il caso su appello avanzato dall’avvocato, pur considerando sussistente l’illecito, lo riteneva non punibile, riconoscendo operante, nel caso di specie, la circostanza di cui all’art. 598 c.p I giudici dell’appello, infatti, ritenevano che le espressioni utilizzate nella lettera, pur essendo oggettivamente offensive, erano state utilizzate dall’offensore ai fini della propria difesa ed indirizzate alle sole autorità interessate dal processo. Avverso la decisione l’avvocato proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi. Resisteva l’offensore con controricorso. Con il primo motivo veniva denunciata la violazione dell’art. 598 c.p. e dell’art. 111 Cost Argomentava il ricorrente che sebbene la norma esimente invocata dalla Corte di Appello sancisse la non punibilità delle espressioni contenute negli scritti difensivi, la stessa, tuttavia, non escludeva l’illiceità del comportamento e la colpevolezza del suo autore. Con il secondo motivo il ricorrente contestava la violazione dell’art. 2697 c.comma 112 e 115 c.p.comma in relazione alla circostanza per cui l’offensore non aveva mai richiesto nel corso del processo l’applicazione dell’esimente pertanto la Corte di Appello intervenendo di ufficio era incorsa nella violazione del principio dispositivo e nell’ultra petizione. La competenza è del giudice della causa nell’ambito della quale le espressioni offensive furono scritte. La Cassazione, nel decidere il caso, analizza i due motivi di ricorso in modo congiunto statuendone l’infondatezza. I giudici di legittimità chiariscono in via preliminare che il ricorrente non ha inteso sicuramente contestare l’inquadramento delle offese contenute nelle missive nell’alveo della fattispecie ex art. 598 c.p In effetti il professionista non ha svolto alcuna specifica doglianza in relazione alla qualificazione delle espressioni come attività difensiva, motivo per cui la predetta questione viene ritenuta definitivamente coperta da giudicato. Partendo da questo preambolo, gli Ermellini sostengono che la domanda di risarcimento del danno avanzata dal ricorrente dovesse essere considerata improponibile sin dall’origine. Sostiene la Cassazione che la competenza a decidere sulla richiesta risarcitoria, nella fattispecie in esame, è di competenza del giudice della causa nell’ambito della quale le espressioni offensive furono scritte. In effetti, l’orientamento secondo cui il giudice della causa è l’unico competente a valutare, a conclusione del giudizio, se la giustificazione delle offese debba escludere anche la risarcibilità del danno patrimoniale, risulta consolidato in giurisprudenza Cass. pen. n. 36627/2008 Cass. pen. n. 6701/2006 . Tale ragionamento, a giudizio del collegio, è confortato anche dall’art. 89 c.p.c., comma 2, secondo cui il giudice, con la sentenza che decide la causa, può assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 17 ottobre – 22 novembre 2012, n. 20593 Presidente Finocchiaro – Relatore Lanzillo Svolgimento del processo L'avv. G S. ha proposto domanda di risarcimento dei danni per diffamazione contro G D.M. poiché questi - nel corso del processo penale promosso a suo carico davanti al Tribunale di Nola - aveva inviato alla Procura della Repubblica di Nola, al Presidente del Tribunale di Nola ed al Pretore di S. Anastasia, lettere con cui attribuiva al S. - che aveva sporto la denuncia nei suoi confronti - comportamenti maniacali ed in particolare manie di persecuzione, tendenze alla denuncia facile, ed altre espressioni ritenute offensive. Il D.M. ha resistito alla domanda, proponendo domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni. Il Tribunale di Nola ha respinto sia la domanda attrice, ritenendo insussistente l'illecito, sia la domanda riconvenzionale. Proposto appello dal S. , a cui ha resistito il D.M. , la Corte di appello di Napoli ha ritenuto sussistente l'illecito, ma lo ha considerato non punibile, ai sensi dell'art. 598 cod. pen., sul rilievo che le espressioni usate dal D.M. , pur se oggettivamente offensive, erano attinenti alla propria difesa nel processo penale ed erano state indirizzate solo alle autorità interessate dal processo medesimo. Il S. propone due motivi di ricorso per cassazione. Resiste il D.M. con controricorso, illustrato da memoria. Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 598 cod. pen. e 111 Cost., il ricorrente afferma che la norma in oggetto dispone la non punibilità delle espressioni offensive contenute negli scritti difensivi, ma non esclude l'illiceità del comportamento, né la colpevolezza dell'autore tanto è vero che dispone che di tali espressioni si possa chiedere la cancellazione e che all'offeso possa essere attribuita una somma in risarcimento del danno non patrimoniale. Con il secondo motivo denuncia violazione degli art. 2697 cod. civ., 112 e 115 cod. proc. civ., nonché vizi di motivazione, sul rilievo che il D.M. non ha mai eccepito, nel corso del processo, il suo diritto al'immunità e non ha mai chiesto l'applicazione dell'esimente, sicché la Corte di appello - provvedendo d'ufficio - è incorsa in violazione del principio dispositivo ed in ultra petizione. 2.- I due motivi - che debbono essere congiuntamente esaminati perché connessi non sono fondati, pur se deve essere modificata la motivazione della sentenza impugnata. 3.- Va premesso che non è stata proposta impugnazione avverso il capo della sentenza di appello che ha qualificato i fatti ed il comportamento del D.M. come attività difensiva, svolta mediante gli scritti presentato dalla parte o dal suo difensore nel processo penale. La circostanza che la fattispecie rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 598, 1 comma, cod. pen. e sia in quanto tale coperta dall'esimente ivi prevista è perciò questione coperta da giudicato e non più discutibile. 4.- Se così è, la domanda del ricorrente di risarcimento dei danni avrebbe dovuto essere dichiarata fin dall'inizio improponibile, poiché la competenza a decidere sulla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale per le offese contenute negli scritti presentati nei procedimenti dinanzi alla autorità giudiziaria, scriminabili ai sensi dell'art. 598 cod. pen., spetta solo al giudice della causa nell'ambito della quale furono scritte le frasi offensive, il quale è l'unico idoneo a valutare, a conclusione del giudizio, se la giustificazione di quelle offese debba escludere anche la risarcibilità del danno non patrimoniale eventualmente patito da colui a cui furono rivolte Cass. Pen. Sez. 6, 30 settembre 2005 n. 39934 Cass. Pen. Sez. 5, 8 febbraio 2006 n. 6701 Idem, 9 maggio 2008 n. 36627 . Trattasi di principio consolidato, che trova testuale riscontro anche nella disposizione dell'art. 89, 2 comma, cod. proc. civ., secondo cui il potere di assegnare una somma in risarcimento dei danni non patrimoniali alla parte offesa da espressioni sconvenienti od offensive pronunciate nel corso della causa spetta al giudice investito della cognizione della causa medesima. In questo senso deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata, che va confermata nel dispositivo. 5.- Entrambi i motivi debbono essere rigettati. 6.- Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo in relazione al valore della domanda risarcitoria, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per onorari oltre agli accessori previdenziali e fiscali di legge.