Ricorso per autofallimento e onore probatorio dell’imprenditore: non basta la volontà di fallire

Ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità oppure dei requisiti di fallibilità in caso di ricorso per la dichiarazione di fallimento presentato dallo stesso imprenditore sono ammissibili strumenti probatori alternativi al deposito dei bilanci degli ultimi tre esercizi, tuttavia gli eventuali strumenti probatori alternativi devono avere ineluttabilmente riferimento, con riguardo ai requisiti dimensionali, al medesimo periodo cui si riferisce l’articolo 1 l. fall. ovvero gli ultimi tre esercizi .

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 16117/19, depositata il 14 giugno. Il caso. In seguito al rigetto di un reclamo contro una sentenza di fallimento, la società fallita ha presentato ricorso per Cassazione. Si trattava di una società inattiva da molto tempo e quindi uno dei motivi del gravame era fondato sulla circostanza che la Corte d’appello avesse errato nel ritenere la sussistenza dei requisiti dimensionali dettati dall’art. 1 l. fall., in quanto essendo la società inattiva dal 2009 non era possibile che negli ultimi tre esercizi antecedenti la domanda di fallimento avesse avuto un attivo patrimoniale superiore ad € 300.000,00 e ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore ad € 200.000,00, tanto più che l’assenza di domande di fallimento dal 2009 dimostrava sia l’insussistenza di poste debitorie sia l’insussistenza dello stato di insolvenza. La decisione della Corte. La Suprema Corte accoglie il ricorso della società dichiarata fallita. Trattandosi di fallimento dichiarato su ricorso presentato in proprio la Corte coglie l’occasione per sottolineare che in tali casi è comunque necessario verificare la sussistenza dei requisiti dimensionali precisamente di almeno uno di essi e lo stato di insolvenza, elementi che formano oggetto dell’onere probatorio gravante sull’imprenditore che desidera fallire. Nel caso di specie la sentenza della Corte d’appello viene cassata in quanto non era stata raggiunta tale prova la società infatti non aveva integrato la documentazione come richiesto dal Tribunale. Si rendeva quindi necessario addivenire ad una pronuncia di rigetto dell’istanza di fallimento presentata dall’imprenditore in proprio.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 maggio – 14 giugno 2019, n. 16117 Presidente Didone – Relatore Di Marzio Fatti di causa 1. - Con sentenza del 1 marzo 2016 la Corte d’appello di Campobasso ha respinto il reclamo proposto da G.F. e Di Pardo Salvatore, nei confronti di Ga.Do. nonché del Fallimento Srl, contro la sentenza del 29 gennaio 2015 con cui il locale Tribunale aveva dichiarato il fallimento della società. Ha in particolare ritenuto la Corte territoriale, disattendendo le censure in proposito spiegate dai reclamanti - che non occorresse, per la proposizione del ricorso per autofallimento, il rilascio della procura alle liti - che il presidente del collegio sindacale in prorogatio, Ga.Do. , fosse legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento, in quanto a ciò espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci - che non poteva discorrersi di una rinuncia per fatti concludenti al ricorso per autofallimento, giacché tale rinuncia avrebbe richiesto una deliberazione in tal senso dell’organo assembleare - che, alla luce del bilancio 2016, desunto dal successivo bilancio pur non approvato 2017, neppure essendo stati approvati bilanci successivi, risultavano sussistenti i presupposti per la dichiarazione di fallimento, sia quanto ai requisiti di fallibilità, sia quanto allo stato di insolvenza, visto che la società versava in una situazione di squilibrio finanziario. 2. - Per la cassazione della sentenza G.F. ha proposto ricorso per quattro mezzi. Gli intimati non hanno spiegato difese. Il Procuratore Generale ha concluso per il parziale accoglimento del quarto motivo del ricorso, nel resto rigettato. Ragioni della decisione 1. - Il ricorso contiene quattro motivi. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 82 c.p.c. nonché dell’art. 6 della legge fallimentare, censurando la sentenza impugnata per aver escluso che il presidente del collegio sindacale della società dichiarata fallita dovesse munirsi, ai fini della proposizione del ricorso per autofallimento, della difesa tecnica. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 6, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto il presidente del collegio sindacale legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento della società, non avvedendosi che la relativa deliberazione assembleare era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti e che quelli presenti non avevano nominato il presidente del collegio sindacale procuratore speciale, ma si erano limitati a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento, istanza che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 1, 6 e 14, sostenendo che la Corte d’appello non si sarebbe avveduta che il ricorso per dichiarazione di fallimento era stato rinunciato, tanto più che non era stata effettuata la produzione della documentazione richiesta ai fini della dichiarazione di fallimento. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 1, 5 e 14, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto la presenza dei requisiti dimensionali dettati dall’art. 1 della legge, dal momento che, essendo la società inattiva almeno dal 2009, non era possibile che negli ultimi tre esercizi antecedenti la domanda di fallimento avesse avuto un attivo patrimoniale superiore a Euro 300.000 e ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore a Euro 200.000, tanto più che l’assenza di domande di fallimento dal 2009 dimostrava sia l’insussistenza di poste debitorie, sia l’insussistenza dello stato di insolvenza in ogni caso la decisione della Corte d’appello non poteva essere fondata sul bilancio chiuso al 31 dicembre 2006, neppure allegato alla domanda di fallimento e, ancora, lo stato di insolvenza andava scrutinato non già secondo i parametri adottati dal giudice di merito, ma tenuto conto dello stato di liquidazione della società. 2. - Il ricorso va accolto nei limiti che seguono. 2.1. - Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1. La questione proposta con tale censura, infatti, è stata già scrutinata da questa Corte, la quale ha avuto modo di affermare il principio, che non v’è ragione di rimeditare, secondo cui il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al Tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato Cass. 18 agosto 2017, n. 20187 , restando soltanto da aggiungere, con riguardo al caso di specie, che il ricorrente non ha neppur dedotto l’insorgenza di un contraddittorio qualificato. 2.2. - Anche il secondo motivo è inammissibile. In particolare, esso è inammissibile laddove volto a lamentare l’errore commesso dalla Corte d’appello nell’omettere di considerare a che la delibera con la quale era stato conferito al presidente del collegio sindacale l’incarico di richiedere il fallimento della società era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti b che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, il ricorso per autofallimento poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società. Siffatte circostanze, difatti, non sono in alcun modo menzionate nella sentenza impugnata e, per vero, neppure nell’espositiva del ricorso per cassazione, ove non si dà affatto conto nè della prospettazione della questione concernente l’esorbitanza della delibera rispetto all’oggetto previamente comunicato, nè dell’allegazione dell’impedimento alla proposizione del ricorso per autofallimento da parte di soggetti diversi dal legale rappresentante della società. Sicché trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675 . Il motivo è parimenti inammissibile laddove diretto a sostenere che l’assemblea della società non avrebbe conferito al presidente del collegio sindacale alcuna procura speciale a proporre il ricorso per autofallimento, ma si sarebbe limitata a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento. Ed infatti la Corte d’appello ha affermato che il presidente del collegio sindacale era stato espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci al deposito del ricorso per dichiarazione di fallimento, il che trova perfetta conferma nella stessa trascrizione del verbale assembleare contenuto a pagina 10 del ricorso ove si legge Il Presidente ritiene che l’unica soluzione per superare la fase di stallo è quella di presentare istanza di fallimento al Tribunale competente. I soci presenti sentita la proposta del Presidente all’unanimità approvano danno mandato lo stesso Presidente di procedere agli atti conseguenti . Sicché non è dato comprendere in che cosa tale mandato sarebbe generico e perché avrebbe precluso all’incaricato di proporre la domanda di autofallimento. 2.3. - Il terzo motivo è inammissibile giacché non attacca la ratio decidendi posta dalla Corte d’appello a fondamento della decisione. Il giudice di merito ha difatti ritenuto che, una volta deliberata dall’assemblea la proposizione del ricorso per autofallimento, sarebbe occorsa una manifestazione di volontà di segno contrario la parte della stessa assemblea. A fronte di ciò il ricorrente sostiene che tale motivazione sarebbe manifestamente illogica in quando confonde la decisione assunta dalla società di presentare istanza di fallimento attraverso la delibera assembleare con la condotta processuale mantenuta dalla stessa società che l’ha rinunciata tacitamente non avendola coltivata ma tale argomentare non scalfisce affatto la motivazione addotta dalla Corte territoriale, giacché non spiega in qual modo il comportamento tacito della società non si sa peraltro in qual modo attuato, essendo essa rimasta semplicemente silente potrebbe mai aver integrato una manifestazione di volontà di segno contrario rispetto a quella risultante dalla deliberazione adottata, nè come il presidente del collegio sindacale, incaricato di presentare il ricorso per autofallimento, potesse disattendere la volontà della società che tale incarico aveva conferito. 2.4. - Il quarto motivo, con cui lamenta sia che la Corte d’appello abbia fondato il proprio giudizio in ordine alla sussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità su un risalente bilancio, sia che il giudice di merito abbia apprezzato la sussistenza dello stato di insolvenza in base a criteri non pertinenti alla situazione di liquidazione, è fondato per quanto di ragione. 2.4.1. - Quanto al primo aspetto, non può revocarsi in dubbio, anzitutto, che l’imprenditore il quale proponga ricorso per autofallimento in tanto possa vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza la dichiarazione di fallimento, cioè, richiede anche in tal caso, e con tutta evidenza, la sussistenza dei presupposti fissati in via generale dalla L. Fall., artt. 1 e 5. Ciò che distingue il ricorso per dichiarazione di fallimento da quello volto all’autofallimento non è dunque la latitudine dei presupposti, che sono i medesimi in entrambi i casi, bensì il riparto degli oneri probatori, che, in caso di autofallimento, si atteggiano diversamente dall’ipotesi consueta di fallimento richiesto dal creditore. In particolare, sull’autofallimento il legislatore si sofferma alla L. Fall., art. 14, stabilendo, sotto la rubrica Obbligo dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento , che L’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancelleria del Tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero l’intera esistenza dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata. Deve inoltre depositare uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti, l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi, l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto . La norma si esprime quindi in termini di obbligo di effettuazione di determinate produzioni documentali, sia, espressamente, nella rubrica, che nel testo della disposizione deve depositare Deve inoltre depositare il che potrebbe far supporre che essa sottoponga il ricorso per autofallimento ad uno speciale requisito di procedibilità. Ritiene tuttavia il Collegio, anche per ragioni di simmetria con la disciplina del riparto dell’onere probatorio in caso di fallimento richiesto dal creditore, che non di obbligo si tratti, bensì di onere nel senso che il mancato deposito della documentazione prevista può assumere rilievo per i fini della mancata dimostrazione della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, con conseguente rigetto del ricorso per autofallimento. In tale prospettiva, è senz’altro da ritenere che, in sede di ricorso per autofallimento, debba essere l’imprenditore a provare la sussistenza dello stato di insolvenza, in ossequio alle regole generali ed altresì in conformità allo scopo di evitare il possibile abuso nell’accesso alla procedura fallimentare, nella misura in cui essa si presenta, dall’angolo visuale dello stesso imprenditore, anche come strumento di soluzione della crisi d’impresa. Di guisa che il Tribunale rigetterà senz’altro il ricorso ove lo stato di insolvenza non risulti comprovato. Ma è parimenti da ritenere gravante sull’imprenditore, onerato della prova del fatto costitutivo della domanda di autofallimento, la dimostrazione, nel quadro di applicazione del citato art. 14, della sussistenza di almeno uno dei requisiti dimensionali normativamente considerati ai fini della fallibilità. Occorre cioè rilevare, nella materia, che gli artt. 1 e 14 mostrano una formulazione simmetrica, nel senso che nell’un caso, quello del fallimento richiesto da un creditore, è l’imprenditore a dover provare l’inesistenza congiunta di tutti i presupposti dimensionali della fallibilità nell’altro caso egli deve al contrario provare l’esistenza di almeno uno dei presupposti per la fallibilità. Il che è del resto ovvio, giacché nel primo caso l’imprenditore resiste alla domanda di fallimento, nell’altro caso agisce per ottenere la dichiarazione di fallimento. In tale prospettiva va richiamata la decisione della Corte costituzionale che, nel dichiarare l’inammissibilità della questione di costituzionalità della L. Fall., art. 1, comma 2, ha disatteso l’argomento, riferito al caso dell’istanza di autofallimento, volto a sostenere che, essendo lui stesso istante ed avendo, pertanto, in ipotesi un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi all’onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di fallimento anche là dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi . In proposito, il Giudice delle leggi ha osservato che per privare di significato il pur suggestivo rilievo, basti osservare che la L. Fall., art. 14 prevede, a carico del debitore che chieda il proprio fallimento, degli adempimenti istruttori - significativamente qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri - tali da rimuovere le preoccupazioni paventate dal tribunale rimettente Corte Cost. 24 giugno 2009, n. 198 . È in definitiva da ritenere che l’omesso deposito della documentazione di cui alla L. Fall., art. 14 operi in senso inverso rispetto all’art. 1 della stessa legge, e che, dunque, tale omissione comporti la mancata dimostrazione della ricorrenza dei requisiti dimensionali di fallibilità, rimanendo in potere del giudice di attivare, nei limiti in cui il codice di rito lo consente, i propri poteri officiosi. Ora, è vero che, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, sono ammissibili strumenti probatori alternativi al deposito dei bilanci degli ultimi tre esercizi di cui alla L. Fall., art. 15, comma 4, Cass. 26 novembre 2018, n. 30541 ma è altrettanto vero che gli eventuali strumenti probatori alternativi devono avere ineluttabilmente riferimento, con riguardo ai requisiti dimensionali, al medesimo periodo cui si riferisce la L. Fall., art. 1 in caso contrario lo stesso scrutinio di detti requisiti ne rimarrebbe stravolto. Sicché, nel caso in esame, la Corte d’appello è incorsa in errore nell’osservare, puramente e semplicemente, che le immobilizzazioni, nel 2006, ammontavano a Euro 2.620.462,00, giacché ciò non implicava affatto la sussistenza dei requisiti dimensionali in discorso, che andavano invece scrutinati in riferimento all’arco temporale di cui si è detto. 2.4.2. - Con riguardo al secondo aspetto, il motivo è assorbito, dovendosi peraltro osservare che altro è la società in liquidazione -riguardo alla quale la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L. Fall., art. 5, deve essere diretta unitamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali p. es. Cass. 3 agosto 2017, n. 19414 - altro la società semplicemente inattiva. 3. - La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. dichiara inammissibili i primi tre motivi ed accoglie il quarto per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione.